* di Salvatore Vicario
La guerra in Yemen scatenata dopo la decisione del Consiglio di Cooperazione del Golfo, sotto la direzione del reazionario regime monarchico dell’Arabia Saudita, di iniziare i bombardamenti in territorio yemenita, continua dallo scorso 26 Marzo causando ad oggi, secondo alcune stime, circa 500 vittime e oltre 20.000 sfollati. I media hanno presentato il conflitto in corso con la classica interpretazione dei fatti basata su considerazioni religiose ed etniche: da un lato i ribelli sciiti Houthi e dall’altro il governo sunnita. I primi sostenuti dal potere sciita iraniano e i secondi dal potere saudita sunnita. Questa interpretazione che si realizza per tutti gli scontri che si sviluppano in Medio Oriente, permette di evitare di parlare dell’essenza, ossia della natura stessa di questi conflitti.
Gli Houthi sono la principale forza della rivolta contro il regime pro-saudita e filo-americano di Abdo Rabbo Mansour Hadi, e hanno il sostegno di una parte della popolazione yemenita a lungo emarginata, e delle forze dell’ex presidente deposto Ali Abdullah Saleh (al potere dal ’90 dopo la fine della Repubblica Popolare dello Yemen del Sud), di cui Hadi era il vice prendendo il suo posto nel 2012 in una transizione politica controllata dagli USA le cui operazioni droni hanno ucciso oltre 700 combattenti in 3 anni. I combattenti Houthi hanno conquistato la capitale Sana’a nel mese di Settembre, tra cui il parlamento, giungendo di recente a Taiz, controllando la maggior parte del territorio nazionale. L’Arabia Saudita è intervenuta militarmente alla guida di una coalizione partecipata da 10 paesi della regione, tra cui l’Egitto, e con il sostegno degli USA, per evitare che gli Houthi prendessero il controllo della fondamentale città portuale di Aden nel sud dello Yemen. Qui infuria la battaglia più cruenta della guerra in corso, con i ribelli Houthi che hanno schierato i carri armati e l’artiglieria per sferrare l’offensiva sulle forze governative di Hadi che nel frattempo si è rifugiato in Egitto. Le forze governative cercano di avanzare verso Mualla, a Sud di Aden, per arrivare al porto dove le forze saudite ed egiziane sono pronte a far arrivare rifornimenti dal mare. Il Golfo di Aden e soprattutto lo stretto di Bab Al Mandah, da dove passa il 40% del petrolio esportato, rappresentano nodi strategici cruciali per le rotte commerciali delle petroliere e i mercantili diretti verso l’Europa e l’Asia. In quest’area si concentrano importanti rotte navigabili strategiche del Mediterraneo verso l’Asia meridionale e l’Estremo Oriente, attraverso il Canale di Suez, il Mar Rosso e per l’appunto il Golfo di Aden da dove transitano, infatti, gran parte delle esportazioni industriali cinesi verso l’Europa Occidentale. Il Golfo di Aden e il Canale di Bab Al Mandah (confine tra Gibuti e Yemen) con il Canale di Suez (Egitto), lo Stretto di Hormuz (confine tra Iran e Oman) e lo Stretto di Malacca (tra Indonesia e Malesia) rappresentano le 4 vie d’accesso fondamentali per il commercio marittimo internazionale tra il Medio Oriente, l’Asia Orientale e l’Africa con l’Europa e le Americhe. Basta questo per capire la posta in gioco.
Lo Yemen, paese strategico nelle rotte marittime del petrolio, è al centro di una grande battaglia per il controllo delle risorse energetiche e il loro trasporto, nella morsa dell’avidità e della concorrenza dei grandi monopoli del petrolio e del gas e degli Stati che assicurano a questi monopoli le basi militari per imporsi. Allo stesso modo che in Libia, Iraq e Siria, anche nello Yemen le contraddizioni inter-imperialiste portano a conflitti che distruggono la vita della maggioranza della popolazione per imporre equilibri regionali e locali, politici e militari, funzionali allo sfruttamento delle risorse petrolifere e di gas attraverso il controllo delle istituzioni statali nazionali. E’ abbastanza evidente che le forze coinvolte nel conflitto non sono mosse primariamente da questioni di carattere “religioso”, “culturale” e “etnico” ma dagli interessi geostrategici delle borghesie locali e imperialiste nel processo di nuova spartizione delle zone d’influenza per l’accesso alle risorse, alle vie di comunicazione ecc… dove l’uso della forza militare è sempre più il fattore più importante, in particolare per la principale potenza imperialista che agisce a livello globale, ossia gli Stati Uniti d’America le cui mosse sono finalizzate ad escludere l’influenza delle maggiori potenze concorrenti nel controllo della regione, ossia la Russia, la Cina e l’Iran con cui sono di recente giunti ad un compromesso di carattere diplomatico sul nucleare.
La redistribuzione del potere a livello internazionale infuria anche intorno alle questioni monetarie e finanziarie: dopo la Banca di Sviluppo fondata dai BRICS insieme a un loro fondo di riserva, di fronte al dominio globale del dollaro, la Cina ha di recente lanciato la Banca Asiatica d’Investimento per le infrastrutture, a cui partecipano anche Regno Unito, Germania, Francia, Italia e Giappone, nonostante gli sforzi degli USA per impedire questi scenari. Allo stesso tempo questi paesi lavorano insieme nelle istituzioni finanziarie internazionali del FMI e dell’UE e dall’alleanza militare della NATO con gli USA. Le contraddizioni all’interno del sistema imperialistico sono enormi così come i livelli di interdipendenza tra le varie potenze ognuna delle quali gioca la sua partita, con le alleanze funzionali agli obiettivi, in base al loro determinato sviluppo capitalistico, economico, politico e militare. Queste contraddizioni alimentano i conflitti nella componente militare ricordando sempre che la “guerra è la continuazione della politica con altri mezzi”. Gli Stati Uniti, principale potenza imperialista e militare al mondo, ricorre al suo apparato militare, sia statale che privato, per conservare il suo predominio e il controllo delle zone d’influenza, in ogni angolo della terra, causando allo stesso tempo la crescita nella produzione, nella tecnologia e nell’esportazione di armi da parte delle altre potenze in linea comunque con il loro proprio sviluppo e esigenze.
In Yemen, come ovunque, i popoli non hanno nulla di buono da guadagnare dall’imperialismo, dalle sue guerre e associazioni internazionali. Le lotte dei popoli in tutto il mondo, per l’indipendenza e contro il capitalismo, sono e saranno decisive per rompere le catene e rovesciare le guerre imperialiste su scala globale contro le proprie borghesie, paese per paese, superando le artificiali divisioni settarie religiose e etniche.