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La strage di Bologna, 44 anni dopo

Il 2 agosto 1980 a Bologna si consuma uno dei capitoli più tragici della storia repubblicana, l’apice della “strategia della tensione”. Alle 10.25 l’esplosione di una bomba distrugge l’ala ovest della Stazione centrale, estremamente affollata per le vacanze estive, uccidendo 85 persone e ferendone altre 200. È la strage più sanguinosa della storia d’Italia.

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La strage di Bologna non è un episodio isolato, ma l’ultimo atto di una stagione di attentati di matrice neofascista che attraverso gli anni sessanta e settanta scuote il paese. Decenni di indagini hanno reso noto che i responsabili materiali della strage furono esponenti dei NAR (Nuclei Armati Rivoluzionari, gruppo terroristico neofascista) con il supporto di ex militanti di Avanguardia Nazionale e Ordine Nuovo, forti del sostegno politico ed economico della loggia massonica P2 e del supporto organizzativo di esponenti dei servizi segreti.  Ma la responsabilità politica del terrore nero ricade su un numero maggiore di persone: settori della borghesia che, con il chiaro obiettivo di indebolire il movimento operaio e allontanare la prospettiva del socialismo in Italia, sostennero gruppi neofascisti con il supporto e la copertura da parte della Nato, dei servizi segreti italiani e statunitensi, allacciando rapporti anche con la criminalità organizzata. 

Dal conflitto mondiale, infatti, l’Italia era uscita come un paese temprato dalla guerra partigiana, con il più grande Partito comunista dell’Europa occidentale e una classe operaia formatasi politicamente nel fuoco vivo della Resistenza, pronta a lottare per una società basata su tutt’altri presupposti da quella che aveva partorito il fascismo. A partire dagli anni ‘50 i governi italiani tentano per via legale di soffocare il movimento comunista e le sue prospettive rivoluzionarie: “si apre la discussione sulle leggi eccezionali, sulle limitazioni del diritto di sciopero, lo scioglimento delle organizzazioni contrarie all’ordine costituito, meccanismi che consentano una maggiore sicurezza dello stato di fronte al pericolo di un tentativo rivoluzionario.” Solo attraverso consistenti mobilitazioni sindacali e di massa questo processo venne neutralizzato.

In una fase storica che si andava caratterizzando per un nuovo protagonismo delle lotte operaie e per la crescita del movimento comunista, al netto delle sue criticità, nella borghesia italiana si faceva spazio il timore di una radicalizzazione di queste lotte in senso rivoluzionario. Man mano che la conflittualità dei lavoratori aumentava e le loro rivendicazioni minacciavano sempre più seriamente lo status quo, le soluzioni repressive riconosciute dall’ordinamento legale fino a quel momento si andavano dimostrando inefficaci e insufficienti. L’esigenza padronale di proteggere e garantire la propria posizione di forza, nonché di scongiurare uno scoppio rivoluzionario, richiedeva soluzioni differenti, extralegali. Con l’obiettivo di instillare nella popolazione uno stato di insicurezza, così da legittimare l’implementazione di provvedimenti autoritari e indebolire l’attrattiva dei comunisti, vengono progettate in Italia una serie di stragi e depistaggi.

Nel torbido di queste operazioni si trovano collegamenti a realtà criminali ed extralegali  come le mafie e la massoneria. Ma lo stesso si può dire dei servizi segreti del Ministero dell’Interno e della Difesa, oltre a organizzazioni parallele specificamente anticomuniste quali il “Noto servizio”, costituito da industriali, politici, funzionari statali e militari, che faceva capo direttamente a Giulio Andreotti, e il cui scopo era precisamente la lotta al comunismo cercando appoggi nella criminalità organizzata e nella destra neofascista.

La natura del terrorismo nero come ulteriore strumento dei padroni contro il movimento operaio e comunista in lotta, e il suo inquadramento nello sforzo per arginare le prospettive del socialismo, è resa chiaramente dal ruolo di Gladio,  organizzazione paramilitare radicata tra le gerarchie militari, nata sin dai primissimi giorni dell’Italia liberata dalla volontà congiunta della borghesia italiana e della CIA come strumento di vigilanza e repressione armata.

Ma la strage di Bologna ci impone riflessioni che vadano oltre il contesto contingente e la mera storiografia. Ci impone di considerare la natura di classe del nostro stato e della sua “democrazia” . È una verità che il movimento comunista conosce da tempo: nelle parole di Lenin «lo Stato è la manifestazione degli antagonismi inconciliabili tra le classi», questo vuol dire che in regime capitalista lo Stato è lo strumento della borghesia nella lotta di classe, e di fronte a questo non c’è “democrazia” che tenga. I bisogni del modo di produzione capitalista trovano, anzi, uno strumento, quando possibile, nello Stato democratico. La democrazia non può che essere di classe: al pari dello Stato è essenzialmente borghese e in quanto tale resta appropriamento del potere da parte di una minoranza rispetto alla maggioranza, ai lavoratori.

Le belle idee, la pace, il senso di giustizia… lo Stato borghese è pronto a scrollarsi di dosso questo vestito pulito in ogni momento: quando può lo fa all’interno del suo apparato costituzionale, ma nel momento in cui la classe operaia è abbastanza forte da sventare questi tentativi non si fa scrupoli a passare alla più brutale repressione.
Pensare che il solo carattere particolare degli anni settanta italiani possa spiegare il massacro delle 85 vittime di Bologna – e delle molte altre della “strategia della tensione” nel suo complesso – significa accettare la retorica borghese di semplice condanna della violenza politica in favore di un’esaltazione della nonviolenza e della concordia sociale, riducendo il conflitto al semplice scontro di opinioni, alla sola dinamica elettorale. È lo stesso terreno su cui si basa l’antistorica equiparazione tra nazifascismo e comunismo, i due “opposti estremismi” ai quali contrapporre la democrazia liberale. Queste posizioni mirano a criminalizzare la lotta del proletariato per la sua liberazione, paragonandola alla violenza fascista, e a nascondere come la borghesia, tanto in regime fascista quanto in democrazia, è sempre pronta a opprimere la classe operaia e le masse popolari.

Il separare lo stragismo dalla concezione classista dello Stato è una condanna a trovarsi impreparati di fronte alle attuali e future forme di repressione che il movimento operaio si troverà a dover affrontare. Senza un’organizzazione che sappia comprendere e smascherare la natura di questi fenomeni e coordinare una reazione efficace, la classe operaia si troverà sempre disarmata di fronte a questi attacchi. In un momento in cui si intensificano le misure criminali contro i sindacalisti e il tentativo sistematico di restringere lo spazio legale per la lotta di classe si fa sempre più palese, il partito è necessario per dare respiro alla lotta, per mettere in mano ai lavoratori lo strumento per respingere il tentativo dello Stato di ricacciarli nell’immobilismo. Senza una direzione e una rappresentanza politica propria la classe operaia non può rispondere alla repressione: le istanze dei lavoratori non possono essere rappresentate da partiti che fanno gli interessi dei loro carnefici, serve il Partito Comunista.

Anche se gli “Anni di Piombo” sono finiti i rapporti di classe allora vigenti persistono. Non possiamo dimenticare il passato, dobbiamo indicare la natura anticomunista e antipopolare del terrorismo nero con la piena coscienza che il capitale è disposto a ricorrere a qualsiasi strumento di fronte alla lotta organizzata dei lavoratori. Il responsabile della strage di Bologna è il dominio di una classe su un’altra: per questo, nonostante la mano fascista, sappiamo che quella del 2 agosto 1980 è stata una strage di Stato.

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