* di Lorenzo Soli
«In Italia nessuno potrà essere antifascista, perché l’antifascista non può essere italiano.» Roberto Farinacci, segretario PNF (1925-1926)
INTRODUZIONE
Con il crollo del blocco sovietico alla fine del secolo scorso e l’ampliamento incontrollato dell’egemonia capitalistica nel contesto globale, si è potuto vedere un portentoso incremento della propaganda anticomunista in ogni ramo dell’educazione e della vita pubblica, tesa essenzialmente a consolidare i rapporti di forza e le divisioni di classe esistenti. Essa ha avuto conseguenze notevoli, riuscendo efficacemente in una complessiva operazione di rimodellamento dei valori e della mentalità individuale e collettiva delle diverse società (soprattutto quelle occidentali), sfruttando al contempo l’assenza di una controparte che fosse in grado di tenerle testa sul piano ideologico e intellettuale, ma anche solo sul semplice piano dell’analisi e della contestualizzazione di determinati fatti o di determinate dinamiche. L’Italia, naturalmente, non è stata da meno a questo processo. A causa poi della passata presenza del partito comunista più forte del mondo capitalistico avanzato e alla sua successiva liquidazione interna, si è venuta a generare una situazione di assoluta confusione e di assoluta incomprensione dei fatti storici che si stavano, e che tutt’ora si stanno, evolvendo.
Il Fronte della Gioventù Comunista, in questo senso, parte dalla concezione di Antonio Gramsci secondo cui la lotta a livello pratico, che si manifesta tramite l’azione organizzata e cosciente della classe operaia e delle masse popolari, non si può dissociare da una intensa attività intellettuale tesa a sovvertire l’egemonia culturale del sistema vigente, perché se è vero che la struttura capitalistica si regge su precise logiche che tutti avrebbero la possibilità di analizzare e di criticare, di fatto questa stessa è cementificata da tutta una serie di concezioni e condizioni culturali, confacenti a mantenerla in piedi in nome di determinati interessi, che sviano da ogni approccio metodologico e scientifico teso ad indagare la realtà materiale che si presenta quotidianamente ai nostri occhi.
Basta porsi questo elementare ma importante quesito: quanti dei valori e delle conoscenze che ci attribuiamo e che dominano il nostro stile di vita e il nostro modo di pensare possono essere considerati genuinamente autoctoni e indipendenti e quanti invece una naturale conseguenza di una impostazione esterna, di una sovrastruttura culturale fondamentalmente irrazionale ma con delle precise finalità riscontrabili nel mondo reale?
Uno dei campi più colpiti da questo revisionismo e debellamento di ogni corrente opposta al totalitarismo corrente del Capitale è stato certamente lo studio della storia. La filosofia marxiana si fonda come scienza fondamentalmente storica, di analisi della storia come corpo in evoluzione determinato dalle condizioni materiali esistenti, dunque dall’interazione delle forze socio-economiche derivanti dal grado di sviluppo delle forze produttive.
Ricordare perciò il passato partendo da adeguate contestualizzazioni e analisi dei dati, della statistica e dei fatti reali comprovati da attente documentazioni, è operazione quanto mai necessaria affinché la memoria degli eventi non sia annebbiata, ma sia la premessa per una presa di coscienza illuminante.
Oggi è il momento di analizzare il caso delle “foibe” e dell’esodo italiano dalle frontiere orientali dell’Istria e della Dalmazia, commemorate da una festa nazionale (istituita soltanto nel 2004 dal secondo governo Berlusconi) chiamata la “Giornata del Ricordo”, che ci riporta alla mente in maniera assai confusa e assolutamente fuori luogo un’altra “Giornata della Memoria” ben più importante e che di fatto, se compresa nella giusta maniera, basterebbe per scardinare già da subito questa artificiosa ricorrenza. Ma così sarebbe troppo riduttivo.
Su questo argomento è dunque necessaria, in quanto comunisti, una presa di posizione chiara e senza alcun tipo di fraintendimento, che ristabilisca delle fondamentali verità e che offra ai lettori di questo scritto una visione più ampia dei fatti e della reale portata di questa commemorazione.
LA POLITICA FASCISTA NELLE TERRE “IRREDENTE”
Innanzitutto partiamo dalla definizione di “foibe”, termine alquanto evocativo che ha perso totalmente la sua connotazione originaria: esse non sono altro che insenature e gole tipiche del territorio carsico della regione al confine tra l’Italia e le attuali Slovenia e Croazia.
Vediamo dunque ciò che la retorica oramai consolidatasi esplica: durante la Seconda Guerra Mondiale nei territori della Venezia Giulia, venne perpetrata dall’esercito partigiano jugoslavo e comunista di Tito una sistematica politica di pulizia etnica della comunità italiana residente che avrà come conseguenza l’uccisione di migliaia di civili e di soldati molti dei quali nei pressi delle foibe, dove venivano massacrati cadendo dai dirupi o con precedenti fucilazioni di massa, e la successiva espulsione da questi territori della comunità stessa.
Andiamo ad analizzare i fatti, partendo da uno studio su quella che fu la politica del fascismo nelle zone coinvolte durante l’arco del Ventennio.
Il fascismo, molto semplicemente, fece propria la concezione che esaltava il primato storico ed ideale della nazione come entità forte ed omogenea, il che comportava l’esclusione di tutto ciò che nella storia e nella società veniva considerato un corpo estraneo. Facendo questo, il fascismo identificò volutamente se stesso come unico rappresentante dell’Italia e degli italiani. La frase all’inizio dell’articolo di Roberto Farinacci, famoso “ras” di Cremona e poi gerarca del regime, lo esplicita in maniera inequivocabile.
L’antifascista era dunque non solo l’oppositore politico, ma chiunque non si conformasse all’idea di società imposta dal regime, creando le premesse per una persecuzione crudele e sistematica di tutta una serie di categorie sociali, quali le minoranze religiose, i sudditi coloniali, gli omosessuali e i celibi, le minoranze linguistiche ed etniche.
Sulle minoranze linguistiche ed etniche noi sappiamo che queste divennero assai consistenti dopo la fine della Grande Guerra con l’annessione al Regno delle regioni del Trentino Alto Adige e della Venezia Giulia.
Tra il 1919 e il 1939 circa il 2% della popolazione era formata da queste minoranze, che vennero poste dal regime sotto una fortissima pressione affinché si italianizzassero e abbandonassero la loro identità e la loro cultura d’origine.
Nel dopoguerra, tra il ’18 e il ’22, i governi liberali che si susseguirono non impostarono una linea precisa per trattare la questione ed erano incerti sul da farsi. L’amministrazione militare e civile di questo periodo si impegnò soprattutto nel sostituire i quadri dei funzionari del vecchio Impero Asburgico con quelli italiani, dichiarando tra l’altro l’italiano come lingua ufficiale, ma non ci fu una vera politica persecutoria o discriminatoria legalizzata.
Nel caso della Venezia Giulia, tuttavia, ci fu fin da subito uno squadrismo fascista violento profondamente antislavo, inseritosi nella regione sulla via maestra dell’irredentismo. Venivano assaltate e bruciate associazioni culturali, politiche, sedi di sindacati e di giornali, abitazioni private.
La salita al potere di Mussolini nell’ottobre del 1922 rappresenterà una svolta permanente.
La politica del fascismo nella regione sarà dunque caratterizzata da un acceso interventismo volto a modificare il tessuto economico, la composizione demografica, la composizione linguistica, gli aspetti culturali e persino l’architettura dei centri urbani. Ciò provocherà naturalmente una alterazione di determinati equilibri e una profonda instabilità che genereranno, in un contesto comunque europeo o perfino euroasiatico, uno scontro civile senza quartieri tra vari gruppi etnici, linguistici, religiosi.
Nella regione della Venezia Giulia e in particolare in Istria convissero per secoli varie comunità: nell’entroterra era la componente slava quella maggioritaria; sulle coste invece furono perlopiù i veneti ad insediarsi che, facendo capo alla Serenissima Repubblica di Venezia, avevano il monopolio dei commerci marittimi.
Il fascismo, entrando con i suoi intenti destabilizzanti, aveva intenzione di fare della città di Trieste uno “Roma d’Oriente”, un avamposto della civiltà “italica” per un futuro espansionismo nell’area balcanica, snaturandone il suo ruolo storico di frontiera e di città cosmopolita.
Il regime dunque ridefinì il suo ruolo soltanto in maniera formale e non sostanziale, generando tutti i presupposti per i conflitti futuri, anche perché la città era già in aperto declino economico e il regime non seppe adempiere ai compiti che si era prefisso se non con la coercizione, la repressione (lo squadrismo durò praticamente per tutta la durata del regime), e una miope politica economica caratterizzata da tutta una serie di clientele e favoritismi (del resto tipici di tutta l’Italia durante il Ventennio).
La politica persecutoria nei confronti degli slavi si muoveva fondamentalmente su due linee: l’italianizzazione forzata e lo sradicamento della lingua e della cultura nella regione; la messa in crisi del sistema economico locale con una operazione di colonizzazione e di espansione delle proprietà terriere e delle imprese a capitale italiano, spesso privato.
Per la questione dell’italianizzazione un primo approccio del regime fu quello di chiudere e sciogliere istituti scolastici, giornali e associazioni di varia natura in tutto il territorio interessato. La lingua italiana era la sola lingua ufficiale e progressivamente con una serie di decreti legislativi si limitò fortemente l’utilizzo della lingua slava, non solo a livello amministrativo, ma anche nella vita di tutti i giorni (per andare al mercato, nei negozi ecc). Se gli squadristi sentivano delle persone parlare in sloveno o croato era la norma percuoterli con pugni e manganelli. Inoltre si italianizzarono i cognomi e la toponomastica.
Come già ricordato, la violenza squadrista nella regione (soprattutto in Istria) durò per tutto il ventennio. Ci fu una prima fase in cui ci si concentrò soprattutto nei centri urbani. Dal 1926, sotto il comando di Emilio Grazioli (poi tra l’altro commissario politico di Lubiana dal ’41 al ’43 e prefetto della RSI dal ’43 al ’45), venne condotta dalla Milizia fascista una repressione militare nelle campagne volta a snazionalizzare gli slavi e a impedire loro qualsiasi forma di associazionismo. Questa campagna durò fino al 1936. Da quell’anno, alla vigilia delle leggi razziali, la repressione si spostò nuovamente nelle città.
Sulle politiche economiche invece, profondamente connesse alle politiche demografiche di “sostituzione di razza a razza”, si intervenne impiantando nuove imprese italiane ed espropriando le terre migliori per darle ai coloni che sarebbero arrivati da tutta Italia. L’obiettivo era quello di avere il monopolio di tutte le attività economiche, di modificare profondamente il tessuto sociale e demografico di una area vastissima mettendo in crisi l’economia locale che si basava fondamentalmente sulla produzione e sul commercio locale, sull’autoconsumo, su una rete associativa di piccole comunità slovene e croate che lavoravano in cooperative o su piccoli appezzamenti famigliari.
Il fisico e comunista martire della Resistenza Eugenio Curiel, scriveva nel 1944: «Nel primo dopoguerra l’Istria e la Carsia erano divenute le regioni sulle quali – proporzionalmente al reddito – gravava un debito ipotecario più forte che in ogni altra parte d’Italia. I beni comunali, così necessari a un’economia in buona parte zootecnica, venivano distribuiti arricchendo i beni che i “signori” italiani avevano usurpato al contadino istriano».
In questa situazione drammatica di ridisegnamento del territorio, si verrà a creare una situazione cronica di impoverimento generale. Molti dei contadini senza più terra o spostati verso terreni improduttivi raggiunsero la soglia della proletarizzazione. Gli slavi divennero dunque braccianti o lavoratori giornalieri salariati per i padroni locali, soggetti allo sfruttamento e agli abusi dei proprietari (visto che le associazioni di lavoratori a carattere mutualistico e i sindacati vennero soppressi così come in tutta Italia), oppure si recavano nei centri costieri per trovare lavoro come operai nei cantieri navali.
Tuttavia l’intera regione, e specialmente la città di Trieste, ebbe per tutta la durata del regime un tragico primato di disoccupazione, dovuto al declino (già menzionato) e alla stagnazione produttiva dell’epoca asburgica, oltre che ad una crisi di riconversione nell’immediato dopoguerra, agli effetti della crisi del ’29, alle sanzioni economiche e più in generale alle politiche autarchiche del regime, che misero definitivamente in ginocchio l’industria locale.
Alla repressione antislava s’accompagnò dunque una fortissima repressione antioperaia. Per il regime la classe operaia fu sempre motivo di preoccupazione e visto l’alto tasso di disoccupazione e inoccupati nella regione, i lavoratori (soprattutto quelli dei cantieri portuali) venivano tenuti sotto stretta sorveglianza in un’atmosfera di intimidazione generalizzata.
Tutto questo ebbe una giustificazione aggiuntiva quando, nel 1936 e sulla scia della stagione dei “Fronti Popolari”, i comunisti della Venezia Giulia stipularono un patto di unità d’azione con il movimento nazionale rivoluzionario sloveno e croato, che implicava fra le altre cose il riconoscimento all’autodeterminazione delle popolazioni di origine slava nella regione, anche se avesse voluto dire separazione dallo Stato italiano.
I ceti borghesi della zona, oltre che i funzionari, i ceti impiegatizi e i nuovi coloni che continuavano ad arrivare, si sentirono costantemente minacciati da questa situazione potenzialmente esplosiva.
Tralasciando dunque le formazioni della MVSN, dell’OVRA e delle forze dell’ordine che avevano il compito di reprimere e di rendere esecutive le barbare ordinanze del regime, molti italiani ignorarono o tollerarono le politiche discriminatorie, chi per fede politica, chi per interesse personale o per non compromettere la sua situazione (spesso una situazione privilegiata nei confronti dei poveri, quasi tutti slavi).
Tra il 1938 e il 1939, con la promulgazione della legislazione razziale, aumentarono vertiginosamente le persecuzioni e la vigilanza nei confronti dei croati e degli sloveni. In questo periodo il Tribunale Speciale per la Sicurezza dello Stato approvò varie condanne contro “sovversivi” o potenziali oppositori; alcuni di loro vennero fucilati.
Dal 1940 si procedette alle misure di internamento di massa di numerose persone, specialmente i giovani che erano i più attivi nelle attività clandestine e che spesso venivano torturati e liquidati fisicamente.
Trieste, inoltre, era il territorio ideale per inaugurare le politiche razziali anti-semite, data la presenza radicata di una comunità ebraica molto influente dal punto di vista economico.
Anche in questo caso, come del resto in tutta Italia, la popolazione tacque. Un silenzio tanto grave quanto le leggi stesse. La discriminazione fu totale, creando un altro popolo “ombra” che tra il ’42 e il ’43 dovette subire nella città anche una ondata di violenza che aveva come obiettivi la distruzione delle sinagoghe, dei negozi e di molte abitazioni. Una piccola “soluzione finale” che culminerà tragicamente nella costruzione del lager di Risiera di San Sabba, l’unico in Italia con le camere a gas, nel quale vennero uccisi migliaia di ebrei, sloveni, croati e partigiani della Resistenza.
Per tutte queste ragioni, la lotta armata incominciò quasi due anni prima che nel resto del paese, in una regione di confine che doveva servire al predominio italiano e alla sudditanza degli slavi, cercando di rendere permanente tale schema con lo sradicamento di queste popolazioni dai loro territori d’origine, dalla loro lingua, dalla loro cultura, italianizzandoli perché se non erano italiani non erano fascisti e se non erano fascisti non erano italiani.
Ricordare dunque queste parole di Mussolini del 1920: «Di fronte ad una razza inferiore e barbara come la slava, non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma quella del bastone. I confini d’Italia devono essere il Brennero, il Nevoso e le Dinariche: io credo che si possano sacrificare 500.000 slavi barbari a 50.000 italiani.»
LA GUERRA MONDIALE
Mussolini lanciò la campagna di Grecia, nella speranza di condurre una “guerra parallela” a Hitler, nell’autunno del 1940, arenandosi sulle montagne albanesi in breve tempo. La primavera successiva, per finire lo stallo che si era creato, Hitler intervenne a fianco di Mussolini nella conquista della Grecia e di tutto il Regno di Jugoslavia. Anche l’Ungheria partecipò all’operazione.
Presto l’intero territorio balcanico verrà conquistato e spartito tra i vari vincitori. La Slovenia, per esempio, venne annessa completamente al Regno d’Italia, diventando la provincia di Lubiana. La Croazia divenne invece uno stato fantoccio sotto il controllo degli Ustascia, fascisti e fanatici cattolici che intrapresero fin da subito una opera di pulizia etnica nei confronti dei serbi e dei cristiani ortodossi.
L’occupazione della Jugoslavia da parte delle truppe italiane durò per 29 mesi, prima della firma dell’armistizio nel 1943, e sarà contrassegnata per sempre dalla sua brutalità, insieme ovviamente a quella nazista che si prolungò sino al 1945.
Gli italiani si macchieranno di crimini incredibili con fucilazioni di massa e azioni repressive volte a combattere la resistenza armata guidata dai partigiani comunisti. Gli italiani bruciarono e rasero al suolo interi villaggi, posero sotto tortura indiscriminatamente uomini e donne di tutte le età, vennero saccheggiate le abitazioni, requisiti i raccolti e le scorte alimentari, le donne stuprate. Alla contro-guerriglia, alla repressione dei comuni cittadini, si operò anche una politica di cambiamento del tessuto demografico delle zone di occupazioni, con le deportazioni di intere comunità nei campi di concentramento. Mussolini arrivò persino a predisporre le misure atte a far sgomberare dall’intera provincia di Lubiana gli sloveni. Una Slovenia senza gli sloveni, così come qualche anno prima aveva immaginato una Etiopia senza gli etiopi. Molti italiani non lo sanno, ma durante la guerra il regime fascista costruì un vero e proprio universo concentrazionario tra Italia e Jugoslavia.
Furono imprigionati dalle 100.000 alle 150.000 unità; in più di 11.000 periranno di fame e di malattie.
L’occupazione sotto il controllo italiano, in un periodo di soli due anni (1941-1943), provocherà più di 250.000 vittime. Dal 1941 al 1945 la Jugoslavia perderà in tutto più di un 1.000.000 di persone (stime indicano anche 1.700.000, il 10% della popolazione totale).
LE FOIBE
Per andare un po’ a ritroso ci sono testimonianze del loro utilizzo fin dalla Grande Guerra, ed è certo che per intimidire le comunità slave gli squadristi usavano spesso la minaccia del “venire gettati” nelle foibe.
Successivamente sappiamo che vennero ampiamente utilizzate dalle forze dell’Asse, sia come depositi di armi e munizioni, sia per nascondere e liquidare rapidamente i corpi morti delle vittime dovute a fucilazioni, azioni repressive nei villaggi circostanti o a bombardamenti aerei.
Dal 1942 al 1943, per esempio, saranno utilizzate dalla cosiddetta Banda Collotti, una squadra politica locale creata dall’Ispettorato Speciale per la Venezia Giulia che getterà in varie spaccature cadaveri di persone torturate a morte. Gli Ustascia le utilizzarono per liquidare i corpi della loro pulizia etnica sin dal 1941.
Anche i partigiani jugoslavi con il procedere del conflitto armato utilizzeranno questa tattica, essenzialmente per sbarazzarsi di prigionieri che non potevano essere portati via e che dunque venivano fucilati, in quanto i combattenti operavano in unità fortemente mobili e ridotte numericamente. Ma non si utilizzavano soltanto per questa ragione. Le spaccature del territorio carsico ebbero un ruolo chiave nel determinare le strategie belliche della lotta partigiana, così come lo erano (anche se in maniera minore) per le truppe dell’Asse. La speciale conformazione di queste gole facilitavano lo spostamento di truppe guerrigliere, il loro addestramento, e l’occultamento di persone o di materiale per condurre la guerra.
Anche i civili, però, per scongiurare epidemie si sbarazzarono dei corpi delle vittime degli eccidi o dei bombardamenti nelle foibe. Infine è noto anche qualche caso in cui infiltrati tra le file partigiane appartenenti alla X Mas o ad altre formazioni, oppure fascisti che si spacciavano semplicemente per partigiani, commisero alcune “infoibature”.
È evidente che dunque c’è una impossibilità materiale nell’identificare ogni salma e ogni situazione in cui siano state utilizzate le foibe a causa del loro sfruttamento da più parti, nello stesso periodo e a più riprese. Le utilizzarono le camicie nere, i militari italiani, le SS e i soldati tedeschi, i fascisti croati e sloveni, i civili e infine i guerriglieri partigiani. Solo una minima parte è dunque ricollegabile a esecuzioni sommarie da parte di partigiani, esecuzioni che riguardavano soprattutto collaborazionisti, soldati caduti prigionieri, responsabili di azioni contro la popolazione civile, spie. Non c’è da sorprendersi però: questa fu una pratica di eliminazione del nemico attuata in ogni zona d’Europa sotto l’occupazione tedesca e che si conformava pienamente e legittimamente alla logica della guerra di liberazione.
Detto ciò non ci fu una sola ordinanza da parte dei comandi partigiani jugoslavi di compiere rastrellamenti o opere di pulizia etnica. Ci furono anche casi di omicidi arbitrari o a scopo vendicativo contro persone non identificabili, alcuni potevano essere civili, ma furono casi non dettati da alcun ordine superiore e spesso puniti dalle stesse autorità partigiane jugoslave. Significativo è il fatto che i presunti corpi gettati nelle foibe dai partigiani, riesumati successivamente, erano praticamente tutti di sesso maschile: non ci furono donne (se non qualche caso isolato) e nessun bambino; una ulteriore argomentazione che smonta l’accusa di pulizia etnica. Inoltre non si riscontrò alcun caso di persone legate assieme che vennero gettate vive dai dirupi; ciò è smentito da testimonianze oculari.
Ciò che più è paradossale in tutta questa storia è che coloro che possono maggiormente associare il loro nome a quello delle foibe sono proprio le vittime provocate dagli italiani e dai tedeschi. Nella sola Slovenia si sono contate 100 foibe differenti da cui sono stati riesumati svariati corpi, per lo più civili innocenti di origine slovena o croata.
FOIBE ISTRIANE
L’Istria divenne territorio di scontro armato già dal ‘41/’42. Dopo l’annuncio della resa italiana l’8 settembre 1943 il potere fascista si sfaldò rapidamente e le milizie della Resistenza jugoslava formarono dei comitati di governo locali. In questa fase vennero arrestati diversi esponenti del passato regime e diversi collaborazionisti, che diventarono prigionieri dei comitati. Queste formazioni partigiane riuscirono ad assicurarsi il controllo del territorio per circa un mese, quando le truppe tedesche tra la fine di settembre e l’inizio di ottobre rioccuparono la zona. I tedeschi fecero dunque innumerevoli rastrellamenti e bombardamenti nei villaggi, deportando centinaia se non migliaia di persone, portando il totale dei morti dovuti ai combattimenti e alla repressione a più di 5.000 (alcune stime parlano di più di 10.000). In questa situazione, i partigiani in ritirata fucilarono i loro prigionieri politici e i collaborazionisti, gettandoli nelle locali foibe. Ci fu inoltre qualche caso di vendetta personale. In tutto il conto delle vittime provocate fu di 250/300. Questo conteggio viene confermato dal rapporto dei vigili del fuoco di Pola, incaricati di recuperare i corpi e di redigere un rapporto, poi nel ’45 consegnato agli angloamericani, nel quale venne scritto che si recuperarono 200 corpi, più alcune altre decine morte in circostanze non altrettanto chiare.
L’operazione era confacente all’ordinanza da parte di Kardelj, a capo del Partito Comunista Sloveno, di “epurare non sulla base della nazionalità, ma del fascismo”. Entro i limiti si rispettò a pieno questo parametro, quindi le foibe istriane rientrano pienamente nella legalità della guerra di liberazione.
FOIBE TRIESTINE
La versione oramai ufficializzata dallo stato italiano porta il numero di morti durante l’amministrazione jugoslava della Venezia Giulia dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale a cifre assolutamente esagerate, arrivando a più di 10.000 morti. Tra la sola foiba di Basovizza e quella di Monrupino si pone la cifra a 3.500 in totale. Per quanto riguarda quella di Basovizza, che tra l’altro non è una vera e propria foiba ma una miniera abbandonata, la lapide commemorativa oggi presente dice che vi erano 500 metri cubi di cadaveri ammucchiati. A parte la strana unità di misura per quantificare i cadaveri i fatti storici dicono qualche cosa di differente. Nell’estate del 1945, con il passaggio all’Allied Military Government della Venezia Giulia, gli inglesi procedettero ai recuperi della foiba. Tuttavia trovarono soltanto poche decine di cadaveri, molto probabilmente soldati tedeschi caduti in battaglia e gettati all’interno. Le operazioni sono state minuziosamente documentate, così come i rapporti alle autorità centrali, che ora si trovano negli archivi di Londra e di Washington DC. Nel febbraio 1946 arrivò dunque agli inglesi l’ordine di sospendere le ricerche, ed essi successivamente informarono le autorità triestine che le operazioni non sarebbero potute continuate per mancanza di “mezzi adeguati”: una motivazione che doveva servire naturalmente a non dare la possibilità di dire agli jugoslavi che la foiba di Basovizza era stata una montatura contro di loro.
Quella di Monrupino venne invece utilizzata da alcuni soldati tedeschi in ritirata che nei giorni successivi al primo di maggio 1945 subirono varie imboscate e un bombardamento aereo che provocarono alcune vittime. I corpi vennero spostati temporaneamente nella foiba, per poi essere dislocati altrove. Ancora oggi sulla lapide c’è scritto che furono infoibati dei dalmati e degli istriani.
Detto questo e parlando invece in termini più generali su ciò che accadde sul finire della guerra e immediatamente dopo, possiamo notare delle divergenze di vedute tra il movimento di liberazione italiano e quello jugoslavo. Il CLN triestino, staccato e indipendente dal CLNAI, aveva già in mente prima che i tedeschi si arrendessero di attuare delle misure di contenimento per controbilanciare il potere che avrebbero assunto i partigiani jugoslavi se avessero conquistato Trieste e la Venezia Giulia (anche gli alleati e il governo monarchico co-belligerante del sud avevano piani in proposito). Si voleva evitare a tutti i costi una situazione nella quale disordini sociali avrebbero potuto portare ad un cambiamento nei rapporti di forza della regione in favore dei partigiani di Tito. I comunisti italiani dunque fuoriuscirono dal CLN triestino, egemonizzato dalle correnti clericali, per unirsi alla formazione armata “Delavska Enotnost” (Unità Operaia), facente capo all’Osvobodilna Fronta” (Fronte di Liberazione del Popolo Sloveno, la formazione comunista slovena). Queste formazioni liberarono la città in un insurrezione generale alla fine di aprile del 1945, arrivando poi ai confini della Venezia Giulia vicino alla provincia di Udine. In questa situazione, o per meglio dire fase di consolidamento del potere che si stava verificando non solo nelle zone liberate interessate ma in tutto il territorio jugoslavo (è importante sottolinearlo), vennero catturati molti collaborazionisti o ex-collaborazionisti, funzionari di regime, camice nere, soldati, ufficiali e funzionari tedeschi che stavano cercando di mettersi in salvo tagliando la corda. In questo contesto vennero condotte delle fucilazioni sommarie. Questo era ovviamente confacente alla strategia di guerra, anche se vi furono arbitrii isolati sotto forma di vendette personali. Gli stessi comandi partigiani avevano rilevato già dal 6 maggio che nel territorio la situazione era andata fuori certi limiti e che dunque bisognava ristabilire il controllo. Alcuni partigiani vennero dunque processati per gli atti considerati illeciti.
Tuttavia da quello che è stato documentato meno di 500 furono gli scomparsi a Trieste e meno di mille a Gorizia, una parte fucilati, altri deportati in Jugoslavia nei campi di prigionia, spesso morendo lì a causa delle malattie. In questo caso, dunque, i morti italiani per mano partigiana e “infoibati” possono essere contati sull’ordine di qualche decina come hanno potuto riscontrare storiche quali Claudia Cernigoi e Alessandra Kersevan, spesso ricollegabili alle truppe di occupazione o ai funzionari del regime. Altri vennero fucilati in altri luoghi, comprendendo però anche i fascisti sloveni e croati.
In ogni caso tra le foibe istriane e quelle triestine i numeri di corpi rinvenuti e accertati come italiani, tra funzionari del regime, soldati e camice nere, collaborazionisti o ex-collaborazionisti, vittime di vendette personali, più qualche sporadico arbitrio nei confronti di comuni cittadini, ammontano a non più di qualche centinaio.
Altre repressioni vennero condotte in Dalmazia, con anche in questo caso alcune fucilazioni o deportazioni nei campi di concentramento; tuttavia questo è un capitolo non ascrivibile al tema delle foibe, così come la maggior parte degli italiani uccisi per mano partigiana durante la guerra di liberazione.
IL DOPOGUERRA E L’ESODO ITALIANO
Alcuni potrebbero chiedersi: ma visto che quello era territorio italiano, che diritto avevano i partigiani jugoslavi ad agire in tale maniera per consolidare il loro potere e annettersi una buona parte della Venezia Giulia nell’area, compresa l’intera Istria?
Premesso il fatto che l’Italia rappresentava uno stato aggressore e dunque, secondo la legislazione di guerra, questo problema non si pone affatto; ma in ogni caso fin dal 1943 il destino dell’intero Friuli Venezia Giulia era segnato, così come del resto quello del Trentino Alto Adige. Con la firma dell’armistizio nel settembre ’43 e l’occupazione tedesca del centro e nord Italia quelle regioni vennero annesse direttamente al Terzo Reich, dunque se fossero state le forze dell’Asse a vincere la guerra oggi quelle regioni sarebbero ancora tedesche. Anche qui la Germania era comunque uno stato aggressore quindi il problema non si pone.
Dopo la guerra alcuni esponenti democristiani che percepirono come ingiuste le disposizioni del trattato di pace nei confronti della Venezia Giulia, e in particolare la perdita dell’Istria, si dimenticarono che l’Italia era un paese sconfitto anche se aveva fatto la Resistenza.
Una questione potrebbe essere posta sul modo in cui è stata applicata l’epurazione dalla regione di ogni persona che fosse stata coinvolta con il passato regime o che si fosse macchiata direttamente di crimini contro la Resistenza e i civili. A dire il vero i partigiani di Tito fecero quello che in maniera più completa avremmo dovuto fare noi in casa nostra e quello che avrebbero dovuto fare molti altri paesi, cioè una epurazione dagli organi dello Stato, dalla burocrazia, dalle forze dell’ordine, di tutti coloro che erano compromessi con il passato regime.
I partigiani comunisti agirono, come già detto, in maniera coerente con le logiche della guerra di liberazione. Inoltre c’era la volontà di liberare una regione che più di tutte aveva sofferto nei vent’anni precedenti per le vergognose politiche di persecuzione e discriminazione nei confronti degli sloveni e dei croati, ricordando che molti degli italiani erano coloni arrivati per rubare le terre più fertili e le attività produttive della popolazione locale.
La questione può essere vista però anche sotto l’aspetto della pura e semplice lotta di classe, testimoniata dal fatto che i comunisti italiani della Venezia Giulia combatterono fianco a fianco degli jugoslavi nel tentativo di cacciare l’invasore e far crollare il regime. Inoltre non solo in Venezia Giulia combatterono gli italiani, ma in tutti i Balcani. Con la firma dell’armistizio nel settembre del 1943 le truppe italiane sbandate, a decine di migliaia (un numero altissimo), si unirono al movimento di Resistenza partigiano sia in Jugoslavia, ma anche in Grecia e Albania. Un altro argomento che perciò discredita completamente la volontà di compiere una pulizia etnica: tesi che nessuno storico serio ostenterebbe.
Se in alcuni casi vi fu da parte dei partigiani l’identificazione di ogni italiano con il fascista questo fu solo la diretta conseguenza della politica stessa adottata dal regime fascista.
In ogni caso con la ristabilizzazione dei confini nel dopoguerra e la fine dei 40 giorni dell’occupazione jugoslava a Trieste (che rispettò pienamente le disposizioni delle autorità alleate) si creò, tra il ’46 e il ’47, una situazione di acute tensioni fra il governo jugoslavo appena insediatosi e quello italiano.
Questo perché, nonostante il governo jugoslavo avesse stilato una lista di centinaia di nomi di italiani colpevoli di aver commesso efferati crimini durante la guerra, chiedendo tra l’altro la loro estradizione per poterli processare sul suo territorio, quello italiano sotto tutela alleata rifiutò, proteggendo anzi i criminali fascisti e perfino amnistiandoli (amnistia Togliatti, 1947).
Di conseguenza ci furono frizioni anche tra la comunità slava e quella italiana tra Istria e Dalmazia. A causa dell’alto numero di armi ancora in circolazione e all’impossibilità da parte delle autorità competenti di avere il completo controllo della situazione su tutte le bande armate o anche solo i civili armati presi individualmente, ci furono alcuni omicidi isolati. È certo dunque che in alcune aree si crearono situazioni di particolare tensione, e questa fu una delle molte cause che concorsero all’esodo degli italiani da quelle regioni, ma non fu di certo la sola.
Quello che è importante capire fin da subito è che non ci fu nessun progetto di espulsione della comunità italiana da parte del governo di Tito, ma furono gli stessi abitanti a scegliere di andarsene. La Costituzione jugoslava del 1946 garantiva a tutte le comunità i diritti inalienabili all’utilizzo della lingua che avrebbero preferito e al rispetto della loro identità. La Jugoslavia, in questo senso, fu un importante progetto di costruzione di uno stato multinazionale dove convissero in maniera assai pacifica e per diversi anni popoli dalle tradizioni, culture e religioni diverse.
La migrazione degli italiani, che durerà fino al 1960 in diverse ondate, fu soprattutto dovuto a motivazioni di insicurezza economica. Molti proprietari si videro tolte le terre che erano state a loro volta in precedenza rubate agli slavi, s’impose il controllo sulle principali industrie, si impose una tassazione a carattere fortemente progressivo, il tutto in una condizione di generale povertà per via dei lunghi anni di conflitto e di sofferenze.
La migrazione si può contare nell’ordine di circa 250 mila individui; molti italiani comunque rimasero e tutt’oggi ci sono numerose comunità tra l’Istria e la Dalmazia.
Questo evento, specialmente nei due anni successivi alla fine del conflitto, non era singolare nell’Europa centro orientale: tra il ’46 e il ’47 un numero incredibile di persone e intere comunità tornarono nei loro paesi d’origine dopo aver subito deportazioni di ogni sorta e, per esempio, i coloni tedeschi in Polonia e Cecoslovacchia dovettero andarsene nell’ordine delle centinaia di migliaia dopo il ridisegnamento dei confini ad opera degli Alleati. Si potrebbe mettere in luce anche il fatto che tra gli anni ’50 e ’60 il fenomeno migratorio (Sud-Nord) all’interno dei confini nazionali aumentò esponenzialmente. L’obiettivo era andare a lavorare nelle fabbriche del Settentrione; alcuni istriani o dalmati potrebbero avere avuto le stesse motivazioni, nell’impossibilità di adattarsi alle nuove condizioni locali.
UN BILANCIO FINALE
Ciò che risalta subito agli occhi di un qualunque osservatore serio è l’incredibile sproporzione tra i morti sloveni, croati, e jugoslavi in generale, vittime di una vera e propria politica di terrore e di sterminio implementate dalle truppe di occupazione italiane e tedesche, e quelli attribuibili ai partigiani comunisti, e nello specifico per ciò che concerne l’epurazione politica nei territori interessati e le violenze arbitrarie annesse a tale processo.
Inoltre, per il solo fatto che la maggioranza dei partigiani era inquadrata in formazioni comuniste si attacca necessariamente il comunismo. A queste accuse noi possiamo solo dire che i comunisti sono stati quelli che, durante la Seconda Guerra Mondiale e non solo, combatterono sempre in prima linea per la libertà e l’indipendenza dei popoli, il gruppo politico che ha subito più sofferenze nel Novecento, con massacri, espulsioni dalla vita civile, repressioni sistematiche, guerre imperialiste (Corea, Vietnam, Russia, Cina, Cile, Sud Africa, Cuba, Indonesia ecc). I comunisti furono quelli mandati nei campi di concentramento tedeschi fin dai primi mesi del 1933, coloro che non smisero mai di sperare nella fine della guerra e che combatterono maggiormente affinché questo diventasse realtà. Durante la guerra e nella sola Francia vennero fucilati più di 70.000 comunisti e i morti sovietici nel conflitto ammontano a 25 milioni, il più alto prezzo di sangue dell’intera storia della guerra. Dunque ci guardiamo bene dal piangere alcune centinaia di spioni che denunciavano ebrei e partigiani, collaborazionisti di ogni risma, funzionari di regime e soldati tedeschi, pur riconoscendo l’esistenza di vittime cadute per arbitrii isolati (una conseguenza che tutte le popolazioni europee e asiatiche dovettero subire in un conflitto che fece 50 milioni di morti). A coloro che ricordano le vittime per mano partigiana jugoslava, gonfiando cifre e distorcendo fatti, noi ricordiamo invece i soldati mandati in Russia da Mussolini senza coperture e approvvigionamenti e scomparsi nel freddo polare della regione del Don; i soldati mandati nel deserto di El Alamein senza acqua e benzina; le vittime civili dei centri urbani che vennero uccise dai bombardamenti alleati. Nella sola Foggia a causa dei bombardamenti americani morirono più di 20.000 persone (la logica però è «Sono americani, dunque lo facevano per il nostro bene, ci stavano liberando!»). Ecco dunque che cosa s’intende quando si parla della forza dell’egemonia culturale e in questo caso di un nazionalismo distorto, che è (adesso ma sempre è stato così) solo uno strumento per acquietare le masse popolari e per mettere lavoratori contro lavoratori, in un periodo dove in ogni caso la nostra sovranità politica, militare, economica, è oramai un lontano ricordo. Noi crediamo molto semplicemente che gli uomini si suddividono in sfruttati e sfruttatori, che una bandiera non conta nulla se la si infanga con la razza e pretese di superiorità verso gli altri popoli.
La stessa natura di questa commemorazione non ha ragion d’essere e diventa altresì ancor più patetica in quanto fummo noi lo stato aggressore nei confronti della Jugoslavia e non il contrario, dunque in ogni caso responsabili diretti o indiretti di tutte le tragedie belliche che colpirono la popolazione civile, sia di origine slava che italiana.
Per la verità non ci sorprende che negli ultimi anni questo tema è stato ripreso in maniera da portare al pubblico una versione dei fatti differente da quella reale (pubblico che spesso non ha la possibilità di informarsi in maniera dettagliata ma utilizza i canali mainstream della comunicazione di massa).
In primo luogo per le ragioni citate dall’introduzione: si vuole operare un rimodellamento delle coscienze in merito alla critica del presente e del passato; rimodellamento che deve servire a rafforzare i rapporti di forza e la morale corrente nell’attuale struttura sociale ed economica. Un processo in cui le forze neofasciste, clericali e conservatrici alla ribalta giocano un ruolo decisivo, nel contesto comunque di un consenso unanime che si è sviluppato indistintamente in tutte le maggiori forze politiche, sia di centrodestra che di centrosinistra.
Coloro che commemorano la Giornata del Ricordo sono gli stessi che hanno favorito la disintegrazione dello stesso Stato jugoslavo, intervenendo militarmente in Bosnia e Kosovo e fomentando dall’inizio della guerra civile gli odi etnici e religiosi della regione, in un piano nordamericano molto ben congeniato.
Sono gli stessi che hanno dato l’assenso per intervenire in Iraq e in Afghanistan, due guerre che hanno provocato in tutto 2 milioni di morti, in gran parte civili innocenti; gli stessi che armano Israele nella loro opera di pulizia etnica del territorio palestinese; gli stessi che hanno reso possibile il colpo di stato in Ucraina del febbraio scorso e sostenuto il regime nazista che tutt’ora sta massacrando la popolazione nel Donbass perché di lingua russa (ricordare che l’elemento scatenante del conflitto, oltre al golpe, fu l’ufficializzazione da parte delle autorità centrali della lingua ucraina come unica lingua riconosciuta – motivo anche per il quale i cittadini della Crimea hanno approvato all’unanimità l’annessione alla Federazione Russa).
In secondo luogo, da una constatazione triste a dirsi eppure così vera: purtroppo in Italia non c’è mai stata una presa di coscienza a livello generale per i crimini perpetrati dal regime fascista. Di come agiva il regime soprattutto all’estero, in Albania, in Etiopia, in Libia, in Grecia, in Jugoslavia, molto poco viene ricordato e a quanto pare niente è stato capito.
Se deve esistere una tal giornata allora dovrebbe essere fatta per commemorare tutte le vittime e le sofferenze provocate dall’Italia nelle sue colonie e durante la Seconda Guerra Mondiale.
Noi dunque, come sempre, ribadiamo la nostra ferma opposizione a tutto questo schierandoci fermamente dalla parte dei popoli in lotta contro ogni sorta di violenza imperialistica, contro ogni sorta di odio etnico e religioso, contro il fascismo cane da guardia dei padroni, per il socialismo e l’unità dei lavoratori nel mondo. Ribadiamo anche il nostro fermo sostegno alla memoria della Resistenza, quella italiana così come quella jugoslava. Viva dunque la Resistenza! Ora e per sempre!
Bibliografia e fonti:
Il fascismo degli italiani. Una storia sociale – P. Dogliani
Operazione “foibe” tra storia e mito – C. Cernigoi
Lager italiani. Pulizia etnica e campi di concentramento fascisti per civili jugolsavi 1941-1942 – A. Kersevan
Foibe. Revisionismo di Stato e amnesie della Repubblica (atti del convegno “Foibe: la verità. Contro il revisionismo storico”) – Interventi di: Matteo Dominioni, Alessandra Kersevan, Luka Bogdani, Sandi Volk, Claudia Cernigoi, Paolo Consolaro
I campi del Duce – C.S. Capogreco
L’occupazione italiana nei Balcani – D. Conti
Military uses of caves (in “The Encyclopedia of Caves and Karst Science) – M.J. Day, J.A Kueny
Italiani senza onore, i crimini in Jugoslavia e i processi negati – C. Di Sante
La guerra dell’ombra – H. Michel
Trieste 1941-1954 – B. Novak
Foibe. Una storia italiana – C. Pirjevec
Italian fascism: history, memory and representation – R.J.B Bosworth, P. Dogliani
Caves as mass-graveyards in Slovenia – A.Mihevc
Absent from public memory. Hidden grave sites in Slovenia 60 years after the end of World War Two (in “1945 – A break with the past” Institute for Contemorary History Ljubljana) – M. Ferenc
Dal regime alla Resistenza. Venezia Giulia 1922-43 – E. Apih
Operacija Julijska Krajina – G. Bajc