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Un milione di posti di lavoro in meno per i giovani.

da Redazione

Questo è il risultato delle politiche governative e dei tagli imposti dall’Unione Europea. Partiamo dai dati. Le tabelle Istat riferite al secondo trimestre del 2013 parlano di una perdita secca di un milione di posti di lavoro tra il 2010 e il 2013, con riferimento alla fascia di età 25 – 35 anni. Si passa da 6,3 milioni a 5,3 milioni. Il tasso di occupazione diminuisce dal 65,9% al 60,2% (prima della crisi nel 2007 era al 70,1%). Il risultato peggiore si registra, come prevedibile, al Sud con solo il 51% di tasso d’occupazione, che scende al 33,3% in relazione all’occupazione femminile.

A cosa è dovuta questa riduzione? Al combinato di tagli della spesa pubblica, con annessi blocchi delle assunzioni, con l’aumento dell’età pensionabile, la chiusura di aziende e la loro delocalizzazione in aree produttive a minor costo del lavoro, il fallimento di piccoli esercizi commerciali in tutto il Paese. Le misure chieste ai governi per il patto di stabilità non hanno fatto altro che aumentare una situazione già difficile. Le misure prese per aumentare l’occupazione giovanile non hanno avuto alcun risultato, perché in realtà orientate ad altre finalità.

I governi in questi ultimi anni non hanno minimamente pensato a rilanciare l’occupazione dei giovani, come a parole veniva detto. Si sono limitati al contrario a misure che miravano alla sostituzione dei vecchi tipi di contratti di lavoro, che portavano salari più elevati e diritti maggiori, con nuove forme di precarietà. Misure presentate all’opinione pubblica come tentativi di arginare la disoccupazione giovanile, ma che in realtà hanno ottenuto solo regole di contrattazione, livelli salariali più favorevoli per il padronato, a scapito dei lavoratori. Il disegno era quello di innescare una competizione al ribasso per l’assunzione di giovani lavoratori con contratti precari e sottopagati, consentiva di licenziare quei lavoratori più anziani con contratti considerati troppo onerosi. Fame di lavoro in cambio di maggior sfruttamento, e sembra che si debba anche ringraziare.

Ma la riforma che più di tutte sta dando risultati drammatici è l’innalzamento dell’età pensionabile. Era largamente prevedibile e non era necessaria una laurea in economia alla Bocconi per capire che se si aumentano gli anni di lavoro, diminuisce il normale ricambio generazionale. Se questo lo si fa in un momento di riduzione dei posti di lavoro, che di per sé provoca già aumento della disoccupazione, non ci vuole un master in economia ad Harvard per capire che il disastro è alle porte. Ma le alterne ed unite maggioranze di governo si sono prodigate continuamente nel dirci che questa era una misura per i giovani. Basta fare due conti: nel 1997 l’età minima per la pensione era 57 anni, con la riforma Monti arriva a 66 anni, ed è previsto l’arrivo a 67 anni dal 2021.

Tutto questo va inserito nel quadro della situazione italiana che ha visto chiudere dall’inizio della crisi circa 50.000 imprese, con conseguente perdita a monte di posti di lavoro, e con le strette sui conti chieste dal FMI, UE e BCE per rientrare nei parametri di debito pubblico e deficit. Il blocco delle assunzioni nel settore pubblico, derivato da queste misure, ha ulteriormente diminuito i posti di lavoro. L’insieme ha innescato una contrazione anche di altri settori, con la frequente chiusura di piccoli negozi, spesso a gestione familiare, in una spirale senza fine, che comporta impoverimento di grandi masse di lavoratori e giovani, scaraventate nella disoccupazione e nella precarietà, a fronte della crescita dei profitti per i grandi monopoli finanziari e produttivi che in questi anni hanno tratto vantaggio dalla crisi.

E’ chiaro che la via d’uscita non è nelle misure dei governi, non è in questo modello di sistema.

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