di Emanuele Vecchi
Ormai più di un anno è passato dallo scoppio della vicenda Ilva e niente è stato risolto. Era il 26 luglio 2012 quando su richiesta del procuratore Franco Sebastio il gip di Taranto patrizia Todisco emise l’ordine di sequestro senza facoltà d’uso dei sei impianti del’area a caldo dell’industria. Principali elementi d’accusa sono le maxiperizie ambientali ed epidemiologiche che dimostravano (e dimostrano tuttora) la situazione drammatica in cui versa la città di Taranto. Questa ordinanza della Procura, però, è stata scavalcata dall’autorizzazione ambientale integrata (AIA, legge 231) disposta dal ministro Clini sotto il governo Monti. Ciò ha permesso alle installazioni poste preventivamente sotto sequestro di continuare a produrre con le medesime tecnologie di prima.
Analizzando i dati delle emissioni di questi impianti, possiamo vedere come, per esempio, le esalazioni della cokeria (costruita a 300 metri dalle case, dove la distanza minima di sicurezza sarebbe 1900 metri) siano 4 volte superiori al valore stabilito dalle legge (69.6 g/t è il valore stimato, 17,2 g/t è l’inquinamento massimo consentito). Questo alto tasso di inquinamento di benzo(a)pirene (infestante cancerogeno e genotossico) equivale per un bambino a respirare un quantitativo di 700 sigarette l’anno. Situazione particolarmente critica è anche quella del camino E312 dell’impianto di agglomerazione dell’Ilva noto per le emissioni di diossina. Il valore misurato dal gestore è pari ad 85,5 kg/h contro il valore massimo di 51 kg/h (dunque 1,6 volte superiore). Le 5 famiglie di una palazzina che si affacciavano su questo camino sono state decimate dal cancro.
La contraddizione dell’industria Ilva di Taranto risiede nella sua costruzione “al contrario”: l’area a caldo fu edificata vicina alle case e l’area a freddo lontana, mentre doveva essere fatto l’esatto opposto. Naturalmente “l’inversione” delle aree, similmente agli alti valori di emissione citati sopra, necessiterebbero di una riqualificazione e ristrutturazione del complesso industriale: ma tutto ciò non fu mai preso in considerazione in virtù dei trattamenti costosi che farebbero impennare i costi di gestione, e che causerebbero parallelamente una diminuzione del profitto. Giusto per citare un dato, la copertura dei parchi minerali dell’Ilva costerebbe un miliardo di euro, decisamente troppo per il grande capitale industriale e i grandi interessi monopolistici dei Riva incentrati solo sull’obiettivo dell’ utile.
Il nucleo della Guardia di Finanza coordinato dal tribunale di Milano, ha scoperto come tra il 1996 e il 2006 la famiglia Riva abbia depredato dalle casse aziendali 1 miliardo e 100 milioni trasferiti poi nelle isole del Jersey, paradiso fiscale della Manica. Questi soldi sono stati drenati dalla società “Fire Finanziaria” spa, trasformata in “Riva Acciaio” e poi in “Fire Finanziaria” e trasferiti a società di partecipazione estere e offshore grazie a tre operazioni di passaggi di proprietà di partecipazioni industriali (1995, 1997 e 2003-2006 ) “tutte conseguenti all’acquisizione dall’Iri dell’Ilva spa e quindi – si legge nelle carte dell’inchiesta – fittiziamente intestato a otto trust al fine di agevolarne il riciclaggio e il reimpiego”. Le cessioni tra questi consorzi procuravano alla famiglia enormi plusvalenze giacché “i prezzi delle cessioni erano artificiosi e funzionali a frodare, spostando liquidità dalla holding alle persone fisiche, dall’Italia all’estero”.
Tutto ciò avveniva mentre nella zona di Taranto si registravano innalzamenti delle persone ammalate di tumore. Secondo i periti sentiti dalla procura, negli anni 2004-2010 vi sarebbero stati mediamente 83 morti all’anno a causa del non rispetto dei valori massimi di polveri sottili nell’aria, che salgono però ad 91 se si prendono in considerazione i quartieri geograficamente più vicini alla fabbrica Borgo e Tamburi (dove 70% delle donne soffre di endometriosi e infertilità e gli aborti spontanei sono frequentissimi), mentre le degenze per cause cardio-respiratorie ammonterebbero a 648 all’anno. Ma la situazione peggiore riguarda gli ex operai dello stabilimento tra gli anni settanta e novanta, i quali “hanno mostrato un eccesso di mortalità per patologia tumorale (+11%), in particolare per tumore dello stomaco (+107), della pleura (+71%), della prostata (+50) e della vescica (+69%). Tra le malattie non tumorali sono risultate in eccesso le malattie neurologiche (+64%) e le malattie cardiache (+14%). I lavoratori con la qualifica di impiegato hanno presentato eccessi di mortalità per tumore della pleura (+135%) e dell’encefalo (+111%).”
Dunque l’espropriazione del complesso industriale non deve essere considerata una violazione dei diritto di proprietà ma come titolo di risarcimento dei molteplici danni causati dalla famiglia Riva e subiti da tutta la città e provincia di Taranto. Un esproprio che per sua natura non deve richiedere indennizzo. Se si analizza infatti per quale motivo l’acciaio dell’ILVA è rimasto competitivo nel mercato internazionale si capisce pienamente come l’acquisizione del profitto sia legato al danno ambientale. Non potendo contare sul basso costo della forza lavoro, rispetto ai cosiddetti paesi emergenti, i Riva hanno mantenuto il prezzo dell’acciaio competitivo sul mercato internazionale, evitando sistematicamente ogni misura di adeguamento ambientale richiesta. Ma questo profitto che è stato privatizzato ha riversato i suoi danni sull’intera collettività.
Ora che la magistratura ha appurato anche sotto il profilo legale, le responsabilità dei Riva, sarebbe necessario un serio intervento da parte dello Stato, che tuttavia appare assai legato agli interessi economici della grande famiglia Riva, con le sue partecipazioni azionarie in molte società d’interesse strategico. Non si devono aspettare i sequestri della magistratura, che lasciano ai Riva l’arma del ricatto di fermare gli stabilimenti produttivi nel resto d’Italia, mandando a casa migliaia di lavoratori e provocando una catastrofe nell’indotto. E’ necessario espropriare senza indennizzo i beni della famiglia Riva, mandando avanti il lavoro delle industrie oggi paralizzate dal loro ricatto, utilizzare i fondi illegalmente ed illegittimamente ottenuti dalle loro società, per effettuare quella riconversione ambientale dell’Ilva che i lavoratori e i cittadini di Taranto aspettano da anni.
Tutto questo ovviamente non può rimanere sotto il controllo di commissari nominati tra manager, di società ed imprese note e stranote, consiglieri di amministrazione immischiati nelle partecipazioni collettive in aziende, banche, società. I lavoratori e i cittadini di Taranto sono gli unici che possono realmente controllare l’avanzamento dei lavori di bonifica, gli unici che hanno interesse alla tutela del lavoro e della salute, senza che tra questi due elementi si inneschi quel conflitto che oggi il capitale vuole far passare per inevitabile. Taranto non deve essere una nuova Bagnoli