I grandi industriali hanno un partito politico permanente? La risposta è negativa. Come scrisse Gramsci nei Quaderni dal Carcere: «I grandi industriali si servono volta a volta di tutti i partiti esistenti, ma non hanno un partito proprio. Essi non sono perciò “agnostici” o “apolitici” in qualsiasi modo: il loro interesse è un determinato equilibrio che ottengono appunto rafforzando coi loro mezzi, di volta in volta, questo o quello dei partiti del vario scacchiere politico (con eccezione, si intende, del solo partito antagonista, il cui rafforzamento non può essere aiutato neanche per tattica)».
Nell’ambito del quadro europeo questa condizione si riscontra ancora oggi in modo abbastanza marcato. Le grandi famiglie politiche dei partiti europei, popolari, socialdemocratici e liberali sono costantemente partiti di governo e di opposizione in forme di alternanza ciclica, o in coalizioni più durature che coinvolgono in questi casi più partiti, come è il caso dell’Austria da molti anni e delle esperienze di governi di unità nazionale in Germania, Grecia, Italia ecc. E’ raro nei paesi dell’Unione Europea ed in generale nelle democrazie occidentali che un imprenditore fondi un partito e per tanti anni si prenda parte direttamente allo scontro partitico, vincolando i suoi interessi in modo indissolubile con quelli della sua parte. Questa situazione si verifica a volte nei paesi dell’ex blocco socialista dell’europa orientale, dove qualche magnate, sempre filo occidentale, fonda un partito e vince le elezioni. Ma bisognerà convenire che si tratta di una situazione assai rara che nell’europa occidentale un imprenditore tenga banco direttamente sulla scena politica di un paese per venti anni.
Si è sempre parlato in questo caso di “anomalia italiana”. Si può assolutamente essere certi che lo sia, il punto è capire da che ottica si tratti di un’anomalia e quali risposte debba avere. Perché se di anomalia si tratta – e questo è chiaro – lo è nei confronti dell’atteggiamento tipico del grande capitale, è una anomalia cioè in relazione al comportamento che normalmente tengono i grandi industriali e banchieri di fronte alla politica, è un’anomalia in sostanza che attiene a dinamiche di scontro interno alla grande borghesia, alla sua modalità di relazione con il mondo politico. Come fa giustamente notare Gramsci la grande borghesia non è “apolitica” ma preferisce restare dietro le quinte. Il potere economico, esprime e condiziona costantemente quello politico, ma lo fa apparentemente mantenendosi un passo indietro alla politica. Questa tattica consente quella generale apparente estraneità nei confronti del risultato, che lascia il vero responsabile indenne dalla critica, che ricade al contrario su chi politicamente ha assunto la responsabilità di governare. In altre parole è raro che un grande imprenditore ci metta la faccia, è raro che parteggi per un partito in modo esplicito in un sistema basato sull’alternanza. La compromissione con un partito danneggerebbe il gruppo aziendale, in caso di vittoria dell’altro.
E’ noto infatti che in America ad esempio, i grandi monopoli spesso decidano di finanziare entrambe le campagne elettorali, o selezionare dei candidati in entrambi i partiti durante le primarie. In tutta l’Europa continentale ci sono casi di imprenditori che vengono eletti, ma sempre nelle seconde file, mai come candidati premier, e mai per lungo tempo. Anche in Italia spesso alcuni imprenditori decidono di “compromettersi” con partiti politici, senza tuttavia essere in prima linea. Montezemolo con Scelta Civica, Profumo, ex amministratore di Unicredit, che vota alle primarie del PD, solo a titolo esemplificativo. Quello che effettivamente non accade in nessun altro Paese è che uno degli uomini più ricchi, con un vero e proprio impero economico sia il fondatore del principale partito politico e che rimanga con diverse maggioranze effettivamente alla guida del Paese o con un alto livello di influenza sui governi di coalizione per ben venti anni.
Berlusconi è un’anomalia rispetto alla generale astensione degli imprenditori dalla politica diretta. Lo è perché ha formulato una precisa strategia imprenditoriale in cui attività politica, personale ed imprenditoriale sono indissolubilmente legate. Questo modo di perseguire i propri interessi attraverso la politica in modo differente lo divide dal resto degli imprenditori. Questa analisi non ha nulla a che fare col moralismo di una certa sinistra. Anche gli altri imprenditori perseguono i loro interessi economici, e lo fanno con risultati non sempre inferiori a quelli di Berlusconi, condizionando, finanziando i partiti politici, senza entrare direttamente in politica. È una questione di strategia.
Accade talvolta che nel perseguire il proprio interesse personale, Berlusconi vada contro gli interessi del resto della grande borghesia italiana. Non nel senso di fare quelli dei lavoratori, sia chiaro, ma nel senso di perseguire a tal punto il proprio interesse economico da compromettere quello degli altri, da diventare una vera e propria scheggia impazzita rispetto ai canoni richiesti dal grande capitale. Nessun grande imprenditore italiano ha oggi la minima intenzione di sganciarsi dall’Unione Europea e dall’Euro, e nessuno parlerebbe di rimettere in discussione l’euro, come ha fatto Berlusconi, per puro guadagno in termini di popolarità. Oggi i grandi poteri dell’industria e della finanza made in Italy non vogliono assolutamente la caduta del governo delle larghe intese, che ha il pregio di rispondere perfettamente ai canoni europei, mantenere all’interno lo spettro politico più ampio possibile garantendo un controllo di massa molto elevato, specie sui sindacati di riferimento. La presenza di tutte le forze politiche nel governo di unità nazionale realizza a pieno il compromesso tra le varie tendenze, riuscendo a realizzare perfettamente l’interesse economico dei grandi monopoli e allo stesso tempo una pacificazione sociale maggiore di quella che si avrebbe con una più alta conflittualità tra i partiti.
Non è un caso che persino nel grande partito azienda, in cui il capo e il manager si identificano, si muovano forti malumori e idee di scissione, così come avvenne pochi mesi fa quando Berlusconi deciso a staccare la spina al governo Monti, vide la scissione del gruppo di Fini. L’interesse del capo che da sempre ha tenuto a bada ogni interesse personale dentro al partito, incontra il suo unico ostacolo quando altri poteri, uniti e più forti del capo corteggiano i suoi deputati in nome della “responsabilità”, che altro non è che la “responsabilità” di fronte agli interessi di classe.
Quando Berlusconi si spinse troppo in là con gli affari personali con Putin in relazione alla gestione delle risorse economiche, gli interessi del grande capitale italiano legato a doppio filo con l’America fecero cadere il governo. Oggi Berlusconi, che per non essere estromesso dal Parlamento sulla base di una sentenza, minaccia la caduta del governo, crea un vero e proprio fossato con il resto della grande borghesia italiana. Per anni la politica italiana si è ridotta a tifoserie tra berlusconiani ed antiberlusconiani. In questi stessi anni quel che rimaneva della sinistra compiva l’ultimo passo della sua mutazione genetica, divenendo il partito di quegli interessi imprenditoriali che contrastavano Berlusconi, il suo modo di scendere direttamente in politica, la sua imprevedibilità rispetto agli schemi richiesti.
La storia degli ultimi anni e quello che viviamo ancora oggi è storia di questi scontri interni al grande capitale, in cui le masse popolari sono state costrette per assenza di alternative a parteggiare per l’una o l’altra fazione, senza che dalle due derivasse una sostanziale differenza degli indirizzi economici di fondo, specialmente in relazione agli interessi dei lavoratori, da entrambe schiacciati. Questa forma di “codismo” oggi incontra un tasso sempre minore di seguaci con la crescita dell’astensione, una iniziale visione di alcuni fatti, senza che se ne riesca a comprendere a fondo le cause. La storia di questi anni è stata quella dell’espulsione delle masse popolari da ogni forma di partecipazione reale alla politica, condizione che era stata conquistata (almeno in parte) con la lotta antifascista e con i partiti di massa. Allora la questione diventa la costruzione dello strumento politico che consente alla classe di riprendere il suo protagonismo, ed evitare dunque di continuare a porsi alla “coda” delle lotte tra interessi borghesi, o cadere in binari morti che si limitano a contestare l’apparenza senza individuare le cause. In altre parole questo processo vuol dire costruire quel “partito antagonista” citando Gramsci, che i grandi imprenditori non si sognerebbero di sostenere mai, neanche per esigenza tattica. Tutto il resto, gli appelli alle sante alleanze contro Berlusconi, la tifoseria priva di analisi reale, non ci appartiene, anche e soprattutto nella condizione attuale.