di Alessandro Mustillo
Una delle ultime opere scritte da Engels è la prefazione a «Le lotte di classe in Francia» di Karl Marx. Il testo di questa prefazione, scritto nel 1895, ha una storia a parte, che merita di essere velocemente spiegata. Il brano fu infatti pubblicato sul giornale della SPD, ma censurato e privato di alcuni fondamentali passaggi, in modo da forzare l’analisi fino a farla in qualche modo coincidere con quella della parte della socialdemocrazia tedesca che si preparava alla sua svolta revisionista. In quel momento infatti all’interno della SPD iniziava a delinearsi quella contrapposizione di opposte vedute, che finirà con il tradimento della socialdemocrazia che si concreterà negli anni seguenti. Engels andò su tutte le furie leggendo la pubblicazione delle sue riflessioni che private di quei passaggi lo facevano apparire un pacifico fautore della legalità ad ogni costo – come scrisse indignato in una lettera a Kautsky – deformando completamente il suo pensiero . Il testo completo dell’opera fu pubblicato solo nel 1932 a Mosca dall’Istituto Marx-Engels-Lenin, e su quell’edizione completa mi baserò per questa riflessione.
La riflessione di Engels, presa nella sua complessità e non nella versione ad uso e consumo della socialdemocrazia tedesca, ha un’enorme attualità, perché riguarda il rapporto tra lavoro politico e momento della presa del potere. Una riflessione che è figlia dello sviluppo storico del movimento operaio in Germania e del modificarsi di alcune condizioni storiche rispetto alla riflessione operata da Marx, nel testo di cui è prefazione. Engels in quel momento scrive per la Germania, e dice chiaramente che le sue riflessioni non riguardano in quel momento altri paesi europei. A questo proposito ritengo che, per non far torto ad Engels, sia necessario mettere in luce quali aspetti della sua riflessione siano resi attuali nel contesto odierno, e quali siano invece prettamente riferibili all’esperienza storica in cui e per cui questa prefazione è concepita, e che oggi, con condizioni differenti non siano più attuali.
Engels parte dalla constatazione che «le condizioni della lotta avevano subito un mutamento sostanziale». «Le ribellione di vecchio stile, la lotta di strada con le barricate, che sino al 1848 erano state l’elemento decisivo in ultima istanza, erano considerevolmente invecchiate». Questo processo era accaduto perché «la borghesia ed il governo apparivano temere molto di più l’azione legale che l’azione illegale del partito operaio, più le vittorie elettorali che quelle della ribellione». Ora come apparirà chiaramente al lettore quest’ultima affermazione mostra chiaramente tutto il contesto storico di cui questa riflessione è frutto e che certamente non la rende paragonabile alla condizione attuale. Quando Engels scrive la SDP in Germania è un partito di massa, che avanza anche elettoralmente, in cui si è passati dall’illegalità e dalla repressione del sistema contro le rivendicazioni operaie, al suffragio universale e alla conquista di un numero sempre maggiore di adesioni e capacità di mobilitazione. È del tutto evidente dunque la differenza sostanziale del contesto storico. Ma la riflessione di Engels è tanto più attuale per altri aspetti, che sono descritti nei passaggi immediatamente seguenti, e che descrivono un contesto generale che rende la lotta di strada non più in grado da sola di consentire la presa del potere. Engels nel passo censurato afferma chiaramente che questa sua costatazione è legata al suo momento storico «Vuol dire ciò che nell’avvenire la lotta di strada non avrà più nessuna funzione? Assolutamente no. Vuol dire soltanto che del 1848 le condizioni sono diventate molto più sfavorevoli ai combattenti civili e molto più favorevoli all’esercito. Una futura lotta di strada potrà dunque essere vittoriosa soltanto se questa condizione sfavorevole verrà compensata da altri fattori.» L’attualità della riflessione di Engels, sta, a giudizio di chi scrive, nel fatto che non solo questi fattori non si sono invertiti, ma nel contesto attuale, il rapporto sfavorevole è di gran lunga aumentato. Ma vediamo allora quali sono i fattori che Engels analizza.
In primo luogo ovviamente il rapporto tra esercito e insorti. Scriveva Engels che « anche se l’esercito è inferiore in numero, si impone la superiorità derivante dal migliore armamento e dalla migliore istruzione militare, dalla unità di comando, dall’impiego razionale delle forze combattenti e dalla disciplina. » Ora nell’analizzare la differenza tra il 1848 e la situazione che Engels vive nella Germania di fine secolo, e nella nostra condizione è evidente il filo comune della riflessione sotto questo aspetto. Il progresso tecnologico dovuto alla completa industrializzazione ha trasformato anche i mezzi di cui dispongono le due fazioni, quella del popolo rivoluzionario e quella dell’esercito, in quanto strumento dello Stato e della dominazione della classe dominante. «I fucili da caccia, anche in una lotta a piccola distanza non reggono assolutamente in confronto con i fucili a ripetizione dell’esercito» e ancora «Allora il piccone dei soldati del genio per farsi breccia nei muri divisori, oggi le cartucce di dinamite». Engels accenna anche alle modifiche nei trasporti, alla presenza stabile nelle grandi città di una parte rilevante dell’esercito, e rimarca la riflessione sul materiale militare che in epoca industriale è materiale industriale, acuendo la differenza con quello artigianale proprio degli insorti.
Oggi tutto questo va contestualizzato ma la riflessione di Engels nel suo complesso è attualissima. In Italia e nella parte occidentale dell’Europa non assistiamo più a cuor leggero all’uso delle armi da fuoco da parte della polizia in piazza. Questo elemento è vero, parzialmente vero, di certo accettabile in termini di uso eccezionale più che sistematico (basta pensare al G8 di Genova), ma legato al contesto di un conflitto fino ad oggi tutto sommato gestibile in modo più intelligente, senza provocare quello sdegno che una repressione troppo efferata comporterebbe. Ma la differenza di livello tecnologico tra le risorse astrattamente (ma l’astrazione diventa concretezza al momento del bisogno) disponibili in capo alle forze armate rispetto agli eventuali insorti, è aumentato, toccando livelli inimmaginabili ai tempi di Engels. Dal controllo dall’alto degli spostamenti, all’utilizzo di mezzi studiati appositamente per la lotta di strada, ad armi convenzionali e non utilizzate abitualmente in questo tipo di scontri, si potrebbe continuare pressoché all’infinito, facendo impallidire la differenza tra le cartucce a disposizione. A tutto questo va aggiunto che nella fase imperialista del capitalismo, con la costruzione di agglomerati imperialistici, esiste un ulteriore piano di compenetrazione tra strutture militari, che spesso presidiano il territorio. Questo fattore esula dalla gestione diretta dello scontro di piazza ma entra in gioco laddove si ponga realmente la questione della presa del potere.
È questo secondo elemento, che oltre al primo di natura scientifica e di progresso storico, pone Engels in relazione alla questione della presa del potere. È un elemento che riguarda la composizione sociale dell’insurrezione, il rapporto tra avanguardia e massa. Per Engels «E’ passato il tempo dei colpi di sorpresa, delle rivoluzioni fatte da piccole minoranze coscienti alla testa di masse incoscienti. Dove si tratta di una trasformazione completa delle organizzazioni sociali, ivi devono partecipare le masse stesse; ivi le masse stesse devono già aver compreso di che si tratta, per che cosa danno il loro sangue e la vita…Ma affinché le masse comprendano quel che si deve fare è necessario un lavoro lungo e paziente, e questo lavoro è ciò che noi stiamo facendo adesso.» E’ necessario non fraintendere le parole di Engels, il quale non pone il contrasto tra avanguardia e massa nei termini di negare la prima, anzi. Quello che Engels definisce lavoro lungo paziente e necessario è proprio il lavoro che un’avanguardia opera in relazione alla massa. Ma questo lavoro nella società moderna è finalizzato all’acquisizione da parte delle grandi masse di una coscienza rivoluzionaria della necessità storica del cambiamento rivoluzionario. In questo si svolge il ruolo dell’avanguardia. Ciò che Engels ritiene impossibile è che il cambiamento stesso avvenga senza un grado elevato di coscienza di massa, e dunque non possa risolversi nel “colpo”, nell’atto singolo compiuto da una minoranza, senza una reale e cosciente partecipazione delle grandi masse al processo rivoluzionario.
Come si vede chiaramente Engels non pone la questione del 50% + 1, ossia dell’attesa del raggiungimento della maggioranza attraverso lo strumento parlamentare, nel sistema dominato dalla borghesia che in grado di utilizzare tutti i suoi mezzi, oggi accresciuti, per evitare questo processo. Questa è la lettura assai forzata posta dalla socialdemocrazia. Né pone il rapporto maggioranza assoluta numerica/minoranza, ma pone come necessità un coinvolgimento delle masse, che diventa una forma di “sentire del momento storico”. E per far questo assume – nel momento storico dato – la possibilità che l’utilizzo dei margini legali concessi dal sistema democratico possano e debbano essere utilizzati sapientemente dal partito di classe, per avanzare nel coinvolgimento di massa.
Così dunque la lotta di classe, proprio per la sua natura, non può limitarsi all’idea del “colpo”. Questa considerazione è tanto più vera oggi, dove per giunta la questione della costruzione del consenso ruota intorno anche agli strumenti di formazione del consenso stesso, come i mass media, all’assenza – almeno nel quadro italiano – di un esercito di leva, sostituito con un esercito professionale di carriera, che ne rende più difficile la partecipazione immediata e spontanea, o l’astensione dall’ordine intimato dalla catena del comando. Né si dica che queste affermazioni di Engels contrastano con la linea della Rivoluzione d’Ottobre ed il pensiero di Lenin. Pur rilevando le differenze storiche tra la Germania di fine ‘800, la Russia degli inizio del secolo scorso e l’attuale situazione dell’Europa occidentale, alla quale mi riferisco, resta implicito che alcuni elementi essenziali non possono marcare per un processo rivoluzionario: un rapporto avanguardia/massa nel quale la prima immediatamente cosciente pone la seconda su un piano di coscienza del momento storico, che si trasforma in partecipazione attiva al processo rivoluzionario; una pretesa storica che non si esaurisce nella riduzione ad un solo ed unico momento storico senza un lungo lavoro precedente, né lo “scontro degli scontri”, né un “colpo” di una minoranza che funge da autoproclamatasi avanguardia slegata da un rapporto di massa; il ruolo dell’esercito e di chi applica il monopolio statale della forza, anche in termini di defezione significativa, senza il quale – piaccia o no – ogni rivoluzione è destinata ad essere soppressa, anche e soprattutto nell’epoca imperialista. Chi parla della Rivoluzione d’Ottobre come “colpo di stato” di una minoranza, dimentica alcuni fattori essenziali, tra cui la partecipazione attiva di una parte rilevante dell’esercito, e l’astensione dalla partecipazione in senso repressivo della maggioranza dell’esercito schierato sul fronte.
Oltre ad analizzare la questione del consenso – come fatto da un recente articolo di senzatregua e sulla quale per giunta non mi addentrerò – è necessario porsi la domanda dell’utilità storica della lotta di strada (cosa ben diversa dalla sua criminalizzazione secondo i canoni borghesi), rispetto alla questione centrale della modalità della presa del potere. Questo riguarda tanto nei i molti che esaltano le gesta di piazza in Italia, quanto i tanti che criticavano il KKE per non aver fatto “evolvere lo scontro di piazza in rivoluzione”(sic!), con singolare quanto scarsa capacità di comprensione dei rapporti di forza attuali e di come possano essere rovesciati. La riflessione contenuta nella pagine di Engels risulta fortemente attuale. Noi come lui riteniamo che la rivoluzione non possa generarsi da una “battaglia decisiva” provocata dall’avversario e combattuta con i mezzi e sul terreno di cui dispone il nemico di classe, grazie al monopolio dell’uso della forza, e alle forze produttive e militari, al controllo dei collegamenti stradali, all’enorme differenza tra la tecnologia in dotazione, alla mancanza di un blocco sociale maggioritario che si ponga coscientemente ed attivamente alla testa del processo rivoluzionario. Ma questo non ha nulla a che fare con il rifiuto di principio e l’esclusione della violenza come principio generale. «Lungi dal conseguire la vittoria con una sola grande battaglia (il proletariato) deve progredire, lentamente, di posizione in posizione, con una lotta dura e tenace…» Questa lotta quotidiana non è l’antitesi della rivoluzione ma la sua genesi necessaria, ciò che consente sapientemente di rovesciare le condizioni date. Un principio che non ha nulla a che vedere con la pretesa di migliorare il sistema a piccoli passi, di riformarlo, di modificarlo parzialmente per renderlo più accettabile, come distorto dalle teorie della socialdemocrazia, che sono risultate per giunta del tutto perdenti, come la storia ha dimostrato. È la prospettiva storica della rivoluzione che pone l’avanguardia di fronte alla necessità del lavoro di massa e non del rifugio illusorio nella fuga in avanti, che porta inevitabilmente alla sconfitta.