Con un’abbondante dose di ipocrisia il Ministro dell’Interno Alfano ha parlato di “cassandre smentite” in relazione alla manifestazione del 19 ottobre, che non avrebbe generato quella guerriglia urbana che in tanti si attendevano. L’ipocrisia è dovuta al fatto che per le due settimane precedenti alla manifestazione il Viminale e settori vari delle forze dell’ordine, collegate allo stesso ministero di cui l’on. Alfano rappresenta il vertice giuridico, non hanno fatto altro che diffondere note e rapporti in cui si esprimeva la preoccupazione per quanto potesse avvenire a Roma, in occasione della manifestazione.
Questa strategia ha contribuito ad oscurare del tutto lo sciopero generale del 18 ottobre, e a infondere un clima di terrore in relazione alla protesta convocata per il giorno successivo. In questa macchinazione ancora una volta i mezzi d’informazione hanno svolto una funzione essenziale come strumenti utilizzati da parte dello Stato – secondo una felice espressione di Gramsci – per creare preventivamente un’opinione pubblica adeguata ad evitare che si consolidasse un legame, anche in forma meramente ideale, tra una stragrande maggioranza della popolazione che vive le contraddizioni della crisi economica, ma non è ancora pronta a farsi parte attiva, e una minoranza attiva che è scesa in piazza.
La separazione tra violenti e non violenti, manifestanti buoni e cattivi risponde a questo terrore esistenziale non tanto per i risultati reali della lotta violenta, che sono paragonabili a qualche graffio per la struttura dello Stato, ma è strumento atto ad evitare la formazione di un sentire comune di appoggio alle manifestazioni di piazza di questi giorni, potenzialmente in grado di costituire un primo passo verso l’evolversi di forme di lotta isolate ed ancorate a rivendicazioni ancora squisitamente economiche, in rivendicazioni di carattere politico. Lo spettro della lotta violenta è agitato per colpire la lotta nel suo insieme, costituendo un pretesto essenziale per la criminalizzazione nell’opinione pubblica delle rivendicazioni poste alla base delle manifestazioni del 18 e 19 ottobre.
Così anche quando si registra una realtà minore dell’aspettativa – e questo è innegabile – la macchina mediatica deve correre ai ripari, sia per salvare la faccia rispetto alle previsioni errate, sia per enfatizzare episodi che devono essere assunti a misura di tutte le cose, trasformando il parziale in generale, dando in definitiva l’impronta più utile al mantenimento dello stato di cose presente, ad evitare il formarsi di un blocco reale di contrapposizione.
Questo pone oggi con assoluta chiarezza la questione del potere esercitato dai media nella rappresentazione, e in alcuni casi anche direzione, del conflitto sociale e politico, della necessità di considerare il rapporto in termini concreti di beneficio/danno dello scontro di piazza, che non scalfisce minimamente il nemico di classe, ma lo pone nelle condizioni di difendersi a livello di pubblica opinione e contrattaccate a livello di repressione sociale. Quanto la ricerca della pratica conflittuale apparente, in troppi casi purtroppo maschera della teoria rivoluzionaria mancante, in termini di consenso ponga elementi che in definitiva risultano efficaci solo a generare una separazione tra parte attiva e passiva del paese, impedendo il passaggio storico di coinvolgimento di quest’ultima, che è la stragrande maggioranza delle masse, in un’attività cosciente e attiva, indispensabile per la realizzazione del cambiamento reale. Non porsi oggi la questione della costruzione del consenso sarebbe deleterio, vorrebbe dire ignorare un elemento fondamentale, per le possibilità di sviluppo successivo della lotta di classe in Italia.