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Marx e l’undicesima tesi su Feuerbach

di Giordano Nardecchia

Uno degli aforismi marxiani più celebri è quello conosciuto come la “undicesima tesi su Feuerbach”. Vale la pena di menzionarlo per intero:

«I filosofi hanno finora interpretato il mondo in modi diversi; si tratta ora di trasformarlo

È opportuno contestualizzare adeguatamente l’opera, e in particolare quest’unica frase, onde evitare le consuete trappole che nasconde ogni singolo estratto del testo marxiano preso da solo – quello delle opere di Marx è un itinerario intellettuale denso di contraddizioni e di continue correzioni apportate dallo stesso autore. Ad ogni citazione dovrebbe sempre corrispondere una corretta analisi filologica. A leggere il singolo aforisma, infatti, si rischia di confondere gli intenti comunicativi dell’autore, provocando travisamenti (nei casi meno gravi) o strumentalizzazioni (nei casi più gravi). Si usa spesso l’Undicesima Tesi come supporto argomentativo di almeno due tesi che Marx non ha mai sostenuto in nessuna fase del suo pensiero:

1      – L’esortazione, rivolta ai filosofi, in vista di una attività non più solo contemplativa;

2 –     Il rifiuto della filosofia intesa come mera teoria in vista dell’attività pratica.

Una lettura meno ingenua di questa fortunata proposizione marxiana scongiura ogni possibile riferimento al platonismo politico dei «filosofi al governo» – un rischio corso da quei marxisti che videro in questa tesi qualcosa di simile ad un invito alla militanza rivolto agli intellettuali, o peggio, uno sprezzante rifiuto tout court dell’analisi filosofica.

Marx scrisse le Tesi su Feuerbach nel 1845, immediatamente dopo i Manoscritti parigini per allontanarsi dall’impostazione ancora troppo idealista dell’analisi della realtà, nel tentativo di costruire una filosofia materialista che si fissasse sulla fondamentale categoria della praxis – un tentativo che proseguiva nello stesso anno con l’Ideologia Tedesca e che trovò compimento nel Capitale (1867) con il passaggio dalla dialettica alla storia.

La prospettiva di questo Marx è quella di definire l’essere umano a partire non dalla coscienza soggettiva, ma dalla sua attività materiale. Nei testi del ’45, infatti, traspare si la volontà di oltrepassare la forma filosofica contemplativa che caratterizzava (a suo avviso) l’idealismo tedesco, ma solo per giungere ad una giusta conciliazione fra prassi e teoria – e non certo rovesciando il primato logico di una in favore dell’altra. Per riuscire in questa impresa bisogna abbandonare l’idea feuerbachiana che vorrebbe il pensiero ontologicamente subordinato all’essere: il Feuerbach più sensista non può soddisfare la prospettiva di unione fra teoria e prassi, perché la «risoluzione della teologia nell’antropologia» in Feuerbach significa anche l’espressione di una opposizione fondamentale fra pensiero e realtà, in cui l’una abbia un irriducibile primato sull’altro, e in cui dunque non è possibile nessuna mediazione fra oggettività e soggettività. Non è possibile, dunque, collegare la dimensione teorico-contemplativa con l’attività materiale. Per tale ragione Marx rifiuterà esplicitamente questo materialismo ricettivo (o intuitivo) nella prima delle Tesi su Feuerbach – senza confronto con la prima Tesi, non si comprende a fondo l’Undicesima.

«Il difetto principale di ogni materialismo fino ad oggi, compreso quello di Feuerbach, è che l’oggetto, il reale, il sensibile è concepito solo sotto la forma di oggetto o di intuizione; ma non come attività umana sensibile, come attività pratica, non soggettivamente.»

Definendo la coscienza umana come una soggettività ricettiva, il materialismo di Feuerbach intende rovesciare la tradizione idealista, ponendo al centro della sua riflessione non appunto la coscienza, bensì l’intuizione – il passaggio da astrazione a intuizione quale rottura con l’idealismo risente di una riduzione dello stesso idealismo alla formula “il pensiero determina la realtà”, riduzione in parte indebita operata da Feuerbach e dal Marx della gioventù. L’intuizione esclude ogni possibile mediazione, perché può soltanto cogliere la realtà come esteriorità. La praxis a cui Marx si riferisce è invece attività oggettivante:

«La concezione feuerbachiana del mondo sensibile si limita da una parte alla semplice intuizione di esso, e dall’altra alla pura sensazione […] Egli non vede come il mondo sensibile che lo circonda sia non una cosa data immediatamente dall’eternità sempre uguale a se stessa, bensì il prodotto dell’industria e delle codizioni sociali.» [1]

La svista di Feuerbach consisteva nell’aver anteposto la natura alla storia – un passaggio valido in astratto, ma contestualmente illegittimo stando all’idea di Marx secondo cui la natura che Feuerbach eleva a principio di realtà è quella stessa natura mediata dalla storia, una natura cioè che già risente dell’attività umana. Il materialismo feuerbachiano, che esclude da sé la mediazione e subordina la storia alla natura, è un materialismo che non è né storico né dialettico. La praxis, invece, per Marx, porta con sé una facoltà creativa ed è dunque ben lontana dalla ricettività: il soggetto si ritrova finalmente nell’essere e può mediarsi con il mondo: può (possiamo finalmente dirlo) trasformarlo.



[1] K.MARX, F.ENGELS, L’Ideologia Tedesca, Editori Riuniti, Roma 1972 pagg.15-16. Il termine «industria» vale come sinonimo di «attività produttiva»

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