di Alessandro Mustillo
Personalmente non sono mai stato affascinato dal pensiero di Costanzo Preve. Non mi ha mai convinto il modo in cui ha delineato la fine della dicotomia destra/sinistra, il suo richiamo al comunitarismo, il modo di concepire la questione stato nazionale/Europa, la sua lettura del quadro imperialista, per non parlare delle sue scelte personali più immediatamente politiche, che a mio parere non possono essere separate dal suo patrimonio teorico, e che anzi lo integrano nell’analisi e nelle prospettive. Parlerò al singolare accettando la sua polemica contro quanti parlano al plurale, ed esprimerò alcuni pareri squisitamente personali. Non reputo Preve un filosofo “marxista”, e non credo di fargli un torto, perché tale non si reputava neanche lui che in tutta la vita ha tuonato contro la riduzione del pensiero di Marx al “marxismo”, né tantomeno si può ritenere che la sua critica sia all’una o all’altra importazione marxista, essendosi sempre detto non interessato a questo tipo di discussione. Più precisamente ritengo Preve un filosofo che si è posto su terreno della liquidazione del marxismo, l’ideologo di riferimento di un’area politica che va formandosi, che utilizzando una certa terminologia marxiana, ne snatura contenuto e finalità. Una forma nuova, ma non sempre originale, di sussunzione di elementi del pensiero di Marx in un grande calderone idealistico, utilizzabile però in un preciso discorso politico. La sua visione di Marx “conservatore” la reputo fuorviante e gravida di conseguenze teoriche enormemente negative. Riconosco a Preve il merito storico di aver cercato una reazione, indubbiamente necessaria, al crollo della sinistra di classe in Italia e non solo. Un tracollo teorico prima che pratico, in cui una serie di categorie di analisi fondamentali sono state abbandonate per sposare il più vario eclettismo. Tuttavia dissento sulle conclusioni. Credo anzi che in questo nobile tentativo Preve abbia commesso l’errore di finire all’estremo opposto, e che gran parte della sua fortuna sia dovuta solamente al vuoto politico e teorico la cui responsabilità è largamente imputabile alla generazione di comunisti che ci ha preceduto. Non mi ha stupito l’omaggio ipocrita tributato da una parte della sinistra che Preve ha sempre combattuto, poco dopo la sua morte. Non mi stupisce per due ragioni: la prima una è certa visione ipocrita per cui tutti da morti possono essere santificati e rientrare nell’album di famiglia; la seconda è perché in fin dei conti le affinità tra gli opposti sono spesso maggiori di quanto si creda e, in un modo o nell’altro, la sinistra radicale italiana e Costanzo Preve sono opposti speculari nel processo di superamento del marxismo che li accomuna. Sia ben chiaro che non ritengo il marxismo un dogma, o un patrimonio intoccabile ed indiscutibile, non suscettibile di aggiornamento alle attuali condizioni. Tuttavia ritengo che non si possa essere “liberamente comunisti” al punto da definirsi tali anche quando le premesse analitiche e storiche di quel ragionamento non si condividono più. In quel caso è bene fare chiarezza e ammettere di essere diventati un’altra cosa, e questo vale da ogni parte del ragionamento.
Dicevo in partenza che la questione del superamento destra/sinistra così come impostata da Preve non mi ha mai convinto. La sua analisi ha molto di attuale e non è priva di un certo fascino in quella spietatezza che Preve ha nei confronti della sinistra radicale. L’errore di Preve è spingersi oltre, non accontentarsi di una critica a situazioni storiche concrete, sia presenti che passate, ma arrivare a criticare i concetti in sé, negando l’idea stessa che possa esistere una distinzione destra/sinistra, che sia storicamente esistita, che sia concettualmente o storicamente definibile. La critica previana coglie nel segno sul contesto italiano, ma in questo francamente non ha nulla di straordinariamente originale ed è la critica che contemporaneamente a lui alcuni (purtroppo non molti) comunisti hanno rivolto alla cosiddetta sinistra radicale. Se l’accusa è aver utilizzato questa distinzione destra/sinistra come forma di falsa coscienza, per giustificare l’ingiustificabile partecipazione alle coalizioni di governo di centrosinistra e tutto ciò che ne è conseguito; l’aver creato quella che spesso abbiamo definitivo come forma di tifoseria antiberlusconiana, deviando sistematicamente dalle questioni essenziali, sono totalmente d’accordo. Aggiungo che tale critica di volta in volta assume nei rispettivi paesi volti diversi per situazioni omogenee, pensiamo alla versione francese sul sostegno ad Hollande, o alla figura di Obama. Penso anche che su questo oggi siamo più vaccinati rispetto al passato, perché proprio l’esperienza storica di questi anni ci ha fatto toccare con mano il fallimento. La società non è invece vaccinata sulle conclusioni più estreme di Preve, ma non per Preve ed indipendentemente da Preve, perché la sua conclusione sul superamento della dicotomia destra/sinistra che è presente nella società pone scenari tutt’altro che rosei. Per dirla con una corretta interpretazione di Losurdo, proprio in risposta a Preve, negare la coppia concettuale destra/sinistra «significa non solo rinunciare ad un filo razionale per orientarsi nel dibattito e nel conflitto politico ma aprire anche le porte a chiavi di lettura e a ideologie assai torbide.» Preve mette in discussione che si possa determinare una distinzione tra destra e sinistra sulla base delle coppie concettuali progresso/reazione, emancipazione/de-emancipazione. Ritengo che Losurdo abbia fornito, nel dibattito con Preve, una risposta assai esauriente che mi sento di condividere pressoché in toto, in particolare sul fatto di considerare questa distinzione storicamente, riferendosi ad un momento determinato, con un’analisi concreta della realtà concreta. È in questo senso che le coppie progresso/reazione, emancipazione/de-emancipazione costituiscono ancora un elemento sostanziale e vitale. Né vale a mio parere la pretesa di dividere queste due coppie concettuali separando una buona ed una cattiva, nel primo caso si scade appunto nel positivismo e nella smisurata fiducia del progresso tipica della borghesia, ma nel secondo si finisce per dimenticare la dialettica degli opposti e cioè che per ogni momento storico sono presenti insieme elementi positivi e negativi, che nello sviluppo storico si generano le contraddizioni per un suo ulteriore sviluppo, che questo ulteriore sviluppo non può mai configurarsi come semplice ritorno. E’ in relazione ad ogni progresso, inteso qui come sviluppo storico e non come giudizio di valore, che si pone l’alternativa emancipazione/de-emancipazione, che storicamente non può configurarsi incrociando le coppie concettuali alternandole, dando vita all’idea di reazione emancipatrice, contro progresso de-emancipatore. Sono fedele alla lezione marxiana su questo punto, nel non concepire l’idea dell’antistorico ritorno, del “portare indietro le lancette della storia”.
Ed è questo il motivo per cui non mi affascina l’idea del comunismo comunitario di Preve, che individua il comunismo come continuazione del conflitto tra «il carattere distruttivo dell’illimitatezza dissolutiva delle ricchezze», che si accompagna con un individualismo esasperato, e «la reazione politica, sociale e comunitaria a questa natura dissolutiva della convivenza umana». Preve vede nella contrapposizione tra individualismo e comunità un punto di rottura su cui innestare una forma di comunismo, comunitario per l’appunto, che dovrà abbandonare le «sciocchezze utopiche di “estrema sinistra” tipo abolizione della famiglia, delle religione, della società civile dello stato, della coscienza nazionale, e invece con un modello di sviluppo economico di economia mista, mantenere la piccola impresa individuale e cooperativa, la permanenza del denaro, della piccola produzione mercantile ecc..» Non ho mai notato in Preve la distinzione ben chiara dei momenti presente in Marx su socialismo-comunismo, e questo è anche fonte di una certa contraddizione nel pensiero. Andrò ad analizzare passo passo quello che non mi convince. Preve dimentica sempre di accostare a tutti questi elementi l’aggettivo “borghese”. Lo fa perché a suo parere il capitalismo e la borghesia sono cose differenti, affermazione a cui può arrivare astraendo totalmente dai rapporti materiali economici questi concetti, limitandoli di fatto ad un modo culturale di essere. Dimentica Preve che i comunisti si pongono l’abolizione della famiglia “borghese”, della società civile “borghese” così come individuata nelle sue caratteristiche essenziali da Marx, dello Stato “borghese”, della coscienza nazionale “borghese”. Questa abolizione altro non è che il risultato dell’abolizione del sistema dei rapporti economici capitalistici. I comunisti sostituiscono a questi concetti quelli propri dello sviluppo della nuova società. In Preve sembra invece che questi elementi comunitari borghesi, o retaggio precedente alla borghesia e sopravvissuto alla dissoluzione individualista, siano gli elementi di resistenza e allo stesso tempo caratteristiche irrinunciabili del comunismo. Così nell’intento di rimediare ad un certo economismo presente ancora oggi, si scade nel dimenticare l’aspetto materiale, nello stravolgerlo, nell’assumere la forma apparente ideologica come natura delle cose. La borghesia moderna potrà essere scesa da cavalli e carrozze, aver abbandonato il moralismo di un tempo, ma questo non muta il carattere di espropriatrice che mantiene detenendo i mezzi di produzione. Il proletariato moderno potrà vestire in minigonna e tacchi a spillo, ma resta sempre classe sfruttata. La differenza tra la borghesia e le precedenti classi dominanti è stata ben analizzata sul rapporto progresso/reazione, che fa della borghesia una classe sociale non conservatrice, ma sempre in continuo mutamento. Gramsci nei quaderni parlò di “volontà di conformismo” differenziando la concezione di casta chiusa delle vecchie classi dominanti con la tendenza ad “elaborare un passaggio organico delle altre classi” presente nella borghesia. Ma questa forza rivoluzionaria della borghesia che pervade la società trova un limite invalicabile in un punto fermo: il rovesciamento dei rapporti di produzione. È qui che la borghesia si fa inevitabilmente reazionaria, è questo – piaccia o no – ancora oggi il punto centrale dello scontro.
Il tentativo di sostituire questo elemento con un’etica dei costumi, molto presente tra i previani – basta leggere qualche recente articolo apparso sulla questione – mi sembra il solito tentativo di reazione culminato nel suo opposto. Che il comunismo non sia Valdimir Luxuria è evidente. Mi scuso per la riduzione ad una persona, ma lo nomino per chiarezza nell’esposizione di un processo che ha visto la sinistra radicale sostituire le battaglie sui diritti sociali con quelle sui diritti civili in modo sistematico. Su questo siamo d’accordo. Ma trasformare all’opposto il comunismo nella versione “bacchettona” e moralista della difesa della tradizione tout court, mi sembra semplicemente concepire una critica che al posto di rovesciare il piano in cui è caduta l’analisi della sinistra radicale europea, ne accetta le premesse e si pone semplicemente ai suoi antipodi sotto un profilo squisitamente ideologico (dove il termine ideologico è espresso in tutto il suo significato marxiano). Francamente ritengo molto più semplicemente che i comunisti debbano tornare a parlare un linguaggio di classe, ad individuare i problemi essenziali, a porre anche nelle cosiddette questioni di genere, questione femminile in primis, l’elemento di classe come preponderante, a riportare al giusto peso queste battaglie nell’ambito di tutte le battaglie condotte dai comunisti, in cui a mio parere, resta assolutamente preminente l’aspetto dei diritti sociali. Scriveva Marx nell’ideologia tedesca che «i comunisti non propugnano né l’egoismo contro l’abnegazione né l’abnegazione contro l’egoismo, e non accettano teoricamente questa opposizione… ma piuttosto ne dimostrano l’origine materiale… Essi non pongono agli uomini gli imperativi morali: amatevi l’un l’altro, non siate egoisti, ecc.; essi al contrario sanno benissimo che in determinate condizioni l’egoismo, così come l’abnegazione, è una forma necessaria per l’affermarsi degli individui». Non vedo moralismo alcuno in questo, né negli altri passaggi in cui Marx ed Engels affrontano la questione e mi sento di condividere un certo “laicismo” rispetto a questi aspetti.
E qui torna un altro elemento essenziale per cui la teoria di Preve non mi appassiona. Per quanto egli – rendo onore al vero – abbia più volte concepito il suo comunitarismo come non in alternativa al comunismo e al concetto di classe, mi sembra che questa intenzione sia rimasta solo sulla carta, quando si parlava direttamente del rapporto classe/comunità, quasi una necessaria premessa per non spaventare il lettore, o accompagnarlo a piccoli passi nel proprio percorso, mentre si arriva alla naturale ed inevitabile opposizione, quando nei fatti si entra nel particolare. Una sorta di ancoraggio ponte al proprio passato presente in Preve, ma già abbandonata da quanti a Preve si rifanno a vario titolo, per tradurre in pratica politica il suo patrimonio teorico, e la portata materiale di un pensiero mi ha sempre interessato di più di quella teorica del singolo pensatore. Se la comunità si sviluppa tra eguali sotto il profilo della posizione economica nella società la comunità si chiama classe sociale, l’appartenenza comunitaria è coscienza della propria appartenenza di classe, il legame solidaristico che si sviluppa tra gli individui ponendosi sul terreno della comunità, altro non è che la pratica consapevole di avanzamento reciproco e comune, superando la tendenza ad agire come singoli individui, che non si annullano ma si integrano e si rafforzano collettivamente. Ma questo è come intendo il rapporto a livello personale, ed è chiaro che allora dove classe è l’elemento economico, il concetto di comunità può sovrapporsi solo su quello ideale, come coscienza di appartenenza. Ma i due concetti diventano sovrapponibili e Preve non intende questo, perché in Preve la comunità sebbene non sia contro il concetto di classe, la supera. In che direzione? Nell’unica direzione in cui il comunitarismo si è sempre storicamente posto, quella dell’orizzonte della comunità nazionale, che si evidenzia nel punto essenziale per Preve della «difesa di uno stato-nazione indipendente concepito in modo nazionalitario e non nazionalista, razzista ed imperialista». Mi sembra opportuno qui introdurre una riflessione interessante fatta da Wu Ming sul discorso destra/sinistra che ho volutamente omesso in precedenza per riportarla ora. «Tagliando con l’accetta, “di sinistra” è chi pensa che la società sia costitutivamente divisa, perché al suo interno giocano sempre interessi contrapposti, prodotti da contraddizioni intrinseche…. “Di destra” invece è chi pensa che la nazione sarebbe – e un tempo era – unita, armoniosa, concorde, e se non lo è (più) la colpa è di forze estranee, intrusi, nemici che si sono infilati e confusi in mezzo a noi e ora vanno ri-isolati e, se possibile, espulsi, così la comunità tornerà unita». Preve non arriva a tanto sia chiaro, ma molti dei seguaci e di quanti hanno omaggiato Preve definendosi debitori del suo pensiero lo fanno quotidianamente. Il pensiero di Preve è l’anello di congiuntura della catena, quello che apre la porta al non detto che altri prontamente dicono evidenziando la contraddizione di fondo e ponendola nell’unico sviluppo direzionale possibile, a meno che non si concepisca la necessità di un passo indietro. Preve ritiene la classe operaia un soggetto storico non in grado di porsi alla testa del cambiamento rivoluzionario (ed è un piano differente dalla necessità delle alleanze di classe), anzi ritiene che questo elemento sia uno degli errori utopistici di Marx e del marxismo successivo, e con questo la teoria del valore di Marx non valida. Ma, paradosso del paradosso, astraendo i rapporti tra gli uomini dalle loro basi materiali, sostituendo il concetto di classe con quello di comunità, Preve compie all’opposto inverso la medesima operazione di Negri che crea le sue moltitudini, con la sola differenza della diversità dell’orizzonte politico: l’uno nella comunità nazionale resistente, l’altro nel conflitto aperto del capitalismo globalizzato, ma sia moltitudine che comunità non hanno carattere di classe, sono il superamento di quel concetto che giunge a prospettive diverse, partendo da un presupposto comune.
Preve vede il comunitarismo come «Tentativo positivo di riaffermare il primato della politica sull’economia» perché a detta di Preve «Il primato dell’economia sulla politica è infatti la più schifosa religione idolatrica dei nostri tempi, e ad essa appunto si oppone il comunitarismo.» Cosa significa l’espressione “primato della politica sull’economia”? In genere si accompagna spesso con verbi e sostantivi che parlano di passato. Ritorno, ripristino, riconquista a seconda delle varie accezioni. C’è un po’ quell’idea di fondo del ritorno all’età dell’oro, che si manifesta a seconda dei casi con più o meno intensità e differenze di sfumature. Ma parlare di “primato della politica sull’economia” è un concetto tanto vuoto, quanto vago e suscettibile di infinite gradazioni di interpretazione. Se chiediamo alla maggior parte delle persone che adoperano questa espressione cosa accadesse nella prima Repubblica in Italia, diranno che esisteva il primato della politica sull’economia, e la stessa cosa verrebbe detta sul fascismo, tant’è vero che quest’espressione, proprio per la sua vaghezza è utilizzata indistintamente anche dai movimenti di estrema destra. Al massimo qualche più avveduto dirà che nella prima Repubblica l’Italia era sotto il controllo militare statunitense, ma come spesso accade, lo reputerà un atto esterno, non vedendo il nesso dialettico corretto tra interessi interni ed esterni comuni alla borghesia e livello ulteriore di protezione di quegli interessi esercitato anche per il tramite straniero. Sarebbe assai facile dimostrare in entrambi i casi che non era assolutamente così e che i maggiori margini di concessioni durante il dopoguerra erano dovuti semmai al contesto internazionale e allo spettro del comunismo, ma che di per sé la politica dei governi era politica degli interessi delle classi dominanti, parzialmente mitigata, ma sempre quella era. Per non parlare invece del fascismo, su cui resto fedele alla definizione data da Dimitrov e Togliatti e dal giudizio della terza internazionale, che mise chiaramente in luce il carattere di classe del fascismo. Oltre ogni distinzione degli elementi costitutivi che si può fare, e Preve la pone, tra elementi di destra/sinistra, il fascismo resta nella sua funzione storica, un movimento reazionario, il cui carattere di massa è a sua volta reazione all’esigenza della borghesia di attingere a livello di massa per preservare il suo dominio. Ma quando il punto centrale non viene posto con chiarezza il rischio è che pur professandosi antifascisti, rispetto al fascismo storico, quasi ad esigenza di esporre le proprie credenziali, si scade invece nell’equiparazione dei movimenti di destra e sinistra (categorie negate per l’appunto) che si pongono l’obiettivo dell’uscita dalla UE. Così piaccia o no le teorie di una persona non possono del tutto essere disgiunte dalla sua condotta in vita. Quando Preve dichiara che se fosse stato cittadino francese avrebbe votato Marine Le Pen, compie proprio questa operazione, al di là di ogni provocazione. Al vago concetto del “primato dell’economia sulla politica” andrebbe sostituito a mio parere quello più concreto del controllo dei lavoratori sui mezzi di produzione come elemento centrale, su cui poi chiaramente innestare il controllo statale (ma di uno Stato che non è quello che intendiamo oggi, che non è lo Stato borghese) sulla finanza, ripudio del debito e certamente controllo collettivo (in questi termini inteso) sulla moneta, e sulla sovranità, che in questo modo diventa sovranità popolare. Ma quando si aggiunge il passaggio concreto del controllo dei lavoratori sui mezzi di produzione, il vuoto concetto del “primato della politica sull’economia” cambia radicalmente e dalla sua vuotezza si passa alla piena concretezza. Si percepiscono allora le differenze sostanziali di campo, che la teoria di Preve, limitandosi alle altre posizioni, agli elementi che per me sono derivati, ed individuandoli al contrario come principali, non solo non coglie ma chiaramente annulla. Si chiarirà allora che la “sovranità” intesa in questo modo l’Italia non l’ha mai avuta, che la politica prodotto delle condizioni presenti nel dopoguerra non aveva il primato sull’economia e così via. Si capirà allora che questa “sovranità” non è da “riconquistare”, semmai da conquistare, e che ogni espressione che contiene l’idea storica del ritorno, contribuisce ad illudere e creare confusione. Ma questo Preve non lo fa, anzi.
E qui si apre il giudizio sull’Unione Europea e sul rapporto globalizzazione/stato nazionale che con il contesto europeo si carica di aspetti particolarmente attuali. Che fosse necessaria una reazione alla deriva della sinistra anche radicale sull’accettazione totale dell’orizzonte dell’Unione Europea sono assolutamente d’accordo. Era necessario smascherare l’inconcludenza delle formule “Euopa dei popoli” contrapposta all’Europa del capitale, perché la seconda esiste la prima non può esistere a queste condizioni; era necessario colpire ogni illusione riformista sulla possibilità della contemporaneità del raggiungimento dello stesso livello di condizioni tale da generare un movimento europeo omogeneo, compatto che modificasse radicalmente la natura della UE, e le differenze di livello delle proteste sociali, a loro volta frutto del differente livello della situazione economica lo provano. Ma in questa dialettica che pone la necessità dell’ancoraggio al livello statuale c’è un filo sottile, in cui se si scambia elemento derivato, con elemento primario, la capitolazione è inevitabile. E capitolazione dell’opposto è stata. L’obiettivo principale diventa la “riconquista della sovranità nazionale” contro il nemico estero che viene dall’Europa, autore di tutti i mali, e non più strumento ultimo con cui il capitale pone il suo attacco nei confronti delle masse popolari, ma nemico principale. Preve dice che il suo «stato nazionale fondato su di una democrazia nazionalitaria non ha più nulla a che vedere con i vecchi stati-nazione imperialisti.» Ma questa è affermazione tutta sua perché il porsi sul terreno della riconquista, concepire il popolo in visione comunitaria – unitaria, non vedere la distinzione di classe e non far emergere un soggetto di classe principale in questo processo (certamente su cui deve innestarsi un discorso di alleanze di classe, mai negato), vuol dire proprio tornare alle premesse per la costruzione dei vecchi stati nazionali borghesi. Vuol dire porre in definitiva le masse popolari dietro a interessi di settori della borghesia, e ce ne sono che chiederebbero l’uscita dall’Europa, e sono sempre più in movimento. Siccome l’analisi pratica vale più di mille parole Preve critica in Grecia l’atteggiamento dei comunisti in un suo scritto (quindi non intervista che renda fraintendibile il significato), e invece concorda con la proposta di Mikis Theodorakis che chiedeva di scendere in piazza senza bandiere rosse ma solo con bandiere greche. Dice Preve: «Nonostante abbia amici soprattutto fra i “sinistri” greci, devo dire che a mio avviso la linea giusta è quella di Theodorakis. Il popolo non deve essere diviso ideologicamente, ma unito in nome della sovranità nazionale.» Il passaggio politico è compiuto!
Anche sul terreno dell’imperialismo questo abbandono della base economica da ogni rilievo pratico porta Preve ad incarnare tesi oggi sostenute in molti ambienti, proprio come piacerebbe a Preve oltre la distinzione destra/sinistra nella sua visione concettuale e non storica. «Ritengo che oggi l’avversario principale dei popoli del mondo sia l’impero americano potentemente armato, che non trova purtroppo alcun contrappeso economico, politico, culturale, militare e geopolitico sufficiente.» «personalmente, sono favorevole come male minore ad una geopolitica eurasiatista di difesa, come male minore rispetto al male maggiore, che è l’occupazione occidentalistica del mondo.» «Abbiamo bisogno di una Russia geopoliticamente e militarmente forte ed indipendente.» E’ la nota confusione dei piani di chi ha giustamente tentato di reagire alla sottomissione della sinistra all’imperialismo, ma basandosi su una visione unitaria dei popoli e non sulle divisioni tra classi, declinando l’aspetto imperialistico su base essenzialmente militare e culturale (da cui l’occidentalismo), è roteato dall’altra parte del piano. Ora il fallimento della sinistra radicale di lotta e di governo che nel quadro della UE e della Nato entra nei governi nazionali è così palese da non essere necessario dire nulla di più. Iraq, Kossovo, Afghanistan, Iraq di nuovo, Libia, appoggio previsto al conflitto militare in Siria, rappresentano esempi della totale sottomissione della sinistra socialdemocratica, e di molti “radicali” alle logiche imperialiste. Tuttavia credo ci sia un errore di analisi che non riguarda solo Preve, nel concepire il fenomeno del cosiddetto “multipolarismo” come fenomeno emancipatore. Vorrei riprendere proprio la dialettica progresso/conservazione, emancipazione/de-emancipazione per applicarla al contesto internazionale. Innanzitutto l’imperialismo è nozione che parte da una fase di sviluppo del capitalismo, in cui all’elemento economico, fusione del monopolio industriale con quello finanziario, si aggiunge quello militare, l’organizzazione di alleanze internazionali, che giungono a compiuta ripartizione della Terra. Il processo di passaggio da un’egemonia euro-atlantica (non priva di per sé di elementi di parziale contrasto interno precedentemente) ad una fase multipolare è chiaramente spiegata dal livello economico che ha visto lo sviluppo di grandi paesi, ed in particolare dei BRICS. Evidentemente i BRICS costituiscono quel contrappeso politico all’alleanza euro-atalntica, al punto mi permetto di aggiungere, da iniziare ad intravedere qualche segnale di scricchiolio abbastanza evidente, anche se embrionale e contraddittorio, che forse in futuro potrà evolvere. La dialettica progresso/conservazione emancipazione/de-emancipazione è utilissima per inquadrare questa fase. Come hanno giustamente osservato i comunisti siriani in relazione al ruolo di Russia e Cina, tatticamente questi paesi sono in grado per un periodo di tempo determinato, di concedere più ampi spazi di manovra contro l’imperialismo americano. Ma le premesse economiche da cui partono i BRICS, piaccia o no, e in questo dissento da Losurdo, non sono quelle della contrapposizione tra sistemi, come tra URSS e USA, ma si producono su sfere d’influenza, su meccanismi economici in definitiva comuni. Il multipolarismo allora si configura come terreno di scontro tra imperialismi contrastanti, ed in questo sta il progresso storico effettivo rispetto ad una fase precedente. Ma tornando alla nostra dialettica in questo progresso non c’è ancora l’emancipazione, e mentre l’URSS era forza che incarnava insieme progresso ed emancipazione non lo sono i BRICS oggi. Così all’interno di questo nuovo contesto, di nuova ripartizione di forza all’interno del sistema imperialista mondiale, le forze antimperialiste possono sfruttare questa contraddizione, a patto che non confondano il piano tattico con la strategia. Quando si confonde questo piano e si inneggia alla Russia di Putin, che all’opposto non vuol dire essere favorevoli a quanti si strappano i capelli per le Pussy Riot, sia ben chiaro, si compie questo errore di fondo. Ma questo approdo è solo il processo finale dell’errore compiuto in precedenza nella valutazione dei rapporti interni agli stati ed in una errata definizione di imperialismo.
In ultimo mi addentro sul terreno più squisitamente filosofico, sul suo reputare Marx un conservatore, continuatore della filosofia idealistica tedesca senza rottura. Su questo piaccia o no a Preve che per tutta la vita ha tuonato contro gli ambienti accademici del marxismo, lui è molto accademico. Si inserisce perfettamente nel filone dominante in ambienti accademici dell’analisi su Marx. E’ a tutti gli effetti un accademico senza accademia. Il terreno su cui si pone è lo stesso del dibattito accademico secondo cui, per dirla con la parafrasi di Popper alla celebre undicesima tesi su Feuerbach di Marx, “i marxisti fino ad ora hanno solo interpretato Marx; si tratta ora di cambiarlo” operazione in cui schiere di accademici patentati o meno, da un secolo e più occupano la loro esistenza. Alcuni hanno anche capito che oggi con Marx si possono vendere libri e le stampe di strampalate analisi intasano le librerie. Come gli accademici Preve ovviamente si scaglia contro quanti abbiano dato coerenza pratica e funzionale al pensiero di Marx orientandolo verso l’azione politica. Il cattivissimo Engels in primis, Lenin – a cui Preve riconosce altri meriti – che non fece di certo la rivoluzione per il suo “penoso materialismo dialettico”. Prima della critica in sé si registra quell’orrore accademico per la teoria che diventa patrimonio delle masse, che esce dal suo guscio di inutilità accademica, per caricarsi di azione, per diventare storia. Perché la prassi, inclinando la teoria all’azione, ne distorce alcuni aspetti la rende più funzionale, la pone in rapporto dialettico con l’azione diretta, e l’accademico non può che storcere il naso. Preve compie la stesso operazione già compiuta da Croce ad esempio e su cui Gramsci tanto si era scagliato nei quaderni dal carcere, e non stupisce che Preve stravolga anche Gramsci, per piegarlo alla sua visione. Non riesce a concepire l’idea di dialettica e materialismo insieme, quindi riduce Marx al ruolo di idealista, ma così facendo stravolge Marx, parla di materialismo come materialismo meccanico, omettendo e riducendo la portata innovatrice del pensiero di Marx. Come scrisse Gramsci riguardo all’annosa questione del rapporto conservazione/innovazione in Marx « gli elementi di spinozismo, di feurbachismo, di hegelismo, di materialismo francese, ecc..non sono per nulla parti essenziali della filosofia della praxis, né questa si riduce a quelli, ma che ciò che più interessa è appunto il superamento delle vecchie filosofie.»
In conclusione credo che l’errore definitivo di Preve sia stato proprio quello di porsi sul superamento del marxismo, motivo per cui non riesco a ricondurlo come ha fatto Ferrero alla nostra storia (qualche malizioso potrebbe dire la stessa cosa su Ferrero), ma ritengo che sulla base delle sue scelte teoriche e politiche Preve sia andato oltre. «Infine, deve essere chiaro a mio avviso che la fusione di comunismo e comunità (più esattamente, l’inserimento del comunismo nella tradizione storica della resistenza della comunità alla dissoluzione sociale ed umana dell’individualismo crematistico) non è una eresia comunista fra le altre, non si pone sul loro terreno ( il raddrizzamento ideologico del “vero marxismo” contro la deviazione ed il revisionismo), e non ha nulla a che fare con esse.» « In ogni caso, la mia posizione potrebbe essere definita come né di destra né di sinistra, il che equivale a dire e di destra e di sinistra». Preve avrebbe potuto scegliere la strada di smascherare la deriva della sinistra radicale italiana, ma è andato oltre. In effetti a ben pensarci la fase che abbiamo vissuto, e che in parte continuiamo a vivere, somiglia molto per analogia alla scissione nel movimento operaio tra socialdemocrazia e comunisti, con il tradimento storico della socialdemocrazia. Allora i comunisti decisero di porsi chiaramente sul terreno che Preve vuole coscientemente evitare. Quel terreno permise ai comunisti di vincere in Russia, in Cina, in Vietman, in Corea, a Cuba, e in tante altre parti del mondo. Di costruire qualcosa, che ha avuto i suoi limiti storici ed in parte li ha ancora, in cui è necessario verificare cosa non abbia funzionato. Ma non fu il “penoso materialismo dialettico” di Lenin a determinarne la sconfitta, e né la vittoria si determinò indipendentemente dal ruolo dei comunisti. Quella sua tendenza a porre la storia del movimento comunista e della sua dissoluzione come elemento evoluzionistico naturale, non mi affascina, non la condivido, la reputo una faciloneria assurda. Si può discutere sui giudizi storici ma non si può pensare di tracciare una linea unica che parta da Lenin, passando per Togliatti-Longo-Berlinguer ed arrivare a Occhetto-Veltroni-D’Alema. Tutto questo va analizzato e lo stiamo facendo, ma questo giudizio è troppo semplicistico, perché riduce tutto a semplice evoluzione, non cogliendo alcuni momenti storici nodali di vero e proprio strappo, che escludono ogni continuità evoluzionistica dal momento più alto al disastro.
La fortuna di Preve, è dovuta all’enorme diffusione in internet dei suoi scritti (lo stesso strumento telematico contro cui si scagliava), senza la quale sarebbe rimasto anonimo professore di filosofia, e all’incredibile vuoto di analisi della sinistra radicale, nel silenzio dei comunisti che per troppo tempo hanno piegato ogni analisi alla tattica immediata, che coincideva con il mantenimento di posizioni economiche personali e singole. L’opportunismo della sinistra radicale, il suo totale cedimento spiegano Costanzo Preve, ed il mio è un ulteriore momento di accusa agli errori condotti in questi anni. Ma la prospettiva aperta da Preve non corregge quegli errori, ne accetta le premesse e si muove solo sul piano inverso, generando potenzialmente mostri altrettanto grandi quanto quelli che giustamente si volevano combattere.
Ancora oggi serve una riduzione dialettica che riporti al centro della questione e che permetta di costruire una teoria moderna della rivoluzione, che non può fare a meno del marxismo-leninismo e che sappia evitare gli errori compiuti dall’una e dall’altra parte. E vale la pena di riproporre con forza l’intuizione di Gramsci del marxismo come lotta per una “cultura superiore autonoma” che si stacchi dalle sue riduzioni ed in forza di questo vera teoria rivoluzionaria.