Dall’inizio della crisi economica ad oggi la disoccupazione giovanile nell’area dei paesi dell’Unione Europea è aumentata sistematicamente. Nei primi anni del nuovo millennio la percentuale di giovani senza lavoro si attestava attorno al 17%. Nel 2009, a seguito della crisi economica, ha toccato quota 20% per arrivare al 23,4% a marzo del 2012. Confrontando questo dato con il tasso generale di disoccupazione a livello continentale pari all’11.7% nel 2012 si capisce immediatamente come le nuove generazioni siano più esposte al rischio della disoccupazione.
Il quadro della mancanza di lavoro per i giovani si diversifica di molto all’interno del contesto continentale, assumendo valori estremamente differenti da Stato a Stato. Stando ai dati del dicembre 2012, forniti dalla Commissione Europea, il picco della disoccupazione giovanile si registra oggi in Grecia con il 59,4%, seguito dalla Spagna con il 55,6%. Subito dopo troviamo il Portogallo con il 38,3%, l’Italia con il 36,6% la Slovacchia con il 35,9%, la Lettonia con il 31,7%. l’Irlanda con il 30,2%. La disoccupazione è tra superiore al 25% anche in Bulgaria, Francia (27%), Cipro (28%), Ungheria, Polonia, Slovenia, tra il 20 ed il 25% in Belgio, Repubblica Ceca, Romania, Svezia, Regno Unito, tra il 15 ed il 20% in Estonia, Lussemburgo, Malta e Finlandia, tra il 10 ed il 15% in Danimarca, Paesi Bassi. I paesi con tasso di disoccupazione giovanile più basso sono l’Austria con l’8,5% ed in assoluto la Germania con l’8%.
I dati citati per completezza del quadro europeo sono quelli forniti dalla Commissione Europea e fanno riferimento a dicembre 2012. Tuttavia la situazione è ulteriormente peggiorata in questi mesi. Pur non disponendo dell’intera gamma di dati di riferimento citiamo a titolo puramente esemplificativo il caso dell’Italia, che meglio conosciamo, dove la disoccupazione a luglio 2013 ha toccato quota 40.4% (+3,8% rispetto ai dati del 2012). In secondo luogo i dati sulla disoccupazione giovanile non rendono la portata del fenomeno in tutta la sua ampiezza. Spesso infatti vengono registrate nelle statistiche solo una parte delle quote effettive di disoccupazione, che si limitano a riportare licenziamenti e perdite dirette di posti di lavoro, ma ignorano altri aspetti, che vengono invece riportati nelle statistiche che riguardano la cosiddetta popolazione “inattiva”. Si tratta di giovani che non studiano e non lavorano, spesso non cercano neanche lavoro, ben sapendo dell’impossibilità di trovarlo. In Italia ad esempio nel periodo dal 2004 ad oggi sono stati persi 1 milione ed 825 mila posti di lavoro, ma il numero dei giovani “inattivi” è di circa 6 milioni e 250 mila. Altro aspetto che le statistiche nazionali non mettono in rilievo è l’ineguale ripartizione del numero di giovani senza lavoro nelle diverse regioni dei paesi. In Italia, il sud del paese, storicamente più debole dal punto di vista economico e produttivo, è maggiormente colpito dalla disoccupazione, che in molte zone supera abbondantemente il 60-70%. Questo apre nuove forme di migrazione di masse di giovani lavoratori all’interno dei confini nazionali, e all’esterno nell’area europea. Allo stesso tempo in gran parte del continente si registra una maggiore quota di disoccupazione giovanile femminile rispetto a quella maschile, a testimoniare come le donne siano ancora maggiormente colpite da questo fenomeno e dalle differenze sostanziali nel mondo del lavoro.
Possiamo passare ora ad analizzare le ragioni di un aumento così imponente della disoccupazione giovanile in Europa. La crisi economica scoppiata nella seconda metà del decennio passato è una crisi da sovrapproduzione di capitali e merci, che ha ridisegnato il quadro economico produttivo pre-esistente acuendo la concentrazione monopolistica, schiacciando parti rilevanti di piccola e media impresa, accelerando ulteriormente il processo di delocalizzazione di interi settori produttivi che trovano più ampi margini di profitto in paesi a minore costo del lavoro e con minore livello di tutele e diritti per i lavoratori. In secondo luogo il forte ricorso da parte degli Stati a misure di ricapitalizzazione delle banche e di grandi imprese a spese delle casse dello stato, ha aumentato l’indebitamento pubblico. Questo processo unito con l’imposizione di politiche di austerità volute dai governi europei ha portato ad una generale contrazione della spesa pubblica impiegata in precedenza nell’erogazione di servizi pubblici, come la scuola, la sanità e tutto ciò che componeva il sistema di “welfare state” ed il sistema dei diritti conquistati con le lotte sociali del dopoguerra, i cui margini vengono sempre più ridotti, portando ad una riduzione del lavoro anche nel settore pubblico. In terzo luogo l’aumento dell’età pensionabile in tutta Europa ha ulteriormente ristretto il numero di posti di lavoro disponibili, limitando il ricambio generazionale e colpendo in particolare la gioventù. Basti pensare che in Italia in meno di cinque anni l’età pensionabile è aumentata di 5 anni, e proprio pochi giorni fa l’OCSE ha chiesto all’Italia di aumentarla ulteriormente.
Il processo di delocalizzazione delle grandi imprese produttive ha due direttrici. La prima interna alla stessa Unione Europea, agevolata dalle disposizioni del diritto comunitario che impongono la libera circolazione di merci capitali e servizi all’interno della UE. La seconda, verso i paesi in via di industrializzazione. In entrambi i casi la ragione economica è la tendenza del capitale ad aumentare i margini di profitto, attraverso l’utilizzo di forza lavoro a più basso costo e con minori livelli di tutele sindacali. I grandi monopoli mirano a sfruttare questa competizione al ribasso in cui il capitale ha tutto da guadagnare, i lavoratori di ogni parte del mondo, tutto da perdere. Molte industrie hanno abbandonato la produzione nei paesi dell’Unione Europea, lasciando ovunque miseria e disoccupazione. In altri casi la minaccia della delocalizzazione è stata utilizzata per ottenere una diminuzione dei salari, un aumento degli orari di lavoro e della produttività, l’esclusione di forme di tutele legali e sindacali accordate ai lavoratori. Questa forma di ricatto è oggi molto diffusa e mira ad ottenere condizioni peggiori per i lavoratori facendo leva sulla minaccia della disoccupazione. L’impatto della crisi sulla produzione è stato particolarmente forte nei paesi in cui la struttura produttiva si fonda su aziende piccole e medie, come il caso dell’Italia la cui produzione era in larga parte finalizzata all’esportazione, agevolata storicamente da un cambio monetario molto debole, che si è visto mutare nel giro di pochi anni con l’introduzione dell’euro.
I governi europei siano essi formati da partiti popolari, socialdemocratici, liberali o da forme di grandi coalizioni comuni tra più partiti non sono assolutamente in grado di risolvere il problema della disoccupazione giovanile, ma finiscono solo per acuirlo. Le misure dei singoli governi sono nella maggior parte dei casi trasposizione delle direttive economiche decise a livello europeo ed internazionale dalla troika composta da UE, BCE, FMI. Le uniche misure seriamente intraprese vanno nella direzione di aumentare i margini di profitto del capitale a scapito dei lavoratori, e non hanno nulla di diverso da quanto già efficacemente descritto da Marx. I governi europei vogliono combattere la disoccupazione modificando le tipologie di contratto, introducendo sempre maggiore precarietà nel lavoro, diminuendo i livelli salariali, aumentando orari di lavoro e produttività del lavoro. In definitiva essi si fanno portavoce del ricatto padronale: perdere il lavoro, o aumentare il proprio sfruttamento, cedendo diritti e salario. Questa logica è partita nel nostro paese dal principale gruppo industriale italiano, la FIAT, storicamente luogo delle prime battaglie tra operai e padroni in Italia, ed oggi si diffonde a macchia d’olio su tutto il settore produttivo, sulla distribuzione e anche nel mondo del terziario dominato dai grandi gruppi monopolistici.
I paesi dove la disoccupazione giovanile è minore sono quelli dove la struttura produttiva è più forte e dove il fenomeno di precarizzazione del lavoro e di riduzione salariale ha toccato le punte maggiori. Basta guardare alla Germania dove i cosiddetti “mini jobs” rapporti di lavoro pagati non più di 450 euro al mese, riguardano 8 milioni di persone, il 25% dei lavoratori dipendenti tedeschi. Il famoso modello tedesco, che viene proposto come modello da imitare si fonda proprio su questo: massimo profitto per i grandi monopoli, sfruttamento esasperato dei lavoratori. Questo serve anche a sfatare una certa idea che si esprima un conflitto tra stati del Sud e del nord Europa, conflitto che spesso si tende a leggere sotto un’ottica nazionale e non di classe. Sebbene esistano differenze, anche molto forti, sulle condizioni economiche dei paesi, mai lo scontro di pone tra lavoratori e lavoratori che a varie forme con modalità ed intensità differenti, sono sottoposti tutti al comune sfruttamento del capitale, indipendentemente dalla propria nazionalità.
Questa condizione sta portando un riemergere della lotta di classe sul continente europeo. Un processo non privo di contraddizioni, differenze di livello ed incisività. In molti paesi è a livello iniziale e si scontra con la sfiducia causata dalla sconfitta storica del socialismo nell’est europa, nella sfiducia in molte strutture sindacali e politiche che sono a tutti gli effetti corresponsabili della condizione attuale. In alcuni casi la lotta di classe ha toccato punte molto elevate, penso alla Grecia con il ruolo di avanguardia svolto dal PAME nelle rivendicazioni dei lavoratori. La lotta ed il livello delle rivendicazioni crescono anche in Portogallo, Spagna, nella stessa Italia, sebbene con molte contraddizioni. Il differente stato dell’avanzamento della lotta di classe nei vari paesi europei si spiega con le differenti condizioni economiche, legate in modo particolare alla questione del debito pubblico e dei commissariamenti da parte di UE, BCE, FMI e le misure imposte dai governi, ma anche dalla capacità delle organizzazioni di classe di aver mantenuto la propria presenza ed una correttezza di analisi politica in questi anni.
La lotta che ci aspetta è una lotta dura, in cui è necessario far maturare la consapevolezza che ogni margine storico del riformismo è oggi esaurito, che i lavoratori non possono aspettarsi nulla dai governi che accettano l’orizzonte dell’Unione Europea e le misure, funzionali al capitale, imposte da essa. Questa lotta è tanto più difficile tra i giovani, sebbene essi siano i primi ad essere colpiti dalla crisi. Il peggioramento della condizione economica non porta automaticamente ad una consapevolezza rivoluzionaria, anzi apre scenari difficili che solo il lavoro politico può comporre ed organizzare. Anche rivolgendoci ai giovani noi ricordiamo sempre che è necessario rifiutare con forza ogni forma di divisione tra i lavoratori anche su base generazionale. La tendenza del capitale è quella di porre i lavoratori l’un contro l’altro, dividendoli per generazioni sulla base di precarietà o lavoro a tempo indeterminato, sulla base della nazionalità dividendo lavoratori ed immigrati, fomentando forme di conflitto sociale, con l’obiettivo di dividere e frammentare la classe, di creare lotte al suo interno, che sono funzionali a deviare dalla lotta contro il capitale. Al contrario la grande sfida è oggi unire i lavoratori, far comprendere che nessun avanzamento individuale o di categoria è possibile senza porsi su un terreno di lotta comune.
In questo bisogna condurre una necessaria battaglia contra l’arretratezza e la connivenza dei sindacati filo-padronali, che svolgono il ruolo di vero anestetico sociale in questo momento di lotta. Rifiutare con forza la tendenza all’assistenzialismo, l’idea del reddito di cittadinanza come misura per combattere la disoccupazione, che andrebbe a pesare sulla fiscalità generale e dunque sulle tasse sul lavoro. Non è la collettività che deve pagare la disoccupazione. Tutti possono e devono lavorare, riducendo l’orario di lavoro, aumentando i salari, rifiutando il ricatto padronale. Per far questo è necessario porre con forza la parola d’ordine del controllo dei lavoratori sui mezzi di produzione, unica vera misura in grado, in definitiva, di combattere la disoccupazione giovanile. Lavorare meno, lavorare tutti, mettere fine allo sfruttamento del lavoro salariato. Questa politica non può essere introdotta con alcuna riforma, ma può essere solo il frutto della lotta rivoluzionaria.
Tutto questo deve essere legato alla battaglia contro l’Unione Europea e le sue misure, perché nessuna conquista è possibile rimanendo ingabbiati nell’Unione Europea, che è un’organizzazione imperialista, il cui diritto e le cui istituzioni sono legati agli interessi del grande capitale e allo schiacciamento dei lavoratori. Nell’Unione Europea i giovani non hanno nulla da guadagnare, nessuna loro lotta sarà efficace in definitiva senza rompere le catene della UE. Un processo da compiere insieme in modo unito tra i lavoratori dei diversi paesi europei, perché solo con la fine dell’Unione Europea, con la costruzione del socialismo sarà possibile costruire relazioni pacifiche, fraterne e improntate alla giustizia sociale tra i popoli.
Deve essere chiaro che nessun futuro favorevole ai lavoratori e ai giovani è possibile sotto il ricatto del debito pubblico. La lotta delle giovani generazioni di lavoratori non può che porsi come parola d’ordine quella del ripudio unilaterale del debito pubblico. I continui tagli alla spesa sociale, i licenziamenti di massa nella pubblica amministrazione e nelle società controllate dallo stato, le privatizzazioni di settori fondamentali del paese, sfruttano la leva del debito pubblico a tutto svantaggio dei lavoratori, aumentando la disoccupazione e diminuendo i servizi sociali, ma creando enormi profitti ai grandi monopoli che trovano nuovi terreni economici da sfruttare. Ogni anno, quelli che i governi capitalistici chiamano “sacrifici”, ossia tagli alla spesa e licenziamenti di massa, servono solo a pagare ai grandi monopoli finanziari una parte degli interessi maturati sul debito, con la conseguenza che più si taglia la spesa, più si licenzia, più si stringe il cappio del debito pubblico intorno ai lavoratori, agli studenti, ai disoccupati. Non c’è una terza via: o si salvano gli interessi del capitale, come oggi fanno i governi europei, o si salvano quelli dei lavoratori. Per questo noi crediamo che non sia possibile nel quadro europeo di oggi, parlare di tappe intermedie. Rivendicazione del controllo dei lavoratori sulla produzione, fine di ogni illusione riformistica, uscita dall’Unione Europea e dall’euro, ripudio del debito pubblico, sono atti impossibili con il mantenimento di questo modello di sistema. La semplice uscita dall’euro e dalla UE non risolverebbe di per sé la condizione dei lavoratori, senza porre il loro controllo sulla produzione e sull’economica, ma si trasformerebbe in un’altra forma di sfruttamento. In definitiva oggi è più che mai chiaro che tutto questo processo deve andare nella direzione della costruzione del socialismo-comunismo, che solo con un vero cambiamento rivoluzionario potrà migliorare la condizione dei lavoratori e della gioventù.
In questo spirito di lotta comune che la gioventù lavoratrice insieme con gli studenti deve condurre per conquistare il proprio avvenire vogliamo lanciare un appuntamento di lotta reale, che speriamo sia condiviso da quante più organizzazioni presenti. Nel mese di aprile a Roma si terrà il vertice dei primi ministri europei proprio sul tema della disoccupazione giovanile. Noi non staremo a guardare. Non aspetteremo che ancora una volta i governi europei decidano sulla nostra pelle le misure del nostro sfruttamento, e scenderemo in piazza a Roma per rivendicare le nostre ragioni. La nostra protesta sarà idealmente la protesta di tutti i giovani lavoratori europei sfruttati, di tutti i giovani disoccupati. Sarebbe un segnale molto importante che in contemporanea anche in altre parti d’Europa, ciascuno secondo le sue possibilità, si creassero iniziative coordinate, manifestazioni di piazza, assemblee per dire no alle politiche dei governi europei sulla disoccupazione giovanile, no allo sfruttamento, alla disoccupazione, alla precarietà come unico futuro possibile della gioventù europea. La nostra protesta unita insieme a tutte le iniziative sarà molto più forte e lancerà un segnale a tutta la gioventù europea. Perché oggi più che mai è necessario riprendere la consapevolezza di una lotta comune, gridare a tutti un vecchio slogan quanto mai attuale « proletari di tutti i paesi unitevi!»
* relazione tenuta dal delegato FGC presente al festival mondiale della gioventù e degli studenti di Quito in apertura dell’incontro: « La disoccupazione giovanile in Europa: le ragioni, le misure prese dai governi capitalistici e la lotta per una via d’uscita in favore dei popoli»