di Emanuele Vecchi
“C’è un piano industriale, Fabbrica Italia, che in 5 anni raddoppia la produzione di veicoli, anche in America”. Così parlava un papà con in braccio il piccolo figlio nello spot Fiat Fabbrica Italia. Il padre continua:“Raddoppiano le possibilità… anche per me”. Dopo un anno dall’annuncio dell’investimento di 20 miliardi, di cui “4 a Fiat Industrial e 16 alla Spa, di cui il 65% per Fiat Group Automobiles, il 15% per i marchi di lusso e il 20 per cento per i motori e le attività della componentistica” grazie al quale Marchionne ottiene carta bianca dai sindacati in modo da adattare il contratto aziendale alle proprie esigenze,cosa rimane di tutto ciò? “Le condizioni di mercato sono cambiate”: l’ad si è inventato tutto,il piano Fabbrica Italia esisteva solo sugli spot proiettati sui monitor.
Nessuna convocazione da parte del Governo, né dall’allora ministro Passera né dalla ministra Fornero che pure l’aveva annunciata. Forse era impegnata nella ricerca di fazzoletti per asciugarsi le lacrime. “Lasciatemi lavorare e giudicatemi per i fatti”, diceva l’italo-canadese. Ecco i risultati: : a Mirafiori si lavora tre giorni al mese, a Cassino per quindici, idem a Melfi. Per i 5321 dipendenti dell’impianto torinese,inoltre, la società ha inoltrato alla Regione Piemonte la richiesta di prolungare per un anno la cassa integrazione straordinaria. Negli ultimi 25 anni lo Stato ha concesso a Fiat aiuti per una cifra di 220 mila miliardi di lire. Questa somma elargita comprende varie voci, dai contributi statali alle rottamazioni sotto il governo Prodi, dalla cassa integrazione per i dipendenti ai prepensionamenti, e ancora dalla mobilità agli stabilimenti costruiti con i soldi pubblici (come quello di Melfi) o, di fatto, regalati dallo Stato (l’Alfa Romeo di Arese).
Se nel 1975 la società di Gianni Agnelli contava 250 mila dipendenti che arrivavano a 350 mila contando l’indotto, oggi la cifra si assesta sui 30 mila lavoratori. A fronte dunque dei finanziamenti ricevuti dallo stato,a cui si aggiungono le “protezioni” del mercato dalla concorrenza straniera o le eccezionali agevolazioni fiscali, la Fiat ha diminuito la sua manodopera di 220 mila unità, guarda caso un numero pari alla cifra ricevuta dalle casse italiane, spostando all’estero gran parte della manodopera, che si aggira complessivamente sui 200.000 addetti considerando Polonia, Brasile, Serbia e gli altri paesi dove il gruppo FIAT è presente con stabilimenti produttivi. Per ogni miliardo riscosso la Fiat ha stracciato un contratto di lavoro. La somma più ingente, pari a 6.059 miliardi di lire,” proviene dai versamenti in conto capitale (grazie alla legge 488 per il Mezzogiorno che in soli quattro anni ,dal 1996 al 2000, ha fatto affluire nelle casse del Gruppo 328 miliardi di lire) e in conto interessi ricevuti a titolo di incentivo per gli investimenti nel Mezzogiorno d’Italia in base al contratto di programma stipulato con il governo nel 1988”.
Come se non bastasse, le società del sud (la Sata di Melfi, in Basilicata, e la Fma di Pratola Serra, in Campania) hanno goduto anche dell’esenzione decennale dalle imposte sul reddito. Ma non finisce qui. Ulteriore regalo al colosso torinese è stato confezionato da Romano Prodi,nel 1997, che ha introdotto le rottamazioni per le auto più vecchie. Poiché all’epoca la Fiat controllava il 40% del mercato nazionale, intascò ben 800 miliardi (la spesa per lo Stato fu di 2.100 miliardi di lire). Solo negli ultimi dieci anni, due terzi delle vetture immesse nel mercato dalla casa torinese sono state interamente finanziate dallo Stato italiano. Così, mentre i sindacati ed il Governo festeggiano la recente scalata al vertice di Chrysler, 174 lavoratori nello stabilimento di Termini Imerese hanno perso il posto. Sono gli operai della Lear e della Clerprem, aziende che ruotavano attorno all’impianto siciliano, specializzate nella produzione di sedili e imbottiture.
A differenza di molte famiglie italiane, l’inizio dell’anno per John Elkann e Marchionne è cominciato piuttosto bene. La Fiat ha acquistato da Veba, fondo sanitario del sindacato americano Uaw, il restante 41,5% della quota di Chrysler divenendone così l’unica proprietaria. Se il vantaggio per gli azionisti e le stock options dell’ad è scontato, dal punto di vista industriale questa operazione presenta molti rischi per i lavoratori. Innanzitutto, possedendo il 100% dell’azienda americana la Fiat può accedere interamente alla sua liquidità(stimata in 9,7 miliardi di dollari). In questo modo la somma delle due casse risulta positiva, giacché nel 2013 la Chrysler ha generato un profitto di 753 milioni di euro mentre Fiat da sola brucerebbe cassa per 1 miliardo 730 milioni di euro. Dunque acquistare il restante 41,5% era per Marchionne un obiettivo strategico. A dispetto di questa grande operazione finanziaria,i lavoratori italiani sono ancora in cassa integrazione e ,con l’unione delle due case automobilistiche,la produzione si sposterà sempre di più verso gli States, se non altro per ragioni fiscali. Non è un caso, d’altronde, che il settore macchine agricole è già stato unificato all’americana CNH, che ha sede legale in Olanda. Per accrescere ulteriormente la sua flessibilità finanziaria, e dunque aumentare i profitti, la Fiat investirà sempre di meno in Italia allentando così anche i (pochi) vincoli sindacali e istituzionali rimasti.
Ma il “successo e la magia” di Marchionne, non dimentichiamo, non esisterebbero senza il contributo di 10 miliardi di dollari concessi dall’amministrazione Obama e da quella canadese per il salvataggio di Chrysler. Anche se questa somma è stata via via restituita dall’azienda, senza questa dotazione iniziale difficilmente si sarebbe verificato quest’accordo. Ma un secondo aiuto decisivo è stato apportato dal sindacato Uaw che pur di non perdere l’azienda ha accettato condizioni intollerabili: riduzione della paga oraria (passata dai 75 dollari del 2006 ai 52 del 2011), aumento dell’orario di lavoro, riduzione delle pause, dimezzamento del salario per i nuovi assunti, assenza di scioperi fino al 2015 e fuoriuscita dall’azienda di circa 28 mila lavoratori. Ancora una volta i diritti dei lavoratori vengono calpestati dall’interesse del grande capitale che non conosce nessun limite: dall’Europa all’America, a pagare sono sempre gli stessi.