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Hunger. L’idea che non può morire.

di Giulia Paltrinieri

Irlanda del Nord, 1981, nel bel mezzo dei tumulti per il riconoscimento dell’indipendenza dallo stato britannico. Il Primo Ministro Margaret Thatcher ha abolito lo statuto speciale di prigioniero politico e considera ogni carcerato paramilitare della resistenza irlandese alla stregua di un criminale comune. L’occhio del regista Steve Mc Queen con Hunger entra proprio lì, nei corridoi del carcere di Maze a Long Kesh, dove i detenuti appartenenti all’IRA (Irish Republican Army) danno il via ad una serie di proteste per cercare di riottenere lo status di prigionieri politici che il governo aveva negato, e non essere così soggetti alle comuni e disumane regole carcerarie. Lo Special Category Status veniva garantito a tutte le persone che venivano arrestate per cause legate al movimento separatista. La sua abolizione viene vista dal movimento come una misura per criminalizzarlo e spostare la questione dell’Irlanda del Nord dal piano politico ad una questione di ordine pubblico. I detenuti protestano con i pochi mezzi a loro disposizione e con i soli oggetti che una spoglia cella permette di utilizzare. Si inizia con la blanket protest (“protesta delle coperte”) nel 1976 nella quale i prigionieri si rifiutano categoricamente di indossare la divisa carceraria e restano vestiti della sola coperta. Si passa poi alla dirty protest, nel 1978, la “protesta dello sporco”. Se è questo lo squallore in cui devono vivere, questo deve uscire dalle sbarre delle celle e provare a farsi sentire: spalmano gli escrementi sui muri delle loro stanze, buttano l’urina sotto le porte, si rifiutano di lavarsi e riducono il carcere in condizione igieniche terribili quanto disumano è il trattamento riservato loro dal governo del Regno Unito. Ma questo sembra non bastare. La voce metallica di Margaret Thatcher alla radio, che in Hunger è un triste ritornello a spezzare il silenzio che ovatta le celle, ripete a cadenza regolare «we will not compromise». Non ci sarà alcun compromesso del governo britannico con quelli che sono considerati pazzi e violenti terroristi dell’IRA. Le promesse indefinite fatte da un interlocutore assente cadono nel vuoto. Le uniche risposte sono pestaggi e isolamento. È così che si passa allora alla forma di protesta più estrema, quella che si serve dell’unico mezzo rimasto quando si è soli e nudi nella cella di un carcere in regime di sicurezza, il proprio corpo.

Il primo marzo, Bobby Sands, leader del movimento, decreta l’inizio di uno sciopero totale della fame, che lo condurrà alla morte, insieme ad altri nove compagni, all’età di 27 anni. Lui sarebbe stato il primo e gli altri 76 detenuti si sarebbero uniti allo sciopero ad intervalli regolari, allo scopo di aumentare la pressione sul governo britannico e tenere sempre alta la tensione. «Siamo una nuova generazione di uomini e donne ancora più determinata», afferma Bobby in Hunger prima di cominciare il digiuno, «Questa è una guerra: brutalità, umiliazioni, siamo stati privati dei nostri diritti fondamentali. Potremmo farlo e indossare quella stupida uniforme, oppure fare quello che diciamo di essere e dare la vita per i compagni». La protesta diventa estrema, diventa fisica. La telecamera di Steve Mc Queen esplora le ferite del corpo e la sofferenza della carne. Lo fa già dalla primissima scena del film, dove ad essere inquadrate per prime sono le nocche sanguinanti della guardia carceraria, simbolo del potere che schiaccia con la sua violenza. Poi lo fa esplorando la pelle di Bobby Sands (Michael Fassbender) che giorno dopo diventa ossa e piaghe in nome di un’idea che resiste, sulle spalle di un corpo che sta per crollare. Il rapporto con l’immagine diventa estremamente fisico perché la lotta appunto si fa estrema, diventa da fisica a fisiologica, poiché le armi della contestazione sono prima i rifiuti del corpo, poi il corpo stesso, ultima risorsa e ultima rivendicazione di libertà: quella di poter rivendicare la propria appartenenza, il diritto ultimo e inalienabile di disporre di sé stessi e del proprio corpo, della propria vita e della sua fine.

È inutile violenza contro se stessi, è suicidio? No, è molto di più: è affermazione estrema di un’idea, è lotta quando non si ha alcun altro mezzo per portarla avanti. «Lei lo chiama suicidio, io lo chiamo omicidio e questa è un’altra grande differenza tra noi» dice Bobby (Fassbender) al parroco (Cunningham) in un’interminabile piano sequenza in cui si spezza il silenzio del carcere e si mettono attorno ad un tavolo idea politica e ideologia religiosa, una contro l’altra. «Io credo che un’Irlanda unita sia legittima e giusta. Forse è impossibile capirlo per un uomo come lei ma proprio perché ho rispetto per la mia vita, un desiderio di libertà e un amore incrollabile per quell’idea posso mettere da parte qualunque dubbio. Mettere in gioco la mia vita non è solo l’unica cosa che devo fare è la cosa giusta.»

 La violenza di Sands e dei suoi compagni contro se stessi e contro il proprio stesso corpo diventa espressione di una lotta più ampia, che sta fuori dalle carceri e che va anche oltre la sola rivendicazione della sovranità nazionale irlandese. Va oltre, verso l’idea di un’Irlanda che sia sovrana, ma anche repubblicana, socialista, modello di eguaglianza e giustizia sociale. D’altronde Bobby Sands a diciotto anni era entrato nell’IRA per questo, perché aveva visto a Belfast troppe umili case distrutte, troppi morti e feriti fra la sua stessa gente. È soprattutto dalla consapevolezza dello sfruttamento e dell’umiliazione a cui è sottoposta la sua working class che Sands si avvicina alle idee e alle rivendicazioni del movimento separatista. «Anche se nell’Irlanda del Nord non ci fossero centomila disoccupati, la miseria delle paghe griderebbe vendetta per gli enormi profitti della classe dominante e capitalistica, che prospera con le ferite, il sudore e le fatiche del popolo.» Sands attraverso lo sciopero della fame si fa portavoce non solo di un’idea, ma di un’intera generazione. «Credo di essere soltanto uno dei molti sventurati irlandesi usciti da una generazione insorta per un insopprimibile desiderio di libertà. Sto morendo non soltanto per porre fine alla barbarie dei Blocchi H o per ottenere il giusto riconoscimento di prigioniero politico, ma soprattutto perché ogni nostra perdita, qui, è una perdita per la Repubblica e per tutti gli oppressi che sono profondamente fiero di chiamare la “generazione insorta”».

In prigione Sands diventa uno scrittore di testi e poesie, è giornalista, a suo modo. I suoi articoli scritti su cartine per sigarette o su pezzi di carta igienica vengono fatti uscire dal carcere attraverso i più svariati stratagemmi. Vengono pubblicati dal giornale repubblicano An Phoblacht-Republican News e, sotto pseudonimo, Sands riesce ancora a far sentire la sua voce. Il suo corpo si sta per sbriciolare e ormai fatica anche a pronunciare poche parole ma, nonostante tutto, scrive «Non possono e non potranno mai uccidere il nostro spirito». In Hunger il corpo è mortificato, martoriato, denudato ma l’idea resiste e cresce proprio in questo, nella lotta armata e consapevole su se stessi che è estrema rivendicazione di libertà. Perché come Steve McQueen fa dire al suo Bobby Sands, a conclusione del lungo dialogo con il prete e le repliche serrate della religione, «Io ho la mia idea e nella sua semplicità c’è tutta la sua forza».

 

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