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Senza Tregua per la Resistenza

Da oggi e fino al 25 aprile inizieremo a pubblicare una serie di articoli, memorie, estratti riguardanti la Resistenza: storie di partigiani e partigiane, di patrioti e di resistenti di altri paesi ( in modo particolare sovietici e jugoslavi ), di memorie dimenticate e di altre più conosciute. Saranno contributi che i compagni del Fronte della Gioventù Comunista scriveranno da ogni parte d’Italia, in un filo ideale che lega la resistenza di allora, a quell’indomita ( e rischiosa ) sete di libertà e di rivoluzione, alla gioventù di oggi: a quei giovani che oggi hanno deciso di riprendere in mano quella bandiera e di risollevarla con fatica ma soprattutto con orgoglio. Perché gli esempi positivi la nostra generazione ce li ha e sono stati scolpiti, col sangue e col sudore, ovunque uomini e donne, giovani e anziani abbiano riscattato il nostro Paese dalla barbarie della dittatura fascista e dall’invasione dei loro alleati nazisti. Noi non dimentichiamo e non dimenticheremo mai: la gioventù comunista riprende la sua lotta col lo sguardo sicuro verso un radioso avvenire di pace, libertà, uguaglianza e Rivoluzione!

“Ormai tutti han famiglia hanno figli
che non sanno la storia di ieri
io son solo e passeggio fra i tigli
con te cara che allora non c’eri.
E vorrei che quei nostri pensieri
quelle nostre speranze di allora
rivivessero in quel che tu speri
o ragazza color dell’aurora”
Italo Calvino, Oltre il Ponte

Il primo contributo che vogliamo proporvi è un estratto di “ Senza tregua – La guerra dei GAP” di Giovanni Pesce, il Comandante Visone, indimenticato e glorioso partigiano comunista che tanto ha dato alla liberazione d’Italia dal nazifascismo e il cui esempio rimanga a perennememoria e insegnamento della nostra e delle future generazioni di patrioti e comunisti.

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Alfredo, Arturo Colombi, mi conferma che è stato deciso lo sciopero generale a Torino. I gappisti dovran­no colpire il nemico, proteggere gli scioperanti, dare un esempio di audacia che incoraggi la classe operaia. Per questo compito mi assegneranno una squadra di rinforzo. Saremo sempre pochi. Da tempo sento lo sciopero maturare nei commenti della gente, in tram, al bar, nella tensione crescente. Anche i più timorosi si lamentano apertamente. La protesta si respira nell’aria. Volantini, giornali clandestini, appelli alla lotta circolano sempre più diffusamente, vengono affissi sui muri. L’antica an­goscia della solitudine ormai si disperde. Anch’essi, gli operai, quando ritornano a casa ogni sera sullo stesso tram sembrano soli nella città in mano nemica. Ma quando rientrano in fabbrica e lavorano alle stesse mac­chine diventano un esercito. La fabbrica è la grande forza. Noi dobbiamo aiutare gli operai ad acquistare la coscienza della loro forza.

Espongo il piano ai gappisti, separatamente ad ognuna delle tre squadre. I “rinforzi” hanno il com­pito di bloccare il traffico tranviario a Torino Rivoli. Non hanno mai usato esplosivo. Spiego loro il maneg­gio delle saponette di tritolo, semplici come prodotti confezionati, come usare i detonatori, come accendere una miccia. Basta poco ad imparare. Raggiungo poi la squadra di Bravin, gli “effettivi”; assegno loro l’obiet­tivo: gli scambi tranviari davanti alla rimessa di via Biella; consegno il materiale. Agiremo tutti alle quattro e trenta. Colpire e spa­rire. A Riccardo e alla sua squadra, in prossimità dei grandi stabilimenti il compito di contrastare le brigate nere se tentassero di intervenire contro gli scioperanti. Prima però, Riccardo ed io faremo saltare gli scambi tranviari di fronte alla rimessa di via Tirana.

1 ° marzo 1944: mi sveglio prima del sorgere del sole. In questa stessa ora tutti i gappisti compiono gli stessi gesti, gli stessi preparativi in una stanza fredda e silenziosa. Svegliarsi prima dell’alba richiama alla memoria echi di vita tranquilla. Indosso una tuta da ope­raio, naturalmente usata. Ci confonderemo alle migliaia di lavoratori di cui, del resto, facciamo parte, quale avanguardia in armi. Ognuno ha il suo settore di lotta. Gli operai sabotano, scioperano, manifestano; noi col­piamo tedeschi e fascisti ripagando il nemico con la sua stessa moneta, come ha fatto ieri Di Nanni eliminando un ufficiale repubblichino e ricuperandone le armi.

Alle quattro e venti mi trovo nei pressi della rimessa di via Tirana, non lontana da un panificio che diffonde un odore intenso e fragrante.

I fornai hanno cominciato il lavoro prima di me, penso, assestando sotto il braccio la borsa piena di bom­be. La strada è deserta, un uomo scende dalla bicicletta, sale sul marciapiede, apre una porticina di metallo e la richiude alle sue spalle.

Sono trascorsi dieci minuti dall’ora stabilita e Riccardo non c’è ancora. Cinque tranvieri si dirigono all’ingresso del deposito. Fra poco i tram dovranno uscire dalla rimessa. Se non agisco immediatamente l’azione fallirà. D’altra parte non mi è possibile sostare ancora a lungo davanti alla rimessa con la borsa piena di esplo­sivo.

Preparo due saponette di tritolo; lo scambio d’ac­ciaio levigato brilla alla luce rossa della mia sigaretta quando appoggio il mozzicone al filo della miccia. Il puntino luminoso comincia a muoversi lentamente verso il detonatore. Ho due minuti per collocare la seconda carica su un altro scambio a una decina di metri; tre per allontanarmi prima dell’esplosione. Sento avvicinarsi il passo cadenzato, pesante di una pattuglia tedesca ma già il boato della dinamite e una vampata rossastra risvegliano tutto il quartiere.

Alle otto incontro Bravin in corso Francia. Anche in via Biella tutti gli scambi sono stati minati, tutto l’esplosivo è stato utilizzato.

Poco dopo arriva Franco da Rivoli. La tranvia per Torino è interrotta; i binari sono saltati per un lungo tratto, proprio dove le riparazioni saranno più com­plesse.

Tutto si è svolto troppo facilmente. Mentre assapo­riamo la nostra soddisfazione, proprio davanti a noi, sferragliando, passano i primi tram, seguiti alcuni mi­nuti dopo, da altri in senso opposto.

Alle nove e trenta sono di ritorno alla mia base in via San Bernardino: due stanzette, un armadio, un paio di brande, qualche sedia. Siedo scoraggiato sul letto. Dalla stanza accanto entra Spada. Il tecnico degli esplo­sivi. Sa già tutto. Sua moglie gli ha portato le cattive notizie. “Siamo troppo pochi,” dico.

“No, non diventerai mai un esperto del traffico tranviario, se dimentichi le cassette di alimentazione.”

Occorreva minare le cassette di alimentazione in piazza Sabotino perché l’intera rete si paralizzasse. Ci andiamo, per quanto sembri pazzesco.

Alle 10,15 la piazza è piena di gente. Sei piloni so­stengono le cassette a circa un metro e mezzo da terra. Nessuno fa caso a noi. Accendiamo le sigarette. Io comincio da sinistra, Spada da destra. Tre saponette ciascuno; sistemo la prima sulla prima cassetta e do fuoco alla miccia. Spada, fa altrettanto dalla sua parte. I gesti naturali, i movimenti sicuri ci fanno scambiare per tecnici del lavoro. La seconda e la terza sono si­stemate. Rimangono pochi minuti per eclissarci e far allontanare la gente in sosta. “Fuggite,” urliamo, “scap­pate!” Nessuno se lo fa ripetere due volte. Il fuggi-fuggi è generale. Gli scoppi scuotono l’aria; vedo il primo tram fermarsi bruscamente e i passeggeri abbandonare la vettura. Per l’intera giornata tutta la rete resterà paralizzata. A casa riceviamo notizie di Riccardo. È al sicuro. La polizia ha individuato la sua base, in via Luca della Robbia, una casa danneggiata dai bombardamenti. Durante la notte un gruppo di nazifascisti ha circondato l’edificio cominciando a sparare prima ancora di supe­rare la porta. Riccardo ha avuto la più brusca sveglia della sua vita. Avessero fatto irruzione alla chetichella, avrebbero sorpreso il nostro compagno nel sonno. Gli altri particolari li abbiamo saputi più tardi. Riccardo non ha perso tempo. Ha scaraventato dalla finestra bom­be su bombe. Poi, approfittando della confusione e della sorpresa, ha raggiunto la strada. Pur ferito a un piede, si trascina sino a una porta. Batte. Una sconosciuta lo accoglie e lo nasconde a rischio della propria vita.

Nel pomeriggio giro per la città per rendermi conto della situazione. Lo sciopero si estende al di là di ogni speranza. Davanti alle fabbriche, persino nei cortili delle case popolari si tengono comizi volanti. Circola l’appello del Comitato di Liberazione Piemontese: “gli ope­rai scendendo risolutamente in lotta contro gli oppres­sori e contro gli affamatori del nostro paese, additano nello sciopero generale la via da seguire verso la con­quista del pane e della libertà.”

L’atmosfera è rovente. Si parla liberamente per le strade, si discute. Sui giornali appare il comunicato del prefetto Zerbino: “questa mattina si è verificata una parziale astensione dal lavoro in alcuni stabilimenti della città…” Si minacciano deportazioni e arresti per gli scio­peranti, licenziamenti in tronco e la chiusura delle fab­briche. Il nemico ha accusato il colpo.

Il successo ci dà ragione. Avevamo voluto questo sciopero generale costringendo anche gli esitanti in seno al C.L.N. ad accettare il rischio. Avevamo avuto fidu­cia nelle masse ed esse hanno pienamente risposto alla nostra fiducia. Mi sento leggero come se mi avessero tolto dalle spalle una cappa di piombo. Non è il rischio, è l’isolamento a logorare il gappista. In realtà nulla è più lontano dallo stile, dalla mentalità dei comunisti, delle imprese nichiliste, isolate dal movimento delle masse.

Abituati a discutere, a combattere, a soffrire assieme alla collettività, ci è particolarmente difficile muoverci separatamente. Vi si oppongono tenacemente la nostra mentalità e il nostro carattere. L’esperienza di Torino, lo sciopero generale, rappresentano per tutti qualcosa di importante: un fatto decisivo. Ai gappisti dà final­mente la prova che, se essi colpiscono isolatamente, agendo in piccoli gruppi, esprimono tuttavia le profon­de esigenze di giustizia di grandi masse di uomini.

Gli operai della FIAT Mirafiori hanno condannato i loro aguzzini, i responsabili delle deportazioni; tocca a noi il duro compito di eseguire la sentenza. Dobbiamo muoverci nel ristretto spazio che ci lascia il nemico. Ora, dietro la nostra avanguardia, marcia il grosso dell’” esercito. “

I lavoratori, sfidando le rappresaglie, si oppongono alla tirannia che impera nelle fabbriche. Sotto le finestre di qualche direttore troppo zelante con i repubblichini sono apparse scritte eloquenti: “i gappisti ti salutano.” Al terrore barbaro e indiscriminato degli oppressori si contrappone l’inarrestabile forza della giustizia popolare.

 

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