* di Andrea Merialdo ed Edoardo Genovese
Nel periodo buio del Ventennio, la Casa dello Studente di corso Gastaldi fu teatro di alcuni tra i peggiori orrori che avvennero a Genova e in Liguria.
Costruita tra il 1932 e il 1935, con lo scopo di ospitare gli studenti universitari provenienti da altre regioni, la Casa fu inizialmente gestita dall’Università di Genova. Ma ben presto – nel 1936 – la gestione passò al Partito Nazionale Fascista, che la rinominò Casa del fascista universitario, riprendendo i nomi propagandistici tipici del periodo. La sua funzione di alloggio universitario venne però mantenuta. La struttura era dotata di uffici, di una palestra, di una sala da scherma, di una biblioteca, di una sala mensa, di camere e anche di locali adibiti a sede della Milizia universitaria, comprese le prigioni a piano terra per rinchiudervi gli studenti che non si adeguavano alle disposizioni dittatoriali del regime fascista.
Dopo l’8 settembre 1943 l’edificio – allora in via Giulio Cesare, successivamente rinominata corso Aldo Gastaldi in onore del primo partigiano italiano – divenne la principale sede della Gestapo e, in quel periodo di gestione nazista, nelle sue sale furono perpetrate le peggiori atrocità, tanto che i genovesi lo rinominarono Casa del martirio o Casa della tortura.
Definizione che non si discostava affatto dalla realtà, infatti, la Casa dello Studente era divisa in tre sezioni: spionaggio industriale e commerciale – lotta a comunisti, partigiani, ebrei, clero – spionaggio offensivo. La seconda sezione era ulteriormente divisa in ufficio controspionaggio – reparti antipartigiano, ebrei, comunisti, criminali – spionaggio cittadino – carcere. La comandava Otto Kaess, che si macchiò di quasi tutte le deportazioni verso i lager e fu affiancato da numerosi gerarchi nazisti e repubblichini, come il tenente Reimers che istituì una seconda Casa dello Studente, a Portofino.
Le cantine della Casa di corso Gastaldi, ora murate, erano state adibite a celle, dove partigiani o presunti tali venivano torturati senza pietà. Arrigo Diodati, uno dei tanti prigionieri che passò per quelle anguste cantine, conferma che le celle erano loculi, il soffitto troppo basso per stare in piedi, i propri escrementi accumulati sul pavimento. Il carnefice era Friedrich Wilhelm Konrad Siegfried Engel, meglio conosciuto come il Boia di Genova. Spietato criminale, che mai pagò per i suoi crimini, torturava le persone fisicamente e psicologicamente, lasciando che gli altri prigionieri ascoltassero per ore le urla disperate dei seviziati. Lo stesso Engel, ordinò anche la strage della Benedicta (con la fucilazione di 147 partigiani e altrettanti caduti in combattimento), la strage del Turchino (52 partigiani uccisi), la strage di Portofino (22 partigiani gettati in mare ancora vivi e legati con pesanti massi) e l’Eccidio di Cravasco, dove 20 antifascisti furono barbaramente trucidati dalla follia del Boia.
Tutti gli arrestati passavano inizialmente dalla questura di Genova, dove venivano torturati dalle autorità fasciste, poi venivano portati nella IV sezione del carcere di Marassi (altra sede delle SS naziste) per arrivare, infine, alla Casa dello Studente. Chi resisteva alle torture della questura e del carcere veniva sottoposto al trattamento del Boia.
Tanti partigiani di qualsiasi fede politica, passarono sotto gli “strumenti” del Boia: il primo sindaco genovese del dopoguerra Vannuccio Faralli, membro del Partito Socialista Italiano; Raffaele Pieragostini, che il 24 aprile 1945, giorno in cui Genova si liberò dalle milizie nazi-fasciste, fu trucidato a Pavia mentre tentava di fuggire dalla deportazione in Germania; Mario Roberto Berthoud, che morì a causa delle tremende torture il 25 gennaio del 1945: per oltre un mese lo torturarono, ma non riuscirono a piegarlo. Per vendicarsi del suo comportamento, lo abbandonarono morente senza prestargli alcuna cura. Tanti altri giovani partigiani come Giovanni Bellegrandi, Arrigo Diodati, Nicola Panevino, Giuseppe Maliverni, Giacomo Goso, Cesare Dattilo, Gustavo Capitò e Pietro Boldo passarono per quelle terribili celle e nelle mani del Boia. A questi ultimi toccò la medesima sorte: furono portati a Cravasco e fucilati tutti, eccetto Diodati che venne ferito ma rimase coperto dal corpo di un suo compagno trucidato. Riuscì a nascondersi dapprima su un albero e poi presso una famiglia che gli offrì le prime cure.
Luciano Bolis tentò il suicidio, perchè riteneva di non essere più in grado di sopportare le torture e venne liberato dai partigiani mentre era ricoverato all’ospedale San Martino, a pochi passi della casa della tortura; Piero Caleffi, che in seguito alle torture del Boia venne deportato a Mauthausen; Giuseppe Bottaro, capo del gruppo Giovine Italia, venne in seguito fucilato al Turchino; Edgardo Sogno, uno dei pochi che riuscì a fuggire da quell’inferno di torture e pestaggi; Rina Chiarini, il cui nome di battaglia era Clara, venne torturata a tal punto da essere costretta all’aborto; Gian Carlo Odino, catturato insieme al figlio alla Benedicta, torturato e infine fucilato al Turchino. I nomi sono tanti, troppi per essere ricordati tutti.
Alfredo Poggi, che in seguito divenne membro del Consiglio superiore della Magistratura, raccontò che un ragazzo di quindici anni venne torturato tanto che si dimenticò il suo nome, e passava le giornate a chiamare sua madre.
Gli strumenti adoperati erano vari: macchinari per spaccare le ossa, per lacerare la pelle, per scarnificare le unghie, per somministrare tremende scariche elettriche o il cosiddetto waterboarding, strumento di tortura usato ancora oggi che si può sintetizzare in “annegamento controllato”.
Dopo la guerra il sindaco Vannuccio Faralli, requisì la Casa per creare un centro per gli sfollati di guerra. L’Università richiese di poterne rientrare in possesso e convocò l’autorità degli alleati, iniziando uno scontro con l’amministrazione comunale. La questione divise anche le associazioni degli studenti universitari; l’Associazione Genovese degli Universitari (legata alla Goliardia) appoggiò la richiesta dell’Ateneo, appellandosi al sindaco in nome degli studenti di ogni classe sociale, che si sarebbero trovati senza un alloggio.
Nel settembre 1946 la Casa dello Studente tornò all’Università e l’edificio venne ristrutturato: i sotterranei, che avevano ospitato un rifugio anti-aereo, furono murati insieme alle le celle. Il rettore affermò di essere disponibile a riaprirli solo in caso di una nuova guerra. Affermazioni che rispecchiano il clima politico da “Guerra Fredda” di quegli anni.
Nel 1950 fu nominato direttore amministrativo dell’Università Mario Alburno, un fascista della prima ora, proveniente dall’Università di Bari. Alburno, secondo una ricerca di Mario Missori della Sapienza, si iscrisse ai fasci di combattimento nel 1920, partecipò alla marcia su Roma e, nel 1942, fu cooptato nel consiglio nazionale del PNF. Sotto la sua gestione gli orrori avvenuti nella Casa dello Studente vennero mantenuti sotto silenzio, situazione favorita dalla debolezza delle organizzazioni studentesche legate a PCI e PSI, contrariamente alla rappresentatività delle liste goliardiche, tendenzialmente qualunquiste, e di quelle liberali di destra.
Tutto in coerenza con l’estrazione sociale borghese della maggioranza degli studenti universitari; con la contestazione studentesca del 1968, tuttavia, e la conseguente massiccia ondata di studenti provenienti dal proletariato, le cose cambiarono, a partire dal nuovo direttivo della Casa che avviò una serie di iniziative politiche. Nel 1972, durante un’occupazione, studenti e partigiani picconarono i muri e iniziarono un’opera di restauro delle celle, per renderle un luogo del ricordo. Da quel momento, in collaborazione con ANPI e organizzazioni di ex partigiani, furono organizzate numerose commemorazioni.
Oggi, tanti studenti che arrivano da tutto il mondo mangiano, studiano e dormono nello stesso edificio dove, fino a 69 anni fa, i nazi-fascisti si macchiarono delle più tremende torture e uccisioni. Le caldaie, usate come forni crematori, sono ancora lì, a pochi metri dagli universitari che non conoscono la storia della Casa dello Studente.
Una lapide, nelle immediate vicinanze della porta principale recita: «I martiri qui sofferenti per la Giustizia la ricordano Casa delle torture ove la barbarie fu vile nella ferocia. I Posteri memori delle cure e dei dolori la consacrano Tempio della Patria redenta e libera per il sacrificio dei figli. La città di Genova nel LXXIV anniversario della morte di Giuseppe Mazzini – X marzo MCMXLVI».
Una piccola targa, da molti ignorata, per ricordare un pezzo tragico tra i tanti che hanno scritto le pagine della storia Partigiana di Genova, Città Medaglia d’Oro per la Resistenza.