* di Graziano Gullotta
In occasione della Festa della Liberazione di quest’anno, proponiamo una rilettura delle condizioni e delle cause che portarono la classe operaia piemontese, e torinese in particolare, a diventare la prima linea nella lotta antifascista. Ci affidiamo per questo compito all’opera in quattro volumi “Storia del movimento operaio, del socialismo e delle lotte sociali in Piemonte” edita da De Donato. Un’opera di respiro geografico specifico ma con una densità di dati e di informazioni sulla lotta di classe tale da giustificarne una lettura attenta accanto ai classici della letteratura marxista italiana e internazionale. Il capitolo a cui abbiamo fatto riferimento tratta della “classe operaia piemontese nella guerra di liberazione”, scritto da Claudio Dellavalle, docente dell’Università degli Studi di Torino. Questa rielaborazione non ha l’ambizione di essere un surrogato del testo originale, né di fornire una corretta interpretazione del pensiero dell’autore, ma ha semplicemente l’intenzione di incuriosire il lettore e in particolar modo il militante comunista, invogliandolo ad un approfondimento sul testo.
Nel dopoguerra era generalmente accettata l’interpretazione secondo cui la Resistenza in Piemonte fosse da considerarsi come il momento esemplare di un processo più profondo. Le differenze interpretative nascono quando si passa all’analisi delle forze che parteciparono al processo: se la storiografia “moderata” preferisce parlare di movimento genericamente popolare non egemonizzabile da nessun partito, la storiografia di sinistra e in particolare quella comunista rivendicano il ruolo centrale della classe operaia. E’ innegabile che l’elemento centrale caratteristico della Resistenza italiana consista appunto nell’iniziativa della classe operaia. Per comprendere meglio la dialettica tra la classe operaia, la lotta di classe e il Partito Comunista, è necessario chiarire che nonostante si fosse avviato da tempo, seppur con non poche difficoltà specie durante il periodo di clandestinità, un processo di politicizzazione dei lavoratori nelle fabbriche, si rilevava una diffusa eterogeneità politica ed ideologica tra i lavoratori stessi, importante per capire alcuni errori e passi falsi successivi.
La prevalenza della città capoluogo di regione e la sua vocazione industriale si riflettono nei dati sull’occupazione: la provincia di Torino occupa nel 1939 circa il 50% dei dipendenti dell’industria di tutto il Piemonte assorbendo più del 70% della popolazione regionale. I quasi 200.000 dipendenti occupati nelle industrie conferiscono alla città di Torino una netta connotazione sociale. Torino è la città-fabbrica per eccellenza nel panorama italiano, con la FIAT che nel 1939 occupa 46.000 dipendenti. In questo periodo, la dinamica occupazionale tra i vari settori, ovvero uno sbilanciamento a favore dell’occupazione nel settore metalmeccanico, riflette bene da un lato le tendenze di fondo del sistema produttivo industriale, e dall’altro il senso di marcia innescato dalla scelte, dapprima autarchica e poi bellica, operate dal regime come risposta alla crisi del 1929-34, solo apparentemente interrotta dalla fase di non belligeranza. I contraccolpi derivanti da queste scelte si possono riassumere in tre tendenze rintracciabili nella struttura industriale regionale: il crescente divario tra aree forti e deboli; la crescita rapida dei settori moderni (metalmeccanico e chimico) e il contemporaneo ridimensionamento dei settori tradizionali (tessile); l’affermazione della grande impresa all’interno di ogni settore, ma con caratteri più marcati in quelli moderni, a spese della piccola impresa: ovvero quel paradigma della centralizzazione che attraversa tutto il pensiero dell’imperialismo leniniano.
Il conseguente malcontento che affiora nella piccola e media impresa rappresenta il primo segno di una scollatura strutturale dentro il blocco di alleanze realizzato dal fascismo. Il calo di occupati nell’industria dovuto alla crisi e alla guerra, provoca nelle aree a forte industrializzazione situazioni di crescente disagio e tensione sociale, prolungate nel tempo: nel torinese la congiuntura critica è in parte calmierata dalla media industria, la quale funziona da polmone per il sistema torinese, assorbendo manodopera ed espellendola a seconda dei momenti. Un altro dato importante è la cifra di circa 100.000 operai a Torino con un grado elevato di specializzazione: gli operai specializzati saranno la categoria a cui il regime non potrà fare mai a meno, specialmente in tempi di guerra e di necessità di incremento di produttività. Questi soggetti saranno “spremuti” al punto da farli diventare una parte importante delle rivolte di fabbrica e degli scioperi, fino ad arrivare a quell’unità di classe con i settori meno specializzati ma più colpiti direttamente dal caro vita dei tempi di guerra. La necessità dell’utilizzo della parte qualificata della classe operaia è stata individuata come l’elemento che restituisce oggettivamente una forza contrattuale alla classe operaia: tale aspetto è verificabile nel complesso FIAT dove si arriva ad assumere operai di alta qualificazione pur con un passato di antifascismo militante e di attività nelle file del Partito comunista.
Per concludere questo aspetto, completiamo dicendo che le aziende sono costrette a creare nuovi quadri intermedi, senza particolari imposizioni di tipo politico. Una ulteriore molla della crescente tensione sociale è data dalle implementazioni del salario “corporativo”, che riflette la più totale mancanza di peso contrattuale degli operai. Difatti l’obiettivo principale di questo strumento è il contenimento dei salari al livello più basso possibile, come chiedono gli industriali: questo è un dato politico di grande rilievo, il cui significato di fondo è tenere insieme fascismo e classe industriale. E’ il patto di alleanza continuamente rinnovato che rivela in ogni passaggio del ventennio il segno di classe da cui trae origine il regime.
Nel grande centro urbano di Torino, benchè il regime indirizzi ogni sforzo per mantenere elevate le razioni degli operai a discapito delle parti di popolazione non direttamente produttive, il risultato è di non riuscire ugualmente a soddisfare le esigenze operaie e di accrescere prima un malcontento e poi un distacco sempre più intenso da parte di ampi strati di ceti medi, sia rispetto alla guerra che al regime stesso. L’instabilità interna e la rottura dell’alleanza tra fascismo e piccola e media borghesia si consumano in questo clima di malessere diffuso. Proprio la guerra voluta dal regime aveva reso impossibile mantenere in piedi i rapporti sociali su cui si fondava il fascismo. Su questa situazione già pesante per larga parte della popolazione cittadina, si aggiungeva il dramma dei bombardamenti a tappeto: sono note le reazioni della classe imprenditoriale allo scatenarsi della rappresaglia aerea del novembre 1942, che segnarono il distacco tra regime e interessi industriali. Per quanto riguarda gli operai, il disorientamento creato dall’impatto diretto con la guerra, combinato con la difficoltà nel procurarsi beni di prima necessità, provoca una tendenza all’assenteismo e alla fuga verso la campagna, tendenza che oramai i provvedimenti disciplinari di un sistema in crollo non possono contrastare.
A causa degli immensi disagi nei quali si svolgeva la vita quotidiana della popolazione si era venuta a formare una materiale ricomposizione della classe operaia, come conclude brillantemente l’autore:
“proprio nel punto più alto del sistema produttivo legato alla guerra, nei settori più specializzati, nelle imprese più grandi, nel punto cioè dove convergevano attenzioni del regime, scelte politiche ed economiche di vent’anni, e dove si traduceva fino in fondo la logica di classe su cui il regime aveva costruito il suo modello politico istituzionale e sociale, proprio in quel punto erano venute a maturazione le condizioni perchè le contraddizioni del sistema precipitassero travolgendolo.[..] La materialità della condizione operaia poteva ora trovare un interprete che esplicitasse il disagio diffuso e lo traducesse in iniziativa politica.”
In questa atmosfera, tra forte disagio e voglia di rivalsa, la classe operaia cittadina materialmente unita si riappropriò di quello strumento che era stato inutilizzabile per vent’anni: ebbero inizio gli scioperi del marzo 1943, considerati unanimemente la scintilla che accese la lotta antifascista della Resistenza italiana. Gli scioperi sono stati voluti ed organizzati, per quanto fosse difficile operare in clandestinità sotto il regime fascista e la sua polizia segreta, dal Partito Comunista Italiano che duramente colpito dalla repressione non ha mai smesso però di considerare come fondamentale il partito d’avanguardia, il ruolo delle masse e la centralità della classe operaia. E sa da un lato si distribuivano volantini stampati clandestinamente, si organizzava l’agitazione e lo sciopero dall’altro lato i GAP, come abbiamo pubblicato nel primo articolo dedicato alla Resistenza, difendevano con le armi in pugno gli scioperanti. Scriveva il gappista Giovanni Pesce, Comandante Visone:
“Nel pomeriggio giro per la città per rendermi conto della situazione. Lo sciopero si estende al di là di ogni speranza. Davanti alle fabbriche, persino nei cortili delle case popolari si tengono comizi volanti. Circola l’appello del Comitato di Liberazione Piemontese: “gli operai scendendo risolutamente in lotta contro gli oppressori e contro gli affamatori del nostro paese, additano nello sciopero generale la via da seguire verso la conquista del pane e della libertà.” [..]Il successo ci dà ragione. Avevamo voluto questo sciopero generale costringendo anche gli esitanti in seno al C.L.N. ad accettare il rischio. Avevamo avuto fiducia nelle masse ed esse hanno pienamente risposto alla nostra fiducia”.