* di Tiziano Censi
La sera del 19 marzo durante la trasmissione Le Iene è andato in onda un interessante servizio dal titolo “quando gli operai si comprano la fabbrica”. ( il link di seguito)
http://www.iene.mediaset.it/puntate/2014/03/19/trincia-operai-che-comprano-la-fabbrica_8443.shtml
Il servizio riportava l’esperienza dei lavoratori di tre fabbriche dell’Emilia Romagna, i quali a seguito del fallimento delle aziende nelle quali lavoravano sono stati licenziati in tronco.
Seppur con piccole differenze da situazione a situazione le cose sono proseguite così: gli operai ritrovatisi senza lavoro hanno deciso di associarsi in cooperative di produzione, utilizzando i soldi ricevuti con il TFR e facendosi anticipare l’indennità di mobilità sono riusciti a ricomprarsi i macchinari e, in alcuni casi, gli stabili. Di fatto i lavoratori si sono comprati le fabbriche nelle quali precedentemente erano assunti divenendo allo stesso tempo padroni e dipendenti di se stessi, hanno riattivato la produzione riacquistando il lavoro perduto.
Il nuovo ruolo manageriale ha costretto gli operai a seguire corsi di formazione e ad imparare a gestire autonomamente la propria azienda. Ovviamente all’interno della cooperativa i compiti sono suddivisi ma ciascuno ha necessità di ampliare le proprie competenze anche ai ruoli di gestione dal momento che gli incarichi sono revocabili e i soci totalmente intercambiabili.
Le decisioni importanti, inoltre, vengono prese in un’assemblea dei soci con voto capitario: ognuno ha diritto ad un voto indipendentemente dal valore della propria quota di capitale azionario e dalla posizione ricoperta all’interno dell’azienda. Questo comporta che ciascun lavoratore, a prescindere dal compito cui è adibito, deve possedere una visione d’insieme della produzione. Viene in questo modo eliminata la parcellizzazione del lavoro tipica dell’organizzazione di fabbrica moderna e gli operai riprendono finalmente contatto con l’intero ciclo produttivo riappropriandosi in definitiva del proprio lavoro.
I salari sono stati livellati eliminando le super retribuzioni e distribuendo in maniera più equa i profitti tra tutti i lavoratori, in modo che lo stipendio più alto non possa superare di più di tre volte quello più basso. In definitiva, utilizzando le parole di Marx, “non attraverso argomenti, ma attraverso azioni, esse (le cooperative) hanno provato che la produzione su larga scala e in accordo con le esigenze della scienza moderna può venir esercitata senza l’esistenza di una classe di padroni […]”. “ Le fabbriche cooperative forniscono la prova che il capitalista, in quanto funzionario della produzione, è diventato superfluo […]”.
In un momento di arretratezza complessiva delle parole d’ordine come quello che stiamo vivendo oggi è importantissimo che gli operai riacquisiscano consapevolezza del loro ruolo centrale nella produzione e della totale inutilità della proprietà privata dei mezzi di produzione all’interno di un processo produttivo che il capitalismo ha ormai reso sociale.
Le esperienze cooperative, che dall’inizio della crisi hanno visto una notevole crescita, possono aiutare a ricreare la coscienza che l’autogestione diretta del processo produttivo non solo è possibile ma necessaria all’interno di un percorso che miri ad eliminare lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Dopo anni di arretratezza del movimento operaio che hanno schiacciato le rivendicazioni al livello puramente assistenziale ed economico è arrivato il momento che i lavoratori reclamino il controllo sull’intero processo produttivo, consapevoli della possibilità di far a meno della divisione tra proprietà e lavoro.
E’ del tutto utopistico, però, pensare che il modello cooperativo attuale possa attuarsi come riforma generale dal basso del sistema economico stesso. Sono molti gli ostacoli, infatti, che si frappongono ad una sua attuazione a livello generale e le cooperative di produzione “pure” in cui la totalità dei lavoratori sono soci delle cooperative stesse rimangono un’eccezione all’interno del capitalismo.
Tutto questo, in primo luogo, per una questione di costi. E’ possibile, infatti, convertire solo piccole e medio piccole imprese, in cui il capitale dei lavoratori (TFR, ecc.) sia sufficiente a rilevare la proprietà dell’azienda.
La specializzazione del lavoro nel nostro tempo, inoltre, supera la divisione del lavoro interna alla singola fabbrica e diviene divisione del lavoro articolata a livello di gruppo monopolistico che possiede più impianti produttivi. Nella pratica tutte le fabbriche degli indotti o le fabbriche minori degli stessi gruppi monopolistici producono un prodotto finito che non è commerciabile al di fuori del gruppo monopolistico per il quale viene fabbricato. Quel prodotto non ha mercato se non per la casa madre. E dunque una riconversione della produzione, oltre che dal punto di vista della proprietà deve avvenire in termini di riconversione industriale complessiva e questo richiede un ulteriore impiego di capitale.
E’ possibile superare questi vincoli unicamente con un’azione dall’alto, attraverso l’intervento diretto dello Stato, il che implica tutta un’altra serie di condizioni…
In un più lungo periodo, per giunta, le società cooperative cadono in insanabili contraddizioni per il presupposto stesso di essere immerse in un’economia capitalista di mercato. La storia ci ha fornito numerosi esempi di cooperative partite con scopi sociali e poi evolute nelle peggiori forme di sfruttamento degli stessi lavoratori.
Il fallimento di queste esperienze non può essere ravvisato semplicemente nell’incapacità dei soci di condividere un progetto comune, come paventato nel servizio.
La realtà è più complessa e merita un’analisi che vada più affondo del ruolo soggettivo svolto dai soci e indaghi le basi economiche oggettive che agiscono su un progetto del genere. Per analizzarle qui riporteremo un estratto dal libro “Riforma sociale o rivoluzione?” di Rosa Luxemburg, la quale critica l’impostazione di Bernstein (uno tra i massimi esponenti della Seconda Internazionale e del Partito Socialdemocratico tedesco), che intravedeva nello sviluppo delle cooperative l’inizio di un processo che avrebbe naturalmente condotto tutti i mezzi di produzione nelle mani dei lavoratori. L’economia capitalista in realtà puntava in tutt’altra direzione e la storia l’ha pienamente confermato.
Rosa Luxemburg scrive:
“Per ciò che riguarda le cooperative, e soprattutto le cooperative di produzione, esse rappresentano per la loro stessa natura qualche cosa di ibrido in mezzo all’economia capitalistica: una produzione socializzata in piccolo in un contesto capitalistico di scambio. Ma nell’economia capitalistica lo scambio domina sulla produzione e, tenuto conto della concorrenza fa sì che uno sfruttamento spietato, cioè il predominio assoluto degli interessi del capitale sul processo produttivo, sia condizione di vita dell’impresa.
Praticamente questo si manifesta nella necessità di render il lavoro il più possibile intensivo, abbreviarlo od allungarlo a seconda della condizione del mercato, assumere forza di lavoro oppure licenziarla e metterla sul lastrico, a seconda delle richieste del mercato di smercio, in una parola applicare tutti i ben noti metodi che mettono un’impresa capitalistica in grado di sostenere la concorrenza. Ne deriva nella cooperativa di produzione la necessità contraddittoria per i lavoratori di reggere se stessi con tutto l’assolutismo richiesto, e di rappresentare verso se stessi la funzione dell’imprenditore capitalistico. Per questa contraddizione la cooperativa di produzione va in rovina, trasformandosi in impresa capitalistica, o, se gli interessi dei lavoratori sono predominanti, sciogliendosi. Questi sono i dati di fatto che Bernstein stesso constata, ma interpreta male, quando vede con la signora Potter-Webb nella mancanza di “disciplina”la causa della rovina delle cooperative di produzione in Inghilterra. Ciò che qui viene superficialmente e vagamente chiamata disciplina, non è altro che il naturale regime assoluto del capitale che i lavoratori però non possono in alcun modo esercitare verso se stessi.
[…] A prescindere, dunque, dal loro carattere ibrido, le cooperative di produzione non possono essere considerate come una riforma sociale generale. Già per il fatto che la loro attuazione generale presuppone anzitutto la soppressione del mercato mondiale e la dissoluzione dell’economia mondiale in piccoli gruppi locali di produzione e di scambio, quindi essenzialmente un ritorno dall’economia mercantile del capitalismo sviluppato a quella medievale.”.La cooperativa di produzione, dunque, dimostra attraverso l’esperienza empirica come l’autogestione operaia sia la strada da seguire perché la società si liberi dei propri sfruttatori, inutili sanguisughe del sistema produttivo. Essa può fornire un utile modello affinché si prenda coscienza dell’inutilità della distinzione tra salariati e capitalisti all’interno di una produzione divenuta ormai sociale. L’autogestione operaia, però, non può sopravvivere in un sistema capitalistico di mercato, il quale assoggetta la produzione, cooperativa e non, alle proprie leggi, se non in una forma totalmente limitata nel tempo, in estensione e in efficacia. L’unica via percorribile per riconsegnare il prodotto del lavoro ai lavoratori stessi e alla società tutta è quella che porta all’abbattimento del sistema capitalistico. Esso dovrà essere sostituito dal controllo sociale tanto sulla produzione quanto sulla distribuzione, in modo che gli uomini riprendano il controllo sull’economia e non siano al contrario sottomessi ad essa.
Solo all’interno della società socialista, la quale avrà istaurato il suo dominio sulla produzione, la cooperativa si potrà spogliare del suo carattere di impresa capitalista e diventerà la forma più consona di gestione aziendale. Lo sviluppo della cooperativa nuova, intesa come gestione democratica del processo produttivo, coinciderà di pari passo con lo sviluppo del socialismo. Solo attraverso l’autogestione operaia e il controllo sulla produzione, infatti, si potranno eliminare le incredibili mancanze e gli assurdi sprechi ai quali assistiamo oggi.