* di Edoardo Genovese
Tra il Giugno e il Luglio del 1960 una vasta mobilitazione proletaria e antifascista si sviluppò in varie città italiane contro il “governo forte del Presidente” di Fernando Tambroni (DC) sostenuto dal Movimento Sociale Italiano, diretto erede della RSI. Il malcontento popolare era molto forte, la repressione contro il movimento operaio era sempre più dura, gli ideali di rinnovamento espressi dalla lotta resistenziale erano già traditi, lo Stato borghese e la Repubblica mostravano già tutta la loro continuità di classe con il “ventennio fascista”. La reazione popolare montò in tutto il paese, in particolare a Genova e Reggio Emilia, senza dimenticare le mobilitazioni nel sud, come a Licata, Palermo e Catania. Senza Tregua ricorda queste grandi pagine della lotta del proletariato italiano, con il presente articolo sulle Giornate di Genova a cui ne seguirà un altro sui fatti di Reggio Emilia, per conservarne la memoria e rinnovare gli insegnamenti nella continuità storica della “nostra lotta” a tutti i giovani proletari e comunisti di oggi.
Genova fu insignita della Medaglia d’Oro al Valor Militare, per essersi liberata da sola. L’insurrezione dei partigiani iniziò il 24 aprile e il giorno seguente, dopo una notte intensa tra scontri a fuoco, i tedeschi si arresero alle forze partigiane. Il testo di resa[1] venne redatto in quattro copie, due in italiano e due tradotte in tedesco, e venne firmato dal generale Meinhold alle 19.30 del 25 aprile. Per questa ragione Genova venne insignita della più alta onorificenza per il suo apporto nella guerra di Liberazione. Ma non solo: in occasione dell’attentato a Togliatti la popolazione insorse, tenendo la città sotto scacco per più di 48 ore.
Una città ove il PCI era sempre stato sicuro di ottenere buoni risultati elettorali, nonostante la DC fosse, fino ad allora, partito di maggioranza, tanto da essere chiamata “città rossa”. E proprio per queste ragioni la popolazione genovese non poteva subire l’affronto più grande nei suoi confronti: il 14 maggio 1960 venne deciso, a una riunione del Movimento Sociale Italiano, che il VI Congresso si sarebbe tenuto proprio a Genova. Venne così deciso, nei primi giorni di giugno, di organizzare una “riunione allargata” tra le forze politiche che si dichiaravano antifasciste, per organizzare una protesta che incanalasse il “disprezzo del popolo genovese nei confronti degli eredi del fascismo”[2]. La riunione terminò con la decisione, unanime, di chiedere che il Congresso fosse tenuto in un’altra sede per rispetto della volontà popolare. Nonostante anche l’aggiunta della Camera del Lavoro, che si unì al coro di protesta, il 15 giugno fu indetto un primo sciopero, che culminò negli scontri che si tennero nella zona di Via San Lorenzo. I circa 20 mila manifestanti entrarono a contatto con alcune formazioni neofasciste e gli scontri furono sedati dall’intervento dei Carabinieri. Gli scontri del 15 giugno davano già però l’idea di quanto tesa fosse l’aria che si respirava per gli stretti vicoli genovesi. In quel dedalo di vicoli, piazze delle più svariate dimensioni, mulattiere e vie, la popolazione genovese si preparava a un atto di resistenza a distanza di quindici anni dalla fine della guerra.
I lavoratori, gli studenti e tutta la cittadinanza genovese non ci stavano a sopportare un congresso del Movimento Sociale Italiano nella loro città, medaglia d’ora durante la guerra partigiana. Per il 24 giugno fu indetto un nuovo sciopero, vietato però dalla Questura sfruttando la normativa vigente, ovvero che ogni sciopero o corteo dovesse essere reso noto alle autorità locali con un anticipo di tre giorni. Il giorno seguente, nonostante ciò, le federazioni giovanili di vari partiti, tra cui il PCI, scesero in piazza, supportati dai portuali. Un legame, tra studenti e portuali, che rimase molto saldo negli anni a venire. La giornata del 25 luglio si chiuse con violenti scontri tra manifestanti e forze dell’ordine, ma soprattutto con la decisione di indire un comizio il 2 luglio alla quale avrebbe presenziato Ferruccio Parri.
Il clima di tensione che aleggiava, pesante, a Genova preoccupò non poco i militanti del Movimento Sociale Italiano. Nonostante il loro ferreo diniego, presentarono una mozione all’allora presidente del Consiglio Tambroni, democristiano e sostenuto dai membri del MSI. La tesa situazione genovese, secondo i deputati missini, sarebbe sfociata in una guerriglia urbana. Non avevano torto. La loro provocazione però culminò con l’invito dell’ex prefetto repubblichino Basile che, proprio a Genova, deportò centinaia di lavoratori nei lager tedeschi poiché rei di aver scioperato. Un altro schiaffo alla città e alla popolazione.
Il 30 giugno, dalle ore 14 alle ore 20, la città sarebbe scesa in piazza per protestare nei confronti di questa offensiva decisione. Sandro Pertini affermò che «non fa bisogno che quelle autorità si affannino molto: ve lo dirò io, signori, chi sono i nostri sobillatori: eccoli qui, eccoli accanto alla nostra bandiera: sono i fucilati del Turchino, della Benedicta, dell’Olivetta e di Cravasco, sono i torturati della casa dello Studente[3] che risuona ancora delle urla strazianti delle vittime, delle grida e delle risate sadiche dei torturatori. Nella loro memoria, sospinta dallo spirito dei partigiani e dei patrioti, la folla genovese è scesa nuovamente in piazza per ripetere “no” al fascismo, per democraticamente respingere, come ne ha diritto, la provocazione e l’offesa»[4]. Il corteo, però, a dispetto delle aspettative, si svolse inizialmente con tranquillità. Da Piazza della Nunziata, situata vicino alla stazione ferroviaria di Piazza Principe, il corteo di circa trentamila manifestanti si spostò verso piazza della Vittoria, piazza in cui è eretto l’Arco della Vittoria, costruito in epoca fascista e dedicato ai caduti genovesi della Grande Guerra. Tra canti, slogan, deposizione di fiori nei luoghi di commemorazione dei partigiani, comizi e sfilate dei partigiani, il corteo si spaccò. Una parte di esso risalì Via XX Settembre, dove si trovava il teatro Margherita, loco designato per il congresso missino, e successivamente raggiunse Piazza De Ferrari, piazza centrale di Genova, ora luogo di ritrovo dei giovani genovese. La piazza era presidiata militarmente dalle forze dell’ordine, che rispose ai cori e agli scherni con idranti e cariche selvagge. Le jeep che stazionavano nella piazza iniziarono a circolare con il fine, vigliacco e anche violento, di disperdere i manifestanti che, per contro, si procurarono diversi oggetti contundenti e iniziarono a divellere le pietre dal selciato. Alla legittima difesa dei manifestanti, le forze dell’ordine risposero con lacrimogeni e colpi di arma da fuoco: per fortuna il bilancio fu di un solo ferito lieve. Le camionette vennero prese d’assalto e incendiate, gli scontri continuarono violentemente; il comandante della celere finì addirittura nella fontana della piazza.
Da Piazza De Ferrari iniziano a snodarsi i primi vicoli, in genovese «caruggi», famosi per la loro peculiarità che li rende delle tante piccole strade componenti un immenso labirinto. Gli scontri, per fortuna dei manifestanti, si spostarono proprio nei caruggi, che fornirono la possibilità di attuare una tattica di “guerriglia” attaccando e fuggendo celermente dalle forze dell’ordine, impedendo per altro che questi si organizzassero per attuare delle cariche compatte. Proprio nei vicoli i manifestanti trovarono anche un fedele alleato: memori della guerra, la popolazione che non scese in piazza si trasformò ben presto in una forza aerea e iniziarono a scagliare vari e oggetti contundenti dalle finestre contro le forze di polizia che inseguivano i manifestanti.
Il bilancio della giornata fu di 162 feriti tra gli agenti e di circa 40 tra i manifestanti. Questa giornata di lotta, che è scolpita ancor oggi nella memoria dei genovesi e delle “nuove leve”, riuscì a impedire lo svolgimento del congresso missino, grazie anche alle contemporanee manifestazioni a Roma, Milano, Ferrara, Livorno e Torino.
Nei giorni seguenti altre manifestazioni, di carattere sindacale e antifascista, si tennero in varie parti d’Italia e culminarono con il triste epilogo del massacro di Reggio Emilia, dove 5 operai persero la vita a causa delle forze dell’ordine.
Il 2 luglio venne annullato il comizio prefissato dalla Camera del Lavoro e il giorno seguente si tenne una manifestazione, dove importanti esponenti politici come Pietro Secchia, Umberto Terracini e Luigi Longo espressero la loro solidarietà ai manifestanti arrestati, rei di essersi difesi dalle provocazioni missine e dalla violenza della polizia.
Paolo Conte, con un tono misto tra il romanticismo e l’invidia, cantò «con quella faccia un po’ così, quell’espressione un po’ così, che abbiamo noi, che abbiamo visto Genova». Paolo Conte ne parla da turista, da “straniero”, da “foresto” del Basso Piemonte, che vede Genova e riesce ad ammirarla, invidiarla e quasi odiarla. Ma la Genova che fu vista il 30 giugno del 1960 fu una Genova degna della Resistenza, una Genova che non si tirò indietro alle provocazioni fasciste dei missini, Genova che non si spaventò ad entrare in contatto con polizia e carabinieri per difendere il proprio diritto di gridare, ad alta voce, di essere antifascista.
[1] http://anpigerivarolo.altervista.org/storia.html
[2] Indro Montanelli, L’Italia dei due Giovanni, Rizzoli editore, Milano, 1989, p. 130
[3] Edoardo Genovese e Andrea Merialdo, Casa dello Studente, Casa della Tortura, https://www.senzatregua.it/?p=1012
[4] http://www.centropertini.org/300660.htm