* di Federica Savino e Giulia Paltrinieri
In tempo di guerra (come in tempo di pace) la propaganda mette in moto la sua macchina su tutti i fronti e si attiva per convincerci che quello scontro è “giusto” e “necessario”, “inevitabile” poi se a rischio ci sono le vite di cosiddetti soggetti deboli, come donne e bambini. Troppo spesso le donne sono state e vengono utilizzate dall’opinione pubblica come pretesto per supportare le guerre imperialiste che portano il sigillo di “interventi umanitari” o di liberazione della donna da una condizione di schiavitù: si pensi solo a tutte le campagne propagandistiche in piena guerra contro l’Afghanistan quando i media ci ammorbavano con la questione del burqa come simbolo da distruggere per migliorare la condizione della donna musulmana. Se il burqa può essere comunque considerato un simbolo religioso di svilimento della donna e della sua bellezza, allo stesso tempo però spesso tale argomentazione viene utilizzata per nascondere i veri interessi dei paesi occidentali e le reali motivazioni che avevano portato a muovere guerra contro Paesi africani e del Medio Oriente. Interessi che vanno dai giacimenti di petrolio ( e più in generale allo sfruttamento delle materie prime ) al mantenimento di voluti equilibri nello scacchiere internazionale.
Le guerre imperialiste non possono essere evitate dai Paesi a sistema capitalistico, esse sono il modo più naturale che questi Paesi hanno per sopperire ad una condizione di crisi economica, per detenere il monopolio sulle materie prime e per conformare il mondo a questo sistema politico ed economico.
I Paesi della Nato, con l’avvallo dell’Onu che sostiene con complicità più o meno mascherata azioni militari in nome dell’ “esportazione della democrazia” ( e verrebbe davvero da chiedersi, ma quale Democrazia! ) , fanno anche opera di generalizzazione e trattano l’argomento con assoluta superficialità: non sempre mettere il velo può essere per una donna segno di sottomissione, qualora ad essa sia permesso di scegliere in totale autonomia e consapevolezza. Lo strumento della paura è sempre stato un valido mezzo per poter indurre la popolazione ad appoggiare le guerre, la creazione di un nemico da combattere è fondamentale per sostenere mediaticamente le guerre imperialiste, occultando inevitabilmente i reali interessi economici e di potere che invece sono il vero motivo delle guerre per il sistema capitalistico. Questa è proprio l’opera che si è fatto nei confronti dei simboli religiosi islamici utilizzati dalle donne, non permettendo una conoscenza approfondita di ciò ma bollando qualsiasi “velo” come una forma di oppressione dalla quale le donne devono essere liberate. Come se le categorie ideologiche della nostra cultura occidentale dovessero essere applicate indiscriminatamente ad altri popoli e altre tradizioni. L’ignoranza è il perno del capitalismo e i Paesi imperialisti hanno tutto l’interesse a mantenere la propria popolazione in uno stato di incoscienza e di disinteresse, per meglio poter fomentare l’odio verso altri popoli. Similmente, infatti, la bandiera di liberazione e di emancipazione della donna è stata sventolata quando si parlava di Iran e di Egitto: ma anche di Libia, Siria e Palestina, paesi in cui in realtà le donne potevano godere di una libertà e indipendenza ampiamente più estese che, per esempio, le donne saudite.
Naturalmente l’Arabia Saudita, stretta alleata degli USA e finanziatrice di tutte le frange di estremismo islamico a livello globale, non ha mai ricevuto particolari attenzioni mediatiche ne a nessuno di cotanti difensori delle “libertà civili” importa nulla.
Le donne da sempre sono vittime dei governi , del potere, specialmente se teocratico, e di qualsiasi forma di integralismo religioso. Le guerre imperialiste per di più le rendono vittime non una, non due, ma ben cento volte. Le donne sono bersaglio della efferata violenza delle truppe “di liberazione”: le donne vengono violentate, private dei propri mariti, dei propri figli che la guerra gli porta via nel peggiore dei modi, lasciandole in balia delle decisioni politiche degli invasori che spesso non fanno che lasciare tutto così com’è finanziando e appoggiando nuovi governi che si nascondono dietro il paravento della democrazia e di nuove repubbliche parlamentari. Le macerie, il caos, il sangue che quotidianamente viene versato nell’Iraq “liberato”, in Somalia o nella “nuova” Libia colonizzata lo mostrano chiaramente.
Proprio in questi giorni ad esempio le milizie dello Stato islamico ( che la propaganda occidentale ha trasformato da “combattenti democratici contro il regime di Assad” a feroci “tagliagole” che minacciano l’Occidente, per approfondire leggere qui ) ammettono di fare uso della violenza sulle donne come strumento di guerra e di conquista, donne che possono essere stuprate e vendute al mercato delle schiave, dal momento che rifiutano di accettare una religione che non gli appartiene.
Le donne che vivono in Paesi in stato di guerra vivono, come dicevamo, una vera e propria doppia oppressione: quella dell’invasione straniera e quella della religione. Una religione che spesso impedisce l’emancipazione femminile, avvalorando l’idea dell’inferiorità della donna rispetto all’uomo. D’altro canto però assistiamo ad una contraddizione: lo stesso occidente invasore che scatena guerre in nome della democrazia e della libertà dal fondamentalismo islamico, in altri contesti finanzia organizzazioni come quella dei Fratelli Mussulmani ( per non parlare dei succitati islamisti ), che fanno della religione la loro bandiera. Una religione che continua fomentare nel mondo un’idea della donna arcaica e sottomessa.
L’immagine che ci viene restituita è sempre quella di una donna “passiva”, vittima, “da liberare” ma nella realtà le cose stanno diversamente. In molti casi le donne giocano un ruolo attivo nella lotta di liberazione del proprio popolo. Parlare di lotta al femminile non significa parlare di istanze portate avanti separatamente solo a livello di genere, ma significa parlare di una lotta più ampia portata avanti su tutti livelli: politico e sociale. Un esempio può essere quello del Comitato delle donne palestinesi, un’organizzazione autonoma che vuole integrare il più possibile il ruolo della donna all’interno della lotta palestinese che condivide le stesse idee politiche del Fronte popolare per la liberazione della Palestina ( FPLP ).[1]
L’obiettivo è quello di creare una coscienza tra le donne e dare loro l’opportunità di poter contribuire alla lotta di liberazione del proprio popolo attraverso numerosi progetti. Il Comitato si occupa infatti di sostenere l’accesso allo studio superiore per le ragazze; formare una coscienza politica nelle donne attraverso una vera e propria “scuola politica” per educarle alla partecipazione politica attiva; cerca di creare posti di lavoro attraverso la cooperazione; dà sostegno alle madri e alle mogli dei prigionieri politici; combatte l’analfabetismo nelle periferie delle città tormentate da sessant’anni di occupazione israeliana; questi sono tutti progetti che coinvolgono migliaia di donne tra Gaza e la Cisgiordania che nonostante le difficoltà economiche e il contrasto sul territorio con le ONG queste donne si impegnano fortemente per liberare il proprio popolo.
Questo tipo di organizzazione femminile in un contesto di guerra e di conflitto fa si che la donna partecipi in maniera attiva alla propria emancipazione. E questo può essere fatto solo attraverso una più ampia lotta di liberazione del proprio popolo. Non si può dividere la lotta per l’emancipazione della donne dalla lotta per la liberazione del proprio popolo. In tutti i paesi ciò è valido, anche per i Paesi occidentali dove non esiste un palese stato di guerra ma dove lo sfruttamento della classe lavoratrice, degli strati popolari della società ha raggiunto livelli insopportabili. Le donne devono inquadrare la propria lotta all’interno della lotta contro il capitalismo e organizzarsi politicamente, soltanto così si potranno spezzare quelle catene che le cingono da secoli.
[1] http://gruppoazionepalestina.noblogs.org/post/2013/10/17/la-condizione-della-donna-nella-palestina-occupata-e-il-suo-ruolo-nella-lotta-di-liberazione-intervista-ad-abla-sadat/