* di Paolo Spena, responsabile nazionale Scuola e Università del FGC
L’episodio avvenuto a Parma è l’emblema di ciò che è diventata la scuola pubblica nel nostro paese. Uno studente di 17 anni iscritto all’Istituto Professionale “Primo Levi” è stato escluso dalle lezioni e costretto a restare per cinque ore fuori dalla classe, semplicemente perché la famiglia non poteva permettersi di pagare il contributo scolastico avendo già fatto sacrifici per l’acquisto dei libri di testo. Questo episodio non è purtroppo l’unico del suo genere, e anzi si somma a quelli di decine di scuole in cui gli studenti che non pagano il contributo, ormai volontario solo di nome, ricevono minacce e intimidazioni di ogni tipo. Una generazione di Dirigenti Scolastici che adotta metodi sempre più autoritari, a cui il Governo strizza l’occhio: la “Buona Scuola” di Renzi prevede, fra le altre cose, una grande estensione dei loro poteri e discrezionalità.
Tuttavia accusare unicamente i Dirigenti Scolastici, come spesso si fa nei servizi televisivi in cui si denunciano episodi di questo tipo, significherebbe dare una risposta semplicistica senza affrontare fino in fondo la questione. Secondo l’OCSE i contributi chiesti alle famiglie dalle scuole italiane sono aumentati da una media di 40-50 euro alla fine degli anni 90’, a quella di 150 euro del 2014. Da un contributo volontario che inizialmente serviva a finanziare attività aggiuntive ed extracurricolari si è passati a una tassa vera e propria che oggi serve a sopperire ai tagli che hanno ridotto le scuole in ginocchio, motivo per cui sono costrette a richiedere con sempre più insistenza il pagamento di questo contributo. Questo passaggio non è stato casuale, al contrario “autorizzare” le scuole a chiedere i contributi serviva a scaricare di fatto sulle famiglie l’onere del finanziamento della scuola pubblica, e infatti l’entità dei contributi è cresciuta di pari passo con i tagli. La responsabilità ultima di quanto avvenuto a Parma e delle decine di episodi analoghi è tutta del Governo, che lungi dal voler invertire la rotta rispetto ai suoi predecessori in 136 pagine (tale è la lunghezza del documento sulla riforma della scuola) non nomina mai il contributo scolastico, fingendo di non conoscere la situazione in cui versa la scuola italiana in termini di garanzia del diritto allo studio.
Chi oggi ostinatamente si limita a chiedere che il versamento del contributo resti volontario, covando l’illusione di poter risolvere la questione attraverso battaglie di mero stampo vertenziale, o inseguendo magari il miraggio della partecipazione di famiglie e studenti alla gestione di quei fondi, in definitiva prende una posizione comoda che scagiona il Governo dalle sue responsabilità. Al contrario è sempre più evidente la necessità di condurre una battaglia politica contro ciò che il contributo scolastico rappresenta, cioè l’idea stessa che l’istruzione debba essere pagata come un qualsiasi altro servizio e che a farlo debbano essere i “clienti”, mentre lo Stato si occupa sempre meno del finanziamento dell’istruzione pubblica. Lanciare la parola d’ordine del boicottaggio di massa dei contributi scolastici significa rilanciare l’offensiva dopo anni di lotte “resistenziali” in cui ogni volta si arretrava di un passo, vuol dire inchiodare il governo alle sue responsabilità senza farsi ingannare dal ricatto per cui “se non si paga il contributo saranno le scuole a pagarne il prezzo”. In questa frase potrebbe esserci un fondo di verità per quanto riguarda le conseguenze immediate, ma è ora di comprendere che continuando a pagare il contributo come se nulla stesse accadendo, a pagarne il prezzo più alto sarà il diritto allo studio.