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La prima alla Scala, ovvero una metafora della nostra società.

di Michele Romano.

La prima del Teatro alla Scala è il momento in cui va in scena il divario sociale presente nel nostro paese. Una rappresentazione plastica della divisione di classe, che sembra uscire dalle scene di un film. Uomini della finanza nazionale ed internazionale, imprenditori, politici con le loro donne imbellettate che fanno sfoggio di gioielli vistosi e abiti che costano quanto lo stipendio annuale di un precario.  Uomini e donne dello spettacolo, giornalisti di punta delle redazioni, tutti in smoking e scarpe lucide, mentre fuori il mondo reale protesta e alza la voce. Le immagini di ieri sembravano uscite dalla trasposizione cinematografica del Dottor Zivago, quando si mette in mostra il contrasto tra l’alta società chiusa nei salotti e le proteste di massa nelle strade nella società russa pre-rivoluzionaria. L’atmosfera di una Milano invernale illuminata a festa per l’occasione è la scenografia perfetta: il centro del potere economico nazionale con il suo sfarzo, contro la gente che reclama il diritto alla casa. Il Presidente della Repubblica e quello del Consiglio disertano entrambi la prima, cosa mai accaduta negli ultimi cinquant’anni, lasciando a Grasso e Franceschini la rappresentanza dello Stato e del Governo per l’occasione. La previsioni sulle contestazioni pesano evidentemente nella scelta. Gli scontri provocano i commenti delle istituzioni tutte unite, dal Sindaco (che dovrebbe rappresentare la sinistra) al Presidente della Regione (la destra) al Ministro (il centro). «Una brutta pubblicità per Milano, in vista dell’Expo», «cose che non si devono fare», «un modo per rovinare una serata bellissima». Queste più o meno il tenore delle dichiarazioni unanimi, che ovviamente già pensano a coprire il flop annunciato dell’Expo, per il quale le spese sono lievitate e l’unica cosa che manca sono i visitatori e le prenotazioni.

Eppure anche noi comuni mortali che abbiamo guardato la prima in televisione non potendo permetterci i 2.400 euro di biglietto per un posto in platea, non abbiamo potuto fare a meno di notare una certa convergenza tra quanto accadeva fuori e quello che è stato rappresentato in scena. Una sorta di accerchiamento generale, nelle diverse forme del messaggio che può veicolare la protesta di piazza ed un’opera artistica, ed in particolare il suo allestimento, che è stato un vero e proprio pugno nello stomaco per buona parte dei presenti. Ben consapevoli di non voler sollevare il vespaio sulla questione, gli applausi di facciata e commenti generali e un po’ ipocriti hanno coperto il tutto con un generico apprezzamento artistico, più al livello musicale che alla sceneggiatura, ad un inno tanto distaccato, quanto freddo all’arte e al teatro. Eppure cercando un po’ qualche sintomo del malessere si trova. Come su Panorama che scrive: «L’apparizione di Marzelline e Jaquino svela da subito quanto sia stata netta la scelta, discutibile, di puntare su un allestimento fortemente contemporaneo…» e ancora «Il Fidelio che apre la stagione della Scala è una straordinaria storia d’amore, un inno alla giustizia e alla libertà, che però non è minimamente ambientato nel suo tempo, ovvero nel Diciasettesimo secolo

Doppio orrore! Il primo è l’attentato al conservatorismo che pervade questo Paese in ogni sua espressione, ma forse non è l’elemento principale. Il secondo è che la regia, evidentemente non sola nella scelta, ha pensato ad una trasposizione dell’opera di Beethoven nei giorni nostri, facendo involontariamente (?) apparire così simile quanto accadeva dentro il teatro a quanto accade fuori nei nostri  L’allestimento e la regia liberano l’ideale di libertà e giustizia dalla prigionia del suo tempo, fanno cadere il velo che lo separerebbe da noi con costumi ridondanti e scenografie arcaiche e lo rendono universale, tanto più adatto ai nostri giorni. Un peccato mortale quindi, che però non è il caso di evidenziare troppo. Meglio sorridere e applaudire per mettere da subito a tacere possibili commenti .

La scelta della regista Deborah Warner e dell’insieme di costumisti e scenografi che hanno lavorato con lei è stata quanto mai audace, bella, perfetta non solo per ridare all’opera quello slancio e quella forza ideale che animavano la composizione all’epoca, ma anche per portare il suo messaggio alla realtà di oggi, facendo vivere realmente l’inno alla libertà e alla giustizia di Beethoven. Quella forza di liberazione espressa dalla borghesia dell’800, oggi trasformatasi nella sua faccia oppressiva e reazionaria, che avrebbe voluto la celebrazione di un’opera ristretta nelle angustie del suo tempo, e che ha ricevuto al contrario sbattuta in faccia la prova del suo ruolo oppressivo.

La storia del Fidelio è quella di Florestano un uomo recluso ingiustamente per un abuso di potere, che viene liberato grazie alla ricerca della moglie Leonora,  che si traveste da uomo (Fidelio) e va a lavorare nella prigione dove è rinchiuso il marito entrando nelle grazie del carceriere e della sua famiglia, fino all’arrivo del ministro che scarcera tutti i detenuti e anche Florestano, lasciando a lei l’onore di liberarlo dalle catene. Un tema che pone anche la riflessione sulla condizione carceraria oggi in Italia, come ulteriore considerazione rispetto al tema principale legato all’ingiustizia nel suo complesso. La scelta della regista è di ambientare il tutto in uno scenario contemporaneo di una periferia post industriale, come ce ne sono molte nel nostro paese. La prigione allora diventa inevitabilmente il ghetto proletario e sottoproletario, tanto simile alle nostre periferie anche nella composizione sociale. Un posto buio dove la luce che entrerà diventa rappresentazione materiale della venuta liberazione. Una scelta ancora più attuale se si pensa al dibattito di queste settimane sulla condizione delle periferie che di certo la regista non poteva immaginare.

Non sarà sfuggita la scelta di far accompagnare la figura del ministro, – liberatore nell’opera di Beethoven –  non da un seguito di militari ma di lavoratori, operai per la precisione, con tanto di caschetto e sciarpe rosse che diventano un po’pasolinianamente stracci da sventolare, simbolo universale della liberazione e della giustizia. La massa di detenuti e liberatori che si unisce nel coro finale lanciando in aria e sventolando gli stracci rossi, dopo aver ucciso l’oppressore, in un inno di libertà e giustizia. Involontariamente la scena dell’opera e la piazza fuori si assomigliano così tanto da rendere surreale la giornata e tutte le contraddizioni vengono alla luce. Le stesse armi della critica e della libertà borghese, trasferite nei secoli ai giorni nostri, diventano spunto per una nuova coscienza, e l’ideale di giustizia e libertà si rivolge ora contro chi a sua volte detiene il potere ed è fonte quotidiana di abusi e ingiustizie.

Dietro i finti sorrisi di facciata e gli applausi al valore musicale dell’opera sappiamo che il messaggio, lanciato con piena coscienza o meno, è arrivato forte e chiaro. A rendere il tutto ancora più paradossale quanto le immagini di fuori, quelle delle contestazioni, fossero simili a quelle sulla scena. Che peccato, magari una minima riflessione avrà rovinato la serata a qualche signore…

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