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Disoccupazione o precarietà: l’alternativa per una generazione.

Pochi giorni fa l’ISTAT ha pubblicato i nuovi dati sulla disoccupazione italiana, compresa quella giovanile. Dati interessanti perché per la prima volta da molto tempo la disoccupazione è calata. Nell’ottobre del 2009 il tasso di disoccupazione aveva toccato il 13,2% con quella giovanile al 44%, i dati più alti dal 1977. I dati di dicembre hanno segnato una inversione di tendenza con un calo della disoccupazione dello 0,3% in generale e portando al 42% quella giovanile. Il governo ha subito parlato di dati incoraggianti per la ripresa e di inizio della risalita della nostra economica, su cui anche la Confindustria ha espresso le sue aspettative positive. Secondo il governo inoltre l’aumento dell’occupazione sarebbe merito delle riforme, prima fra tutto il Jobs Act che iniziano a dare i risultati sperati. L’aumento in effetti, stando ai dati, si è registrato, ma nessun giornale si è spinto oltre nell’analisi dei dati per capire su quali basi si può registrare questo aumento. In effetti l’ISTAT non fornisce un dato essenziale per comprendere la natura di questo aumento, la relazione con le tipologie contrattuali interessate.

Un indizio è nella nota metodologica però. Il dato riguarda tutti i lavoratori che nella settimana di riferimento statistico abbiano svolto «almeno un’ora di lavoro in una qualsiasi attività che preveda un corrispettivo monetario o in natura» o addirittura «almeno un’ora di lavoro non retribuito nella ditta di un familiare nella quale collaborano abitualmente». In assenza di una chiara ripartizione del peso delle ore di lavoro complessive e delle tipologie contrattuali che hanno segnato l’aumento è dunque difficile analizzare compiutamente questo dato per l’immediato. Quindi ogni pretesa di trasformare i dati dell’ISTAT nel segnale della ripresa è abbastanza vano. In più nei prossimi mesi i sindacati hanno già lanciato l’allarme sulle conseguenze di alcune norme del Jobs Act. Importante è la situazione che riguarda la cassa integrazione straordinaria che il governo ha sensibilmente limitato con il Jobs Act. Ad esempio la cassa integrazione per cessata attività non sarà erogata per tutte le richieste giunte dopo il 1 gennaio 2015. Molti dei lavoratori che oggi ne usufruiscono potrebbero essere precipitati nella disoccupazione nei prossimi mesi. Si tratta in larga parte di lavoratori a tempo indeterminato che oggi usufruiscono di una serie di tutele che il governo ha cancellato o si appresta a cancellare.

Dobbiamo con tutta probabilità abituarci ad una serie di tendenze contrastanti relativamente ai dati sull’occupazione, che danno idea della strategia più dinamica della fase economica che si apre, in cui, lungi dal superare la crisi generale, il grande capitale mette in moto alcuni processi di riorganizzazione e cerca soluzioni temporanee per tenere stabili i profitti.

La strategia del capitale oggi è articolata ma ruota intorno ad un elemento essenziale: ridurre il costo del lavoro e con esso tutte le tutele accessorie di cui i lavoratori italiani hanno goduto negli anni precedenti. Si tratta di diritti che vanno dalla maternità alle ferie, passando per il pagamento delle ore di malattia, per turni orari che non superino un tot di ore settimanali e globali. Tutto questo si ripercuote direttamente e indirettamente sul costo del lavoro e dunque sul costo finale delle merci. In un’economia che si proietta sempre di più sull’export, data la saturazione del mercato interno e la sua costante crisi (siamo ormai da tempo in deflazione e questo ha un preciso significato) la competitività delle imprese italiane è condizionata proprio dal fattore del costo finale della merce, e dunque del costo della forza lavoro. Questo ragionamento deve spingere ad andare oltre al semplice dato della disoccupazione e analizzare in senso più generale ciò che accade nel mondo del lavoro. E’ qui allora che si comprenderà che una possibile e parziale ripresa dell’economia italiana – e di gran parte delle economia della zona euro – si otterrà grazie a questo repentino abbassamento del costo del lavoro, quindi sulla pelle dei lavoratori e delle nuove generazioni di lavoratori che inizieranno a lavorare con i nuovi sistemi normativi in vigore.

L’orientamento verso il mercato estero, e verso la domanda estera in generale (pensiamo anche all’enfasi che si ha per il settore turistico) rappresenta un tentativo del capitale di sfuggire alla crisi, che tuttavia non da grandi sbocchi e prospettive a lungo termine. Per essere competitivi all’estero con una moneta forte bisogna svalutare i salari e dunque deprimere ancora di più il mercato interno (se si paga poco il salario, i lavoratori hanno poco da spendere). Si peggiorano così le condizioni di vita generali per raggiungere un mercato estero che in questa fase di prospettive a dire il vero –  salvo alcuni settori di eccellenza, per loro natura limitati –  non ne garantisce molti, ed è esposto alle turbolenze della situazione internazionale e del contrasto tra interessi delle varie economie e dei blocchi imperialistici. Le sanzioni alla Russia, e le loro ripercussioni proprio sui settori delle esportazioni ne sono una prova. Tutto questo chiaramente aumenta i processi di centralizzazione, perché alti livelli di competitività internazionale possono essere raggiunti solo da grandi concentrazioni di carattere monopolistico, che aumentino la produttività e diminuiscano il costo delle merci finali. E ovviamente va a scapito dei lavoratori.

Per milioni di giovani lavoratori si pone quotidianamente un’alternativa che diventa oggi sistemica: disoccupazione oppure lavoro precario, senza diritti e con salari più bassi (e sempre più bassi). Il modello tedesco d’altronde non è altro che questo: estrema precarizzazione e abbassamento sistemico dei salari e delle ore lavorate per diminuire la disoccupazione, a tutto vantaggio delle grandi imprese monopolistiche. Dunque i dati sull’aumento dell’occupazione vanno letti bene e senza grandi aspettative.

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