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Jobs Act: il lavoro secondo i padroni (parte 1)

Quando in Parlamento era in discussione il testo della legge delega in molti notarono un evidente eccesso di delega che veniva concesso al governo su gran parte delle materie in questione. In sostanza il meccanismo della legge delega e dei conseguenti decreti delegati da parte del governo consentiva all’esecutivo un larghissimo potere discrezionale sul merito della riforma. Si comprendeva allora come, al momento voto sulla delega non ci fosse nulla di buono da aspettarsi per i decreti, respingendo quindi ogni illusione della sinistra del PD e della CGIL  – che qualcuno ricorderà, convocò uno sciopero generale a tempo scaduto, dopo l’approvazione della delega –  che al contrario ritenevano la partita ancora aperta e il contenuto della riforma modificabile. Il governo Renzi è andato dritto alla meta, facendo quella riforma che la Confindustria aspettava da tempo e che neanche i governi di centrodestra erano riusciti a condurre fino in fondo. Inutile dire che il Jobsc Act rientra in un piano generale che punta ad ottenere una ripresa economica sulle spalle dei lavoratori, aumentando la competitività e la produttività delle aziende attraverso la sistematica riduzione dei salari e dei diritti dei lavoratori. Questo schiacciamento verso il basso è lo strumento attraverso il quale il capitale riesce ad ottenere margini temporanei di profitto. Le aziende italiane e le multinazionali che operano sul territorio nazionale riconquistano così in parte la competitività sul mercato internazionale sfruttando di più e pagando di meno i lavoratori. Vediamo alcuni punti dei decreti attuativi nel dettaglio.

Precarietà e contratto a tutele crescenti.

L’elemento centrale del Jobs Act è sicuramente l’istituzione del contratto a tutele crescenti, una forma di contratto a tempo indeterminato che si caratterizza per la sostanziale cancellazione dell’articolo 18 – ad eccezione dei licenziamenti discriminatori – e che di fatto va a sostituire il contratto a tempo indeterminato fino ad oggi in vigore. A partire dal 1 marzo 2015 tutte le nuove assunzioni a tempo indeterminato dovranno avvenire con questa forma contrattuale. C’è da fare subito una prima considerazione. Il governo è stato abilissimo a far passare questa misura come legge che consente l’inserimento dei giovani oggi precari nel sistema del tempo indeterminato e dunque del lavoro stabile. La stessa idea di tutele crescenti con cui il contratto viene denominato è profondamente ingannevole. Essa infatti fa pensare ad un periodo di tempo in cui le tutele siano limitate per poi essere assunte completamente. Non è così. Il contratto a tutele crescenti è il contratto che sostituisce da marzo 2015 i contratti a tempo indeterminato per i nuovi assunti, ossia elimina le tutele precedenti. Il termine “crescenti” si riferisce solo alla determinazione dell’indennizzo per il licenziamento che si basa sulla durata del rapporto di lavoro, come vedremo successivamente. Il secondo mito da sfatare è per l’appunto che questo contratto abbia la funzione di sostituire il lavoro precario. Se così fosse lo avremmo sostenuto con forza, ma come era evidente dalla vaghezza con cui la legge delega lo presentava, il contratto a tutele crescenti non sostituisce le forme contrattuali a tempo determinato, ossia il lavoro precario. Salva l’abolizione dei contratti a progetto, restano infatti: il contratto a tempo determinato, il contratto di somministrazione di lavoro i contratti a chiamata, i contratti di lavoro accessorio (ossia i voucher), l’apprendistato e il part-time. In particolare le prime forme sono a tutti gli effetti contratti precari che continueranno ad esistere. I voucher, che oggi registrano un utilizzo sempre maggiore, non solo vengono confermati ma viene innalzato l’importo massimo a 7.000 euro annui, rendendo evidente la volontà di rendere questa forma contrattuale del tutto simile al sistema dei mini-jobs tedeschi. Per quanto attiene all’abolizione del contratti a progetto, in mancanza di norme seriamente orientate alla tutela del lavoratore, il risultato non sarà l’assunzione con il nuovo contratto, ma il massiccio ricorso alle partite Iva, spesso monomandatarie, che mascherano con lavoro autonomo forme che sono a tutti gli effetti di lavoro subordinato e che però non garantiscono nessuna tutela al lavoratore. Ma su questo il Jobs Act non interviene seriamente, lasciando così i lavoratori – come era accaduto con la riforma Fornero, esposti alle pressioni padronali. In sostanza il contratto a tutele crescenti non elimina la precarietà, ma abbassa le tutele dei lavoratori a tempo indeterminato assunti dal marzo 2015, contribuendo a peggiorare sia la condizione dei precari sia, soprattutto, quella dei lavoratori a tempo indeterminato.

La nuova disciplina dei licenziamenti.

Il centro della misura del governo riguarda la disciplina dell’articolo 18 per i nuovi contratti a tempo indeterminato che oggi sono posti sotto la protezione dello Statuto dei lavoratori. Il Jobs Act si muove in continuità con quanto fatto dal governo Monti in questo senso, riducendo ancora di più l’applicabilità dell’articolo 18. In poche parole dall’entrata in vigore dei decreti cade definitivamente la possibilità di reintegrazione sul posto di lavoro per i licenziamenti illegittimi. Tanto per capire il licenziamento illegittimo è quello che viene effettuato senza rispettare norme di legge e criteri stabiliti dai contratti collettivi. Originariamente lo Statuto dei Lavoratori all’articolo 18 prevedeva in questi casi l’obbligatorietà del reintegro, poi con il governo Monti era data al giudice una facoltà di scelta tra reintegro e risarcimento. Oggi il giudice potrà disporre solo il risarcimento, escludendo così la possibilità per il lavoratore di ottenere la riassunzione. Da questo regime sono esclusi i licenziamenti discriminatori, quelli che riguardano cioè l’orientamento politico, sindacale, religioso, per i quali permane l’obbligo della reintegrazione. Tuttavia sull’ambito dei licenziamenti discriminatori devono essere fatte due considerazioni. La prima riguarda la limitatezza rispetto al quadro generale, per lo più dovuto a licenziamenti di carattere economico. La seconda la facilità di “mascherare” il licenziamento discriminatorio con forme di licenziamento dal carattere semplicemente illegittimo. Da sempre infatti la prova della discriminazione è ritenuta assai difficile, specialmente oggi in un contesto di crisi economica nell’insieme di massicci licenziamenti collettivi, e aprire consentire la legittimità di fatto – salvo indennizzo – del licenziamento illegittimo, vuol dire aprire la porta anche ai licenziamenti discriminatori senza obbligo di reintegro, con tutto ciò che ne consegue in relazione alla tenuta del movimento sindacale  e delle lotte nelle aziende.

Ma la questione principale riguarda per l’appunto i licenziamenti illegittimi, sia di carattere individuale, sia soprattutto quelli di carattere collettivo. Perché la norma infatti equipara il risultato dell’abolizione della reintegrazione sul posto di lavoro in entrambi i casi. In questo modo si configurano veri e propri ricatti per i lavoratori, perché il solo indennizzo economico è molto più vantaggioso per le imprese rispetto alla reintegrazione, anche in ragione del modesto ammontare dell’indennizzo previsto per il risarcimento. Proprio qui sta il carattere crescente delle tutele, che si esaurisce semplicemente nella determinazione dell’ammontare dell’indennizzo sulla base dell’anzianità di lavoro. Il minimo è di quattro mensilità il massimo di 24 mensilità, che scendono per le piccole imprese rispettivamente a 2 e 6 mensilità. E’ evidente allora che l’insieme delle misure rende chiaro con quale facilità e a quale costo basso le imprese godano di libertà di licenziare i lavoratori a proprio piacimento. L’obbligo di reintegrazione sul posto di lavoro infatti costituiva nel mondo del lavoro, prima che arrivassero i contratti precari ed oggi il jobs act per il tempo indeterminato, lo scudo più potente per i lavoratori sui posti di lavoro. Caduta la tutela che proteggeva tutto, i lavoratori sono esposti su ogni fronte, di carattere economico, politico, per questioni relative alla produttività, alle malattie, alla volontà dei padroni.

segue….

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