* di Lorenzo Scala
Nel corso della mattinata del 5 marzo le testate internazionali hanno riportato la notizia del ferimento dell’Ambasciatore degli Stati Uniti a Seoul, Mark Lippert, per opera di un “nazionalista” sudcoreano, Kim Ki Jong. Questo avvenimento ha dato l’occasione di puntare nuovamente i riflettori giornalistici, occidentali e non, sulla Penisola di Corea, peccando come al solito di superficialità e ignoranza circa il delicato tema in questione. Nella maggior parte dei casi si è espresso stupore per la violenza dell’aggressione, e ci si è subito affrettati a definire Kim Ki Jong un “sostenitore del regime del Nord” il quale, al momento dell’attacco, avrebbe urlato “frasi sconnesse, inneggianti alla riunificazione della Corea”. Dovrebbe far riflettere l’implicita equazione che i media hanno qui delineato fra il manifestare, anche con mezzi violenti, per la riunificazione della Corea, e l’essere un pericoloso sovversivo comunista al soldo di Pyongyang.
Ragionamenti come questo possono essere partoriti solo da chi, ancora oggi, possiede una mentalità da Guerra Fredda. D’altra parte, molte delle evidenti quanto taciute limitazioni alla libertà di espressione e associazione nell’attuale Corea del Sud (prima su tutte la Legge di Sicurezza Nazionale, la quale è costata il carcere ad oltre 200.000 persone dagli anni ’40 in poi e che ancora oggi vieta il costituirsi di un vero partito comunista) sono un retaggio delle dittature militari dei vari Syngman Rhee, Park Chung Hee e Cuhn Doo Hwan, le quali si instaurarono col beneplacito di Washington e per decenni insanguinarono il paese con la scusa di dover combattere il comunismo e scongiurare un eventuale mutamento rivoluzionario della società. E’ fondamentale capire che il gesto di Kim Ki Jong, per quanto violento, si inserisce in un contesto nel quale gli Stati Uniti e le oltre 30.000 truppe che questi ultimi tengono stanziate nella parte meridionale della Penisola rappresentano indubbiamente l’ostacolo più grande alla riunificazione della Corea e al raggiungimento di un vero e proprio accordo di pace fra Pyongyang e Seoul. Gli Stati Uniti non si sono mai dimostrati interessati a un trattato che segni la fine del conflitto inter-coreano: lo giudicano “prematuro”, nonostante la guerra fra le due Coree sia scoppiata nel 1950. E’ chiaro il disegno statunitense di mantenere il più possibile le proprie teste di ponte militari nell’Asia Orientale. Questo obiettivo fu in realtà reso noto già nel 1953, quando il Consiglio di Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti affermò di voler fare di Seoul il proprio “alleato militare nell’area e prevenire l’espansione del comunismo nella Penisola fino a quando non sarebbe avvenuta una riunificazione politicamente, ideologicamente ed economicamente favorevole agli interessi degli stessi Stati Uniti”. Affinché questo stato di cose possa perdurare anche nel XXI secolo, è necessario che l’imperialismo statunitense continui costantemente a tenere una politica ostile nei confronti della Corea Popolare. Bisogna che Pyongyang reagisca come suo diritto alle provocazioni e che le proposte di distensione del Partito del Lavoro di Corea risultino agli occhi dell’opinione pubblica mondiale una mera propaganda di un regime dittatoriale e guerrafondaio.
Il disprezzo di Washington per la pace mondiale in generale e nella Penisola di Corea in particolare è stato chiaro fin dal 1954, quando i delegati della Casa Bianca rigettarono ogni proposta di pace fatta dai nordcoreani alla Conferenza di Ginevra, organizzata proprio per trovare una soluzione pacifica alla questione coreana e un accordo fra l’Indocina indipendentista e la Francia colonialista. L’anno successivo, gli Stati Uniti violarono apertamente uno dei punti principali dell’Armistizio di Panmunjom, introducendo armi non convenzionali e di distruzione di massa entro i confini della Penisola. La Corea Popolare invece ha sempre avuto come massima priorità l’instaurarsi di nuove e pacifiche relazioni fra Pyongyang e Seoul che a lungo andare facciano da fondamenta per la riunificazione. In quest’ottica il Ministero degli Esteri della Corea socialista ha prodotto, negli ultimi decenni, varie proposte di distensione. Negli anni ’70 vi fu un enorme impegno per la ripresa dei colloqui con le autorità statunitensi, mentre negli anni ’80 il Presidente Kim Il Sung si spese personalmente affinché anche le autorità della Corea del Sud avessero voce in capitolo sulla questione della pace e della riunificazione, senza l’intermediazione obbligatoria dell’occupante americano. Nel 1980, durante il VI Congresso del Partito, il Comitato Centrale del Partito del Lavoro di Corea elaborò il primo e fino ad oggi unico piano programmatico di riunificazione della Penisola, attraverso la stesura dei Dieci principi per la fondazione di una Repubblica Confederale Democratica di Koryo. Questo progetto, estremamente ambizioso e ancora rivendicato come valido dalle autorità della Corea socialista, avrebbe voluto una smilitarizzazione bilaterale della Penisola con consequenziale evacuazione delle truppe di occupazione nordamericane. Si sarebbe successivamente fondata una repubblica confederale nella quale avrebbero convissuto pacificamente fra loro due sistemi diversi (quello socialista del Nord e quello capitalista del Sud) in unione, cooperazione economica, culturale e sociale, in piena indipendenza dall’imperialismo. I centri di potere sudcoreani non hanno mai pensato ad una riunificazione in questa prospettiva: la premessa per una riunione fra le due Coree è per loro il crollo del sistema socialista del Nord, come testimonia il fatto che nel 2014 l’attuale Presidente della Corea del Sud, Park Gyeun-hye, abbia parlato alla Nazioni Unite di un’eventuale riunificazione della Penisola facendo più di un riferimento alla colonizzazione capitalistica della Repubblica Democratica Tedesca da parte della Germania Federale. Ad ogni modo, nel 1985 la Corea Popolare è successivamente entrata nel Trattato di Non Proliferazione Nucleare e negli anni ’90 ha spinto per la messa in atto dei Colloqui a Quattro, assieme alla Repubblica Popolare Cinese, agli Stati Uniti e alla Corea del Sud. Verso la fine degli anni ’90, la politica estera del Segretario Kim Jong Il, unita alla distensione democratica al Sud promossa da Kim Dae Jung ( a lungo perseguitato dalla CIA e dalla dittatura militare), portarono alla cosiddetta Sunshine Policy. Quest’ultima segnò uno dei momenti più alti nella storia delle relazioni inter-coreane, durante il quale furono raggiunti accordi di scambio commerciale di alto livello e un maggiore contatto fra i due stati venne deciso dalla famosa Dichiarazione del 15 Giugno, la quale faceva esplicito riferimento alla volontà del popolo coreano di essere indipendente dall’imperialismo e di autodeterminarsi.
In risposta a questa volontà di pace, gli Stati Uniti hanno iniziato dal 1998 a condurre delle esercitazioni militari nel Mar Giallo, al confine con la Corea Popolare. Da allora queste esercitazioni si sono tenute ogni anno in primavera: sono dei veri e propri piani di invasione armata della Corea socialista e di rovesciamento del suo sistema politico e sociale. Le esercitazioni più importanti hanno dei nomi in codice demagogici o ridicoli quali “Focus Retina“, “Freedom Bolt“, “Team Spirit“, “RSOI“, “Key Resolve“, “Foal Eagle“, “Ulji Freedom Guardian” , ma che vanno ad indicare simulazioni di guerra gigantesche e estremamente dispendiose. Nel 2013 per queste operazioni militari sono arrivate dagli Stati Uniti in Corea del Sud delle portaerei capaci di trasportare centinaia e centinaia di ordigni nucleari, oltre che dei bombardieri B-2 e B-52, aventi la capacità di sfuggire ai radar in dotazione a Pyongyang. L’ anno scorso il nuovo leader della Corea Popolare, Kim Jong Un, ha perfino proposto che queste larghe manovre militari avessero si luogo (le autorità nordcoreane si erano da sempre opposte anche solo all’idea di queste esercitazioni), ma in acque internazionali e lontano dal confine con la Corea socialista. Le sue proposte sono state bollate dagli Stati Uniti come “propaganda irrealizzabile”. Esercitazioni a parte, gli Stati Uniti hanno portato fine anche al succitato periodo di distensione fra le due Coree: l’amministrazione Bush, come risaputo, ha inserito la Corea Popolare nell’Asse del male e l’ha indicata come possibile obiettivo di un attacco nucleare preventivo. Inoltre ha rinnegato molti accordi commerciali con Pyongyang decisi precedentemente da Clinton: in risposta a quest’atteggiamento bellicoso e dal sapore neocolonialista, il Partito del Lavoro di Corea ha deciso nel 2001 di ritirarsi dal Trattato di Non Proliferazione Nucleare e di annunciare al mondo lo sviluppo di un programma nucleare nordcoreano con scopi militari di sola difesa. E’ quindi da qui che nasce la questione del nucleare nordcoreano: dall’irresponsabilità dell’imperialismo, che non tiene conto di come la Corea Popolare sarebbe ben felice di rinunciare a tali armi di distruzione di massa, a patto ovviamente che l’esercito statunitense lasci la Penisola e rinunci alla distruzione del socialismo nella regione.
Intimidazioni alla Corea Democratica vengono portate avanti dagli Stati Uniti anche da un punto di vista economico, la cui gravosità non è da sottovalutare. Il Rapporto Congressuale al Servizio di Ricerca degli Stati Uniti, del 25 aprile 2011 afferma, riassumendo, come la Corea del Nord mini alla stabilità regionale, non cooperi con gli Stati Uniti stessi nella lotta al terrorismo, sviluppi testate nucleari e non segua le leggi di mercato. In particolare, il non seguire le leggi di mercato equivale qui ad essere uno stato comunista, crimine passabile di sanzioni economiche su importazioni e esportazioni. La Corea Popolare è stata sottoposta a gravi limitazioni nello scambio economico con l’Occidente già dal 1945 e dal 1961, rispettivamente con l‘Atto della Banca Import-Export e Atto dell’Assistenza Estera, due decreti del Congresso degli Stati Uniti che, estesi anche al resto del blocco capitalistico occidentale, per lungo tempo hanno rappresentato il grosso dell’embargo a Pyongyang. Alla Corea Democratica fu applicato anche il Trading with the Enemy Act, una legge federale statunitense del 1917 atta a limitare gli sbocchi commerciali dei paesi giudicati ostili a Washington tramite pressioni internazionali. Nel 2011 l’amministrazione Obama, con gli Ordini Esecutivi 13551 (agosto 2010) e 13570 (aprile 2011) ha limitato il proprio commercio estero coi soli paesi a libero mercato, escludendo quindi la Corea socialista da qualsiasi tipo di trattativa. Inoltre a Pyongyang vengono imposte tariffe doganali salatissime: i nordcoreani dovrebbero pagare somme enormi per esportare i propri prodotti in Occidente. Abbiamo nominato solo la punta dell’iceberg delle sanzioni, e molti di questi provvedimenti sono sponsorizzati da Washington al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che puntualmente approva nuovi pacchetti di misure finanziarie e commerciali contro la Corea Popolare , utilizzando peraltro delle scuse che hanno dell’incredibile. Negli ultimi due anni, sono state approvate sanzioni per la messa in orbita di un satellite atto a scopi pacifici (spacciata dai media internazionali come test di un missile balistico) e per improbabili attacchi hacker nordcoreani ad una multinazionale quale la Sony. Nonostante la Sony abbia poi affermato come probabilmente negli attacchi di pirateria informatica contro i propri server la Corea Popolare non c’entrasse nulla, Obama ha continuato a puntare il dito contro Kim Jong Un, minacciandolo di inserire nuovamente il suo paese nella lista delle nazioni sponsorizzanti il terrorismo internazionale. Quest’embargo non venne accantonato nemmeno negli anni ’90, quando la Corea del Nord venne colpita da una carestia durissima della quale l’Occidente era ben consapevole e che causò migliaia di morti. Le sanzioni vennero anzi inasprite e ancora oggi si ha il coraggio, da parte occidentale, di scrivere che la carestia sia stata colpa dell’economia pianificata nordcoreana.
Alla luce di quanto si è detto non è assurdo pensare come la maggior parte di quanto si legge sulla Corea Popolare non sia che parte integrante di una campagna di demonizzazione, avente il fine di delegittimare le giuste aspirazioni del popolo coreano alla pace e all’indipendenza. Nell’Asia Orientale è presente uno dei fronti antimperialisti più caldi del mondo, lungo il quale ogni giorno si lotta contro il capitalismo e le sue emanazioni. Ad essere protagonista di questa lotta è un piccolo paese, i cui rapporti di produzione nonostante le innumerevoli difficoltà restano socialisti e contro il quale ogni giorno si scatenano nuove aggressioni. E’ importante che si sappiano interpretare le notizie che trapelano su questa realtà così distante dalla nostra, e lo smascheramento delle menzogne e delle mistificazioni circa questa realtà è un vero e proprio dovere internazionalista.