* di Pierpaolo Mosaico
Qualche tempo fa varie testate giornalistiche riportavano la notizia di due giorni di protesta a Roma, da parte di buddisti di fede Shugden, contro il Dalai Lama. Tenzin Gyatso (il Dalai Lama) si era recato nella Capitale come ospite del Summit Mondiale dei premi Nobel per la pace ed è stato accolto da slogan anti-Lama e cartelli con su scritto “False Dalai Lama”, “Dalai Lama stop lyng”. Questa protesta non è stata un caso isolato. Infatti se ne erano ripetute negli Stati Uniti, in Canada, in Olanda, in Germania e in Norvegia. Ad organizzare le contestazioni è l’International Shugden Society, la comunità di buddisti Shugden che accusa il massimo esponente del Governo Tibetano in Esilio di non garantire libertà religiosa nei territori da lui controllati. I manifestanti, perciò, chiedono che venga riconosciuta questa confessione religiosa (praticata, tra l’altro, per molti anni da Tenzin Gyatso e vietata senza apparente motivo) e che si metta fine alla loro discriminazione. Di tutta risposta, il National Tibetan Congress ha organizzato una raccolta firme che li vieta di protestare troppo vicino al Dalai Lama.
Al di là della questione prettamente religiosa che qui ci interessa poco, questa vicenda mette in luce come in realtà il Dalai Lama non sia la figura pacifista, garante e amante della libertà che ci viene propinata dalla propaganda borghese, facendo crollare la sua aria di bontà fuori dal comune anche in Occidente. È interessante notare il silenzio da parte dei media televisivi che quasi sicuramente non ci sarebbe stato se la scena fosse stata inversa, cioè se a protestare sarebbero state le comunità tibetane in esilio contro il “liberticida” Governo di Pechino che “occupa” il Tibet. Non si sarebbe aspettato un attimo per lanciare accuse contro il comunismo. Ma perché due pesi e due misure? Perché, ad esempio, i “free Tibet” in questo caso non si sono espressi a favore della libertà che sbandierano aspramente contro la Cina? La risposta va trovata nella politica imperialista statunitense che vede il governo di Pechino com antagonista ai propri interessi economici nell’area asiatica, oltre che sulla scena mondiale. E nella lotta tra questi due grandi blocchi per la spartizione dei mercati e delle risorse energetiche va contestualizzata la questione tibetana.
Il Tibet divenne parte integrante della Cina nel XVIII secolo, come regione autonoma e con il Gran Lama legittimato direttamente dall’imperatore. Vigeva un sistema feudale teocratico e schiavista, basato sulla servitù della gleba e governato dai monaci (con a capo il Dalai Lama) che detenevano la proprietà di tutte le terre, unica fonte di ricchezza. I servi erano costretti a lavorare la terra, senza essere retribuiti, per tutta la loro vita, oltre ad occuparsi delle varie faccende domestiche dei propri padroni o del monastero. Gli era vietato accedere all’istruzione o a cure mediche e potevano essere venduti, torturati o condannati a morte. In più, ogni aspetto della loro vita veniva tassato: dal matrimonio all’arresto (i debiti non pagati venivano trasmessi da padre in figlio). I bambini erano costretti ad abbandonare la propria famiglia e per iniziare la vita monastica. Un piccolo esercito aveva il compito di arrestare chi tentava di fuggire. La teologia serviva a giustificare l’ordinamento classista e autoritario, affermando un’idea di predestinazione della condizione sociale determinata dalla “virtù” della vita precedente. Nel XIX secolo l’impero britannico invase il Tibet e il Dalai Lama sfruttò questa situazione per dichiarare l’indipendenza della regione dalla Cina. Indipendenza che però non venne considerata nè da partiti cinesi e nè dagli altri paesi del mondo.
Nel 1951 (due anni dopo la Rivoluzione) i comunisti cinesi dichiararono la sovranità sul Tibet e iniziò un profondo cambiamento in senso socialista che si concluse nel 1959, liberando i contadini dalla condizione schiavistica a cui erano sottoposti. Vennero creati un sistema educativo e sanitario universali. La terra venne espropriata agli aristocratici e data ai contadini, così si risolse il problema della disoccupazione e della povertà. Venne costruito un sistema d’irrigazione ed uno elettrico. Si abolì la schiavitù e la tortura. La regione ebbe autonomia in tutti campi, tranne che per la politica militare ed estera. Le riforme comuniste, però, non piacquero ai signori tibetani che vedevano perdere i propri privilegi e il proprio potere, oltre che per il Dipartimento di Stato americano che, comprendendo l’importanza strategica del Tibet contro il comunismo dilagante anche in Asia, ideò e appoggiò un governo in esilio in modo da promuoverne l’indipendenza senza doverla riconoscere e attaccare la Cina sia ideologicamente che militarmente. Così nel 1956 iniziò una rivolta capeggiata dal Dalai Lama contro il governo cinese dove la Cia ebbe un ruolo molto importante. Finanziò la ribellione aristocratica, addestrò mercenari in Colorado da spedire in Tibet, inviò armi. L’Esercito di Liberazione Popolare (esercito del governo cinese rivoluzionario) riuscì a schiacciare questa rivolta, soprattutto grazie al sostegno della popolazione locale che insorse per reprimere i padroni che volevano riprendersi i vecchi privilegi. La battaglia si concluse con circa tremila morti, su una popolazione di quarantamila. Il Dalai Lama fuggì in India, dove ancora oggi vive in esilio, grazie all’aiuto degli Stati Uniti che fecero accettare la sua presenza al presidente Nehru in cambio della formazione di quattrocento ingegneri indiani in materia nucleare. La prima bomba atomica indiana venne chiamata, infatti, “Budda Sorridente”.
Dalla sconfitta dei gruppi tibetani al soldo statunitense parte la campagna mediatica e militare nei confronti della Cina, accusandola di genocidio culturale (mentre in realtà sono stati aperti istituti di tibetologia e si pratica liberamente sia la cultura che la religione tibetana), pretesto utilizzato anche per diffondere paura riguardo ai comunisti. Il Dalai Lama oggi rivendica un “Grande Tibet” pari ad un territorio su cui i lama non hanno mai governato nemmeno in passato, diffonde razzismo contro le altre popolazioni cinesi e non rappresenta che una minima parte della fede buddista (solo il 2%, quella tibetana appunto).
I comunisti devono appoggiare i movimenti indipendentisti di liberazione nazionale, ma solo nel momento in cui questi sono espressione di una lotta che va ad indebolire e ad abbatere l’imperialismo. L’indipendentismo tibetano è di matrice opposta, ad esempio, a quello kurdo, palestinese o basco perché consolida questo sistema economico foriero dello schiavismo dei popoli e non favorisce in nessun modo la lotta emancipatoria del movimento operaio internazionale. È reazionario e rappresenta le istanze di una classe aristocratica usata dagli Stati Uniti per i suoi fini imperialistici che non riesce così a mettere le mani su un territorio economico di cui, specialmente in un momento di crisi strutturale, ha decisamente bisogno.