di Alessandro Mustillo
Alcuni mesi fa, in occasione del campeggio nazionale del Fronte della Gioventù Comunista riflettendo sulle iniziative da programmare per l’anno successivo, abbiamo ricordato che il 2015 avrebbe segnato il 70° anniversario della Liberazione dal nazifascismo. Un evento importante non solo da commemorare, ma per far avanzare nella società, e segnatamente per quel che ci riguarda tra le nuove generazioni, un bilancio di quell’esperienza e una riflessione sull’attualità degli ideali e delle lotte che animarono la guerra di liberazione nazionale. Subito è saltata fuori una riflessione spontanea e cioè che oggi della Resistenza non si parla o si parla male.
Non se ne parla in primo luogo, perché la Resistenza non è studiata a sufficienza nelle scuole. Che ne dicano i fascisti oggi si parla molto di più di foibe, gulag, caduta del muro di Berlino, che non di quello che viene visto in fondo come un episodio scomodo per la storiografia ufficiale di una Repubblica che oggi certifica il tradimento di quei valori e di quegli ideali. Questo perché negli ultimi anni il revisionismo storico, e con esso lo sdoganamento pieno dei fascisti, ha avuto uno scopo prettamente elettorale da un verso puramente immediato di strutturazione del nostro sistema politico, dall’altro la rimozione sistematica del contributo dei comunisti, la condanna di quella storia, fino ai recenti tentativi di equiparazione degli ultimi anni, sono serviti come leva potente per inculcare l’idea dell’impossibilità di pensare ad un’alternativa a questo sistema. Condannando e demonizzando quella che storicamente era stata l’alternativa messa in pratica, il socialismo realizzato prima di tutto nei paesi dell’est.
In secondo luogo perché quando si parla di Resistenza, specialmente negli anniversari e nelle commemorazioni istituzionali, come sta avvenendo nel caso del 70esimo, si da una versione della lotta di liberazione che si accomoda sulle necessità di oggi, che omette di menzionare gli animatori della Resistenza, i loro ideali, la loro volontà non solo di liberare il Paese dal nazifascismo, ma di costruire un’Italia diversa, più giusta, libera solidale.
L’Italia di oggi non è il frutto della Resistenza ma del lungo e progressivo processo di tradimento degli ideali che animarono la lotta di liberazione. Migliaia di giovani allora non lottarono per un’Italia inserita nella Nato e succube agli interessi imperialistici, non lottarono per mantenere le rigide gerarchie nei posti di lavoro, per vedere manager guadagnare migliaia di volte quanto i loro operai; non lottarono per un Paese di disoccupazione, con un futuro di precarietà per i giovani; non morirono per vedere ancora oggi applicate dai tribunali norme fasciste come quelle contenute nel codice Rocco. Spiegare questo è il minimo per far comprendere elementi essenziali della lotta di liberazione, saper quindi rispondere con la conoscenza e la memoria storica al revisionismo fascista e a quello di una certa area democratica della sinistra.
Quando si fa un documentario si sceglie quindi di cosa parlare in relazione a chi ci si rivolge. Noi non abbiamo voluto realizzare un documentario per militanti, non abbiamo voluto fare un’iniziativa di formazione politica. La nostra formazione la facciamo dentro l’organizzazione. Qui abbiamo voluto creare un video che potesse dare ai nostri compagni uno strumento pratico per il lavoro di massa, perché è qui che è necessario intervenire con forza, approfittando anche di questa ricorrenza importante. A scanso di equivoci dico subito che la qualità delle immagini, dell’audio, risente del fatto che a realizzarlo sono stati nostri semplici militanti, giovani, con conoscenze relative e non certo professionali. Non abbiamo fatto ricorso a nessun operatore esterno, e chiaramente il risultato va apprezzato più per il suo contenuto politico, che per la sua forma materiale. Anzi colgo l’occasione per ringraziare quei compagni e sentitamente gli storici Massimo Recchioni e Davide Conti senza i quali questa iniziativa non sarebbe stata possibile.
Ricordo anche che una di queste interviste, quella a Paolo Finardi, è l’ultima rilasciata da questo straordinario partigiano che ha avuto una vita particolare, come molti d’altronde, costretto ad emigrare in Cecoslovacchia per aver ucciso un fascista responsabile dell’assassinio di Eugenio Curiel. Quando ci ha concesso questa intervista era già malato, era venuto a Milano per l’ultima volta e poche settimane dopo la nostra conversazione e l’intervista ci ha lasciati. Questa è quindi la sua ultima testimonianza, insieme ad un breve video con un appello a noi giovani comunisti.
Credevamo non sarebbe stata una impresa facile e tutto sommato abbiamo visto con nostra immensa soddisfazione che di partigiani ce ne sono ancora molti. Non tantissimi, spesso ormai disamorati dalla vita politica italiana, non voluti neanche troppo dalle stesse associazioni che si occupano di memoria storica, perché non in linea con il corso imperante della memoria della Resistenza che oggi si impone.
Erano i ragazzi di allora. La maggior parte di loro aveva tra i 16 e 17 anni. Alcuni mentirono sulla loro età per essere arruolati e poi per essere iscritti al Partito Comunista. Quando entrarono nelle formazioni armate – c’è un pezzo che lo dice chiaramente – erano animati essenzialmente da un desiderio di libertà, più che da ideali più profondi, sempre che la libertà da sola non possa essere considerata tale. La lotta di liberazione è stata per loro un importante momento di formazione, grazie alla presenza dei “più grandi”, confinati, ex prigionieri politici, garibaldini di Spagna, insomma tutti quei quadri e dirigenti politici in maggioranza comunisti, e a seguire socialisti e azionisti che invece avevano ben chiaro il profondo legame tra la lotta per la libertà e quello per la costruzione di un’Italia diversa. Tra di loro ovviamente ci sono storie diverse, giovani staffette, gappisti, partigiani e comandanti di montagna. Uno di loro, Argante Bocchio, è stato vicecomandante della divisione Nedo, delle formazioni Garibaldi, al comando di Gemisto e coinvolto nei processi alla Resistenza degli anni seguenti.
Il primo modo di falsificare la memoria della Resistenza è nel modo di cogliere il nesso tra la partecipazione di massa, animata da un moto spontaneo, e l’organizzazione e la coscienza politica di gruppi inizialmente ristretti. Da una parte si cerca di dipingere la Resistenza come un fenomeno di pochissimi militanti duri e puri slegati dalle masse, dall’altra si scioglie il tutto in un calderone indistinto dove solo l’elemento spontaneo, ideale, generico risolve una lotta di liberazione. Nel documentario abbiamo voluto mettere in luce prima di tutto questo rapporto.
La Resistenza non si compie da sé. Non è una prova spontanea, né un qualcosa che non viene sistematicamente costruito con tutte le sue contraddizioni, errori iniziali, perdite, difficoltà del caso. Se dovessimo rintracciare l’embrione iniziale della Resistenza dobbiamo menzionare il periodo della clandestinità e l’azione dei partiti antifascisti e segnatamente del Partito Comunista. Nel 1929 in particolare ebbe luogo la cosiddetta “svolta”, attraverso la quale il Partito Comunista, prima ancora di alcune direttive dell’internazionale, su spinta del gruppo dei giovani, della Federazione Giovanile, e in particolare di Longo e Secchia, fa rientrare in Italia una parte consistente dei suoi dirigenti e quadri a ricostituire nell’Italia fascista, un tessuto iniziale di organizzazione del partito. Gli altri partiti antifascisti non fanno lo stesso, o lo fanno dopo tempo e con molte difficoltà. Questo processo costerà al partito centinaia di perdite, tra confinati, imprigionati, uccisi ma darà modo di ricostruire una presenza reale nel Paese.
Nella storiografia della Resistenza poi si dimentica quanto questa vicenda sia strettamente intrecciata con il contesto internazionale, con la Guerra di Spagna e il contributo che tanti militanti antifascisti danno alla costituzione delle brigate internazionali. È lì che nascono le Brigate Garibaldi, è lì che tanti dirigenti, su tutti Luigi Longo, Giovanni Pesce, formano le loro esperienze militari. Poi ci sono gli Arditi del Popolo, le formazioni popolari (nel vero e proprio senso di classe) che per prime si oppongono al fascismo. Tanti partigiani vengono da lì, o – cosa che abbiamo scoperto con piacere nelle interviste anche se magari è stato in parte sacrificato nella versione finale – sono figli di Arditi del popolo. E’ questo insieme qui che costituisce l’ossatura iniziale della Resistenza e senza di questo la lotta di liberazione non ci sarebbe stata. Ma allo stesso tempo nessuna guerra, specie se condotta nelle modalità della guerriglia, può essere realizzata senza il consenso della popolazione, senza un radicamento tra le masse, senza che esse guardino con sostegno alle azioni partigiane. La grande capacità dei comunisti, prima di tutti, fu proprio quella di legare alle rivendicazioni immediate, in termini di salari, diritti, il contesto generale della liberazione nazionale. E’ qui che nasce questa duplice caratteristica della lotta di liberazione.
In Italia non si studia il contributo diretto della classe operaia nella sconfitta del fascismo. Quando il governo Mussolini cade nel luglio del ’43, un’ondata di scioperi ha paralizzato per la prima volta il Paese, e in particolare i centri industriali del nord. Gli scioperi del ’43 sono una pagina tanto sconosciuta, quanto ignorata, ma fondamentale per comprendere l’inizio della Resistenza. Siamo ancora in pieno regime fascista, quando la classe operaia, grazie all’azione dei comunisti, alza per la prima volta la testa dopo tanti anni.
Il filmato ricostruisce bene le vicende dell’8 settembre e del governo Badoglio, l’azione a quel punto si fa più ardita e risoluta. Ma non tutte le forze politiche vogliono un’azione delle masse, formazioni partigiane di guerriglieri formate dal popolo. È una vicenda complessa, ma oggi quando si critica il Partito Comunista per essersi appropriato della vicenda storica della guerra di liberazione, si dimentica che i partiti borghesi, DC, liberali e monarchici inorridivano all’idea della lotta armata seppure in un contesto di guerra aperta come quello del 1943. Fecero di tutto per diminuire, bloccare il contributo delle masse popolari alla liberazione.
I risultati si videro a Roma, con Porta San Paolo, dove pochi, male armati, e soprattutto contrastati in partenza dalla contrarietà di una parte dei settori antifascisti borghesi, con eroismo e valore si scontrarono contro un esercito senza alcuna speranza. Ma quella prima Resistenza fu un esempio importante, come lo furono le 4 giornate di Napoli e quegli episodi spesso dimenticati anche nel Sud Italia.
Lo sbandamento dell’esercito, il passaggio alla Resistenza di alcune formazioni e comandanti militari sono episodi ben descritti, poi come dire la storia comincia. Il documentario racconta delle vicende personali dei protagonisti, di questi ragazzi allora molto giovani che nelle città, nelle campagne e sulle montagne formano brigate partigiane e iniziano la loro lotta. Ci sono racconti di episodi interessanti, che trasmettono l’idea di quella che fu la vita di tanti ragazzi che avevano la nostra età e anche meno. Si ricorda il ruolo dei fascisti, a cui oggi vengono frequentemente tributate medaglie, la subordinazione alla Germania, si rompe quell’idea dell’appartenenza alla RSI come patriottismo, dimostrando al contrario la sudditanza ai tedeschi. Ma allo stesso tempo ricordando le responsabilità storiche delle brigate fasciste repubblichine, per le quali spesso non c’è stata alcuna giustizia. Tornerò dopo su questo punto che è essenziale per noi.
Molte purtroppo sono le parti andate tagliate che comunque costituiscono un patrimonio che utilizzeremo nei prossimi mesi. Penso alle belle parti sul Fronte della Gioventù, in cui De Lazzari ne ricostruisce la formazione, la funzione iniziale, il dilemma dei ragazzi chiamati alla leva che decidono di disertare e che passano alle formazioni militari “tradendo” l’intento iniziale del FdG che era stato pensato come mezzo di supporto alla propaganda tra i giovani, perché nell’idea dei gruppi dirigenti antifascisti i giovanissimi non avrebbero dovuto combattere in prima fila direttamente. Sono i fatti che spesso modificano la stessa linea politica e organizzativa.
Un altro pezzo andato perduto è una riflessione sulla stessa parola “Resistenza” che anche noi comunemente usiamo nel linguaggio. Infatti diversi partigiani intervistati hanno fatto notare come tale espressione sia in realtà parziale, e conduca inevitabilmente ad una alterazione del significato di ciò che accadde realmente, alimentando anche quell’idea di parentesi del fascismo con l’Italia liberale borghese, che al contrario concepita come premessa del fascismo si voleva superare. Così – ci hanno detto – l’idea stessa di Resistenza può essere concepita in termini meramente passivi, mentre la Resistenza antifascista fu essenzialmente qualcosa di attivo, in cui le masse a vario livello di parteciparono. L’espressione più adatta è dunque Lotta di Liberazione, lotta proprio a far emergere quest’idea che non fu solo ed esclusivamente guerra e soprattutto non fu attesa, ma azione.
La grande capacità ed il lavoro organizzativo, che in parte riesce ad emergere nel documentario, stava nel far sì che ciascuno partecipasse a questa lotta nei modi migliori e secondo le proprie capacità. Non tutti dovevano e potevano andare a combattere, un esercito non ha bisogno solo di combattenti, ma di rifornimenti, sabotaggi, azioni di propaganda, sostegno. Solo i più arditi entravano a far parte dei GAP nelle città, dopo una lunga selezione, molti invece erano inquadrati nelle SAP in azioni di appoggio. Mai venne meno il lavoro politico e di rivendicazione economica nelle fabbriche, nelle città e in tutta Italia. Fu questo insieme in cui tutto il lavoro comunicava e rispondeva ad un’azione comune a determinare il successo della lotta di liberazione. Nel video emerge una certa differenza tra la guerra in città e in montagna, si spiega l’essenza della guerriglia, si mette anche in luce però come queste due realtà comunicassero. Chi era scoperto in città andava in montagna. Insomma la Resistenza fu un fenomeno organizzato in cui per citare le parole di Bocchio “chi comandava aveva un esercito nelle sue mani, con tutta una sua articolazione”. E allo stesso modo sebbene una minoranza fu più attiva sul piano politico-militare essa godeva del consenso generale della popolazione, che si manifestò in migliaia di modi, spesso con episodi di eroismo da parte di chi garantiva copertura, appoggio, sostegno ai partigiani. Non si può dimenticare ad esempio il ruolo dei sabotaggi nelle fabbriche: sabotaggi della produzione bellica, sabotaggi dei tentativi dei nazisti di spostare in Germania le imprese. Consiglio sempre un bellissimo libro di Giovanni Pesce “Quando cessarono gli spari” che descrive benissimo il grado di penetrazione della lotta partigiana tra le masse, che era allo stesso tempo embrione della nuove società da costruire.
Tutto questo permise al movimento partigiano di liberare da solo le città del Nord Italia con l’insurrezione popolare culminata il 25 aprile a Milano. Altra pagina della nostra storia rimossa o poco indagata, per quella vecchia paura dei settori della classe dirigente borghese verso l’azione diretta delle masse popolari, che fu vero e proprio riscatto per la nazione, ma preludio di un passaggio politico successivo che con tutte le forze esse vollero evitare. Indubbiamente il contributo degli Alleati fu essenziale, senza di loro non si sarebbe vinta la guerra. Mi permetto di ricordare anche qui che però c’è sempre un alleato mancante nelle celebrazioni e nella memoria collettiva, ossia l’URSS che da sola diede il più grande contributo di vite umane e con battaglie come Stalingrado, le rotture degli assedi di Leningrado e Mosca e poi la marcia trionfante verso Berlino, mutò praticamente da sola gli orientamenti della guerra. Il resto fu essenziale, specialmente nel caso italiano, ma avvenne dopo che le sorti della guerra volgevano già in altro senso. E proprio agli alleati vanno addebitate alcune considerazioni, ad esempio il famoso proclama di Alexander con il quale si chiedeva la smobilitazione dell’esercito partigiano. Un vero e proprio tradimento, come un certo attesismo sulle linee che lasciò regolare i conti ai fascisti e ai nazisti, che in quel periodo compirono alcune delle stragi più efferate.
Ma se avessimo limitato al 25 aprile con la Liberazione la storia della Resistenza avremmo seguito l’idea comune errata. La Resistenza allora non era finita e sopratutto per cogliere realmente il senso storico del tradimento era necessario volgere uno sguardo agli anni successivi. All’amnistia e la sua criminale applicazione da parte di giudici ereditati dal fascismo, basti citare il caso di Azzariti, divenuto presidente della Corte Costituzionale dopo aver presieduto il Tribunale della Razza (!!!), all’espulsione dalle forze di polizia dei partigiani, le disillusioni, i problemi, la presenza dei fascisti e di quei padroni che il fascismo l’avevano appoggiato e sostenuto. Ci sono fatti non menzionati nel documentario ma che tutti conoscono, come quelli di Modena, San Severo, Reggio Emilia, Genova che negli anni seguenti dimostreranno il volto reale della DC al potere. E ci sono anche delle considerazioni su quei partigiani che costatato come lo Stato coprisse sistematicamente criminali fascisti cercarono di farsi giustizia da soli; i processi alla Resistenza e ai suoi protagonisti per fatti di guerra che si risolvono spesso in vere e proprie persecuzioni. Tutto questo culmina con l’attentato a Togliatti dove le speranze di “dare la spallata” si infrangono di fronte alla volontà del PCI e del PSI allora di non andare oltre una battaglia nei margini di una democrazia progressiva che piano piano convergerà nella via parlamentare della sconfitta.
I risultati sono una Costituzione mai realmente applicata nel nostro paese e che da punto di partenza si è trasformata nel punto massimo di arrivo. “Una rivoluzione mancata con una rivoluzione promessa” come disse Calamandrei, era stato quanto le classi dominanti avevano lasciato al fronte popolare. In queste ultime parti del filmato c’è la radice delle motivazioni della nostra stessa lotta, della necessità di guardare alla Resistenza oggi più che mai non come qualcosa da commemorare ma come un ideale e una battaglia da proseguire. Interrogandoci sugli errori storici commessi, ricordando che migliaia di giovani allora diedero la loro vita per un’Italia diversa che oggi è tutta ancora da conquistare. Questo l’appello finale che i partigiani di ieri lasciano ai giovani di oggi e che più di tutti è il senso profondo della nostra battaglia contro le ingiustizie e lo sfruttamento che sono le caratteristiche di questo sistema. L’Italia repubblicana non è figlia della Resistenza, ma del suo tradimento. Spetta a noi con la lotta politica continuare quell’opera fino alla vittoria. Come dice un verso della canzone delle brigate Garibaldi «noi sempre lotterem».