*intervento del FGC al convegno “Antifascismo è anticapitalismo”
25/04/2015
Oggi, 25 aprile, ricorrono i settant’anni della vittoriosa insurrezione del popolo milanese e lombardo, culmine della più generale insurrezione popolare che liberò il Nord Italia dal nazifascismo. Ricordiamo dunque un evento eccezionale, che nella nostra storia nazionale non ha eguali, ma soprattutto impegniamo tutte le nostre forze a proseguire una lotta iniziata con la Resistenza per la costruzione di un’Italia più giusta, libera e solidale.
In questi giorni diverse celebrazioni istituzionali stanno ricordando questo importante avvenimento. Tutte hanno in comune il tradimento generale con cui la lotta di liberazione nazionale viene ricordata. Non è un fatto nuovo: già negli anni immediatamente successivi alla fine della guerra il significato di profondo rinnovamento democratico che la resistenza aveva portato con sé, era stato dimenticato, sovvertito, tradito, adattandolo agli stretti schemi del ritorno alla democrazia parlamentare borghese, quella stessa forma di governo che aveva visto nascere il fascismo e che ad esso non aveva opposto alcuna resistenza.
Viene tradita con operazioni di stampo revisionistico che in Italia, come in tutta Europa – e vale la pena menzionare il recente caso dell’Ucraina e le legislazioni anticomuniste degli stati dell’est, nonché le risoluzioni della UE, che spesso hanno visto la complicità della Sinistra Europea – puntano ad equiparare carnefici e vittime, vinti e vincitori, i responsabili della distruzione e della barbarie provocata dal fascismo e dalla guerra, con coloro che eroicamente ad essa si opposero, spesso a costo della vita e di atroci sofferenze in nome di un’ideale di libertà e di riscatto dalle ingiustizie.
Così oggi dopo anni di criminalizzazione della Resistenza, di processi giudiziari e mediatici, menzogne funzionali a quel processo di equiparazione e revisionismo oggi purtroppo diffuso nella coscienza popolare e specie nelle nuove generazioni, si omette definitivamente il ruolo che il Partito Comunista e la Federazione Giovanile Comunista ebbero nell’organizzazione della lotta di liberazione, nel contributo di sangue che essi versarono per liberare l’Italia. Spetta a noi comunisti, oggi più che mai, ricordare questi fatti ma soprattutto riprendere in mano la bandiera della lotta di liberazione, far riscoprire alle nuove generazioni il valore profondo che questa storia ha anche di fronte alla condizione di oggi, rivendicare con orgoglio, consapevolezza e coscienza il ruolo dei comunisti che oggi si vuole nascondere.
Pietro Secchia, che della gioventù comunista, prima, e del partito comunista poi fu grande dirigente e animatore della lotta di liberazione, ricordava pochi anni dopo la liberazione che il primo modo attraverso il quale si falsifica la storia della resistenza è «la tesi secondo cui essa fu un ‘movimento spontaneo’ al quale parteciparono indistintamente tutte le classi sociali, tutto il popolo» o al contrario «ponendo alla sua testa soltanto alcuni uomini come i protagonisti di tutto». La resistenza non sorse dal nulla, né da un solo moto spontaneo d’orgoglio, rivalsa e senso di giustizia, che pure ci fu e fu a mano a mano sempre più vasto, ma che solo, nulla avrebbe potuto senza organizzazione.
Quando il fascismo esplose come fenomeno in grado di giungere al potere, mostrando successivamente tutto il suo volto reazionario ed antidemocratico, la classe operaia ed anche il suo partito di riferimento giunsero impreparati a cogliere le caratteristiche di un fenomeno che si presentava come nuovo nella storia, che richiese tempo prima di tutto per essere compreso nei suoi caratteri essenziali, premessa imprescindibile per condurre contro di esso una lotta realmente incisiva.
Il movimento operaio veniva da sconfitte e divisioni, da una direzione riformista da una parte e da un massimalismo inconcludente dall’altra, che prestarono il fianco all’organizzazione della reazione, che diedero alla grande borghesia il mezzo per contrattaccare servendosi dei fascisti.
Non fu facile per il Partito Comunista risollevarsi dopo centinaia di arresti tra i propri dirigenti. E non dobbiamo mai dimenticare il ruolo prezioso che l’Unione Sovietica ebbe in questo senso, dando ai comunisti rifugio, assistenza, mezzi per poter proseguire incessantemente l’azione politica in Italia.
Ogni storico onesto, ogni uomo che conosca la storia del nostro Paese non può non ricordare il contributo che i comunisti, negli anni della clandestinità diedero alla ricostruzione di una rete di opposizione al regime fascista nel Paese. Una rete fatta di presenza nelle fabbriche, di collegamenti, di radicamento diretto tra le masse. Dopo essere riusciti a ristabilire all’estero una direzione del Partito, a differenza di molti partiti antifascisti che esaurivano la propria attività in azioni morali, velleitarie e inconcludenti, i comunisti compresero che era necessario rinsaldare i legami con la classe operaia e le masse popolari italiane, ricostituendo un centro interno, in Italia, per l’azione del partito.
Qualsiasi storico onesto, chiunque conosca la nostra storia, deve riconoscere che è qui che sono le radici della Resistenza, con quel processo di analisi e cambiamento della linea politica del partito che conosciamo come “svolta del ‘29”, che facendo tesoro della lezione degli anni bui e degli errori fatti in precedenza, crea le premesse per ricostruire in Italia il partito, e divenire nelle masse unico elemento di un’opposizione certo clandestina, certo nascosta, ma presente e pronta a balzare alla luce quando fosse necessario. La svolta del ’29 che anticipa una serie di riflessioni interne all’Internazionale Comunista è un vanto della storia della gioventù comunista, perché per essa si spesero più di tutti e con maggiore convinzione i giovani dirigenti del PCI ed in particolare Luigi Longo e Pietro Secchia. E’ un monumento che ricorda a tutti noi le responsabilità storiche che ha la gioventù nella costruzione del movimento comunista ed in particolare nella straordinaria capacità dei comunisti di rialzarsi dopo le sconfitte. È la gioventù che prende le redini nel momento essenziale e che impone quella svolta con forza e convinzione.
I lineamenti essenziali di questa decisione che il Partito prende allora possono essere così riassunti: stabilire cellule comuniste clandestine nelle fabbriche, a partire dalle grandi concentrazioni operaie del nord del paese, infiltrare i sindacati fascisti con l’obiettivo di rivolgere contro di essi i lavoratori; trovare elementi di contatto con le masse giovanili, coinvolte nelle attività del regime fascista; rinsaldare i legami delle federazioni, rendere quei circa 2.000 comunisti rimasti nel paese, elementi di avanguardia della lotta contro il fascismo, curandosi allo stesso tempo di prevenirne gli arresti, rendere il loro lavoro per quanto possibile sicuro per non perdere elementi, cosa che accadde di continuo ed in modo inevitabile, ma da cui i comunisti seppero sempre rialzarsi e combattere con più forze.
«Noi non possiamo nasconderci – scrisse Togliatti dando forza alla posizione espressa da Longo e Secchia – che domani, quando si porrà il problema di dirigere dei movimenti di massa, non potremmo lasciare la direzione politica organizzativa di questi solo alle forze di base e pensare che queste lavorino senza che noi, gli attuali membri dirigenti del partito interveniamo a guidarle. Noi dobbiamo essere pronti a dirigere il partito e le masse nel corso del movimento stesso. Non possiamo pensare di rientrare sul cavallo bianco o a vele spiegate.»
A differenza dei partiti antifascisti che fecero del presunto esempio morale l’attività principale, il Partito Comunista mirò sempre alla concretezza nella sua attività a ristabilire e fortificare il contatto con le masse. Tutti i professionisti, specialmente i professori, dovevano giurare fedeltà al fascismo, mantenendo le proprie posizioni e continuando quella lenta ed incessante opera di opposizione, dalla propria posizioni di forza all’interno dei luoghi di lavoro, delle scuole, delle università, dell’apparato statale fascista, per individuare elementi di opposizione e coinvolgerli nell’azione del partito, pronti a scatenare quando ve ne fossero le condizioni, quelle rivendicazioni di classe che sole potevano smascherare agli occhi dei lavoratori la natura oppressiva e antipopolare del fascismo.
Questa azione lenta e incessante non cadde sotto i colpi dell’OVRA, la polizia fascista che pure grazie all’opera di infiltrati riuscì spesso a distruggere interi settori dell’organizzazione. Furono centinaia e centinaia i dirigenti e i quadri comunisti incarcerati e mandati al confino, ma ad essi si sostituivano sempre nuovi dirigenti, nuovi quadri. Le organizzazioni distrutte dall’opera della polizia fascista venivano ricostituite e tornavano ad essere presenti. Questo anche durante gli anni più difficili, in cui il fascismo godeva nelle masse di un indiscusso consenso, e soprattutto aveva dalla sua in modo compatto tutta la grande borghesia industriale del nord e agraria del sud del paese. Le stesse parole usate dalla polizia fascista spiegano il perché di questa capacità del Partito Comunista. Ecco cosa scriveva il capo della polizia fascista nel 1930 in un documento riservato:
« Il partito comunista, ammaestrato dalle dure lezioni ricevute in un passato ormai remoto, nell’anno scorso e nei primi mesi dell’anno corrente, ha perfezionato i sistemi di lotta, giungendo a procedimenti cospirativi che quasi non possono controbattersi con gli ordinari mezzi di polizia. Indubbiamente – bisogna costatare – i metodi di dirigenza intelligenti e abilissimi non avrebbero speranza di grandi successi pratici se non trovassero riscontro nell’audacia, che a volte rasenta la temerarietà dei comunisti e che – strenui difensori dell’idea – affrontano ogni rischio pur di riprodurre il manifestino di propaganda con mezzi di fortuna, distribuire la stampa, raccogliere fondi per il soccorso rosso.» Questo scriveva la polizia fascista.
E’ grazie a questa straordinaria azione di uomini comuni, che non si tirarono indietro di fronte alla prospettiva di anni di carcere, di confino, di requisizioni e problemi di ogni sorta per se stessi e per le proprie famiglie, in nome di un ideale superiore di libertà e giustizia, che si crearono le basi per la lotta al fascismo. Il contributo degli anni della clandestinità non deve essere dimenticato, perché senza di esso il Partito Comunista non avrebbe potuto esercitare il suo ruolo nella guerra di liberazione e la prova contraria è che quei partiti che non fecero lo stesso, che non affrontarono la stessa palestra di organizzazione e clandestinità si trovarono impreparati quando da questa dura e incessante guerra di posizione, gli eventi della guerra resero necessario il passaggio ad una forma di guerra aperta che unisse gli elementi più avanzati della classe operaia e delle masse popolari, verso la prospettiva insurrezionale.
L’azione dei comunisti in quegli anni si svolse in stretto contatto con il movimento comunista internazionale. Senza l’Internazionale, senza l’URSS il partito avrebbe potuto ben poco. La Guerra Civile Spagnola – anche questa pagina dimenticata nella nostra storia – vide il Partito Comunista partecipare alla costituzione delle brigate internazionali. Qui per la prima volta combatterono le Brigate Garibaldi sotto il comando di valorosi capi politici e militari, come Luigi Longo, Guido Picelli, che in Italia era stato l’animatore dell’esperienza degli Arditi del Popolo. In essa forgiarono le loro capacità comandanti partigiani del calibro di Giovanni Pesce, che poi guiderà i GAP a Torino e Milano, Ilio Barontini, Antonio Roasio, Giuseppe Di Vittorio, tanto per citarne alcuni.
Il fascismo portò l’Italia alla rovina e alla disfatta con la guerra. Una guerra che con l’attacco all’Unione Sovietica rese chiara la sua radice imperialista, ma che attraverso l’eroica resistenza sovietica, battaglie come Stalingrado, gli assedi di Mosca e Leningrado, innalzò il prestigio dell’URSS e del movimento comunista. Tra pochi giorni ricorrerà anche il 70° anniversario della presa di Berlino e della fine della seconda guerra mondiale. Insieme alle gioventù comuniste di tutta Europa ci siamo impegnati a ricordarne l’importanza e a ricordare il ruolo dei comunisti e dell’URSS proprio oggi, mentre i tentativi di equiparazione sono più forti. Ebbene spesso si parla in Italia del contributo degli Alleati, innegabile e fondamentale sia chiaro. Forse anche per la nostra situazione nazionale, ma certamente per esigenze politiche si dimentica però che l’URSS da sola combatté sul campo, lasciando decine di milioni di morti nel suo popolo, affrontando la Germania nazista sul campo. Quando gli alleati sbarcarono in Italia e poi in Normandia le armate nazifasciste erano già state ricacciate da Stalingrado e l’URSS iniziava la sua marcia verso Berlino.
Il prestigio sovietico diede linfa ulteriore al partito nella sua azione in Italia, fondendosi in un senso comune con la disfatta degli eserciti dell’Italia fascista in Russia. La situazione della guerra e la condizione in cui le masse popolari erano precipitate in Italia consentì le prime operazioni di lotta aperta che coinvolsero le principali città italiane.
Gli scioperi del ’43 meritano nel nostro ricordo un pensiero particolare. Grazie a quella incessante azione clandestina che aveva consentito ai comunisti di mantenere il contatto con le masse, gli scioperi operai suonarono in pieno regime fascista come la campana dell’inizio della lotta. Per la prima volta dopo venti anni gli operai scioperavano paralizzando le città del nord. Fu questa la prima causa della sconfitta di Mussolini, di lì a poco rimpiazzato con Badoglio, da una borghesia che comprese che avrebbe dovuto il prima possibile liberarsi dalla sua compromissione con il fascismo.
Le vicende dell’8 settembre sono note a tutti. È noto che la scarcerazione dei dirigenti comunisti al confino e nelle carceri consentì un’azione più incisiva del partito. Qui si pose un ulteriore problema, quello di quale caratteristica l’azione politica dovesse avere nel quadro di una resistenza del fascismo e dell’occupazione militare tedesca che andava prefigurandosi. Una situazione per la quale l’azione politica si scontrava con un’aperta azione militare della polizia, delle brigate fasciste e dei nazisti.
Anche qui il Partito Comunista seppe compiere scelte decise ed importanti. Su condivisione della linea sovietica espressa da Stalin il PCI sostenne il governo Badoglio, creò le premesse per la più ampia unità delle forze antifasciste, chiedendo di sedere con pari dignità – e di dignità in realtà il PCI ne aveva ben di più, data la sua forza reale che stava diventando forza di massa, mentre altri partiti esistevano solo nei loro leader e sulla carta – chiese pari dignità con tutte le forze politiche, rompendo l’isolamento nazionale ed internazionale dei comunisti. Impose cioè che la situazione di fatto rendesse chiaro il riconoscimento anche sul piano formale. La Svolta di Salerno ha avuto un contributo importante nella liberazione e non va confusa con errori e accomodamenti successivi. La situazione esigeva quello in quel momento e i comunisti fecero la loro parte.
Ma svolta ancora più importante fu la consapevolezza della necessità di contribuire alla liberazione del Paese attraverso la creazione di vere e proprie formazioni militari. La seconda ed importante svolta avvenne così, preparando innanzitutto il partito a questa necessità. Non bisogna dimenticare la tradizione pacifica del movimento operaio, la lezione leninista sull’inconcludenza delle forme terroristiche. Ma tutto questo avveniva in contesti di lotta democratica, che nulla avevano a che vedere con la situazione dell’Italia tenuta in ostaggio dai nazifascisti. Fu una lunga ed importante opera di convincimento e preparazione, per rompere quelle forme di attesismo che in buona fede esistevano anche tra i comunisti. La guerra contro l’URSS e dunque contro il socialismo, la dittatura fascista nella sua forma più criminale, la presenza dei nazisti e l’esposizione di qualsiasi lavoro politico, anche quello della semplice propaganda, alla pena di morte, a torture e privazioni; la consapevolezza che l’avanzata alleata necessitava di un ruolo autonomo delle masse italiane che sole avrebbero potuto garantire una vera rottura con l’ordine precedente e non una semplice restaurazione. Tutto questo spingeva a considerare come storicamente necessaria ed inevitabile l’opzione della lotta armata. Anche qui il PCI fu il primo partito ad operare in tal senso, a sostenere l’iniziativa spesso spontanea di settori sbandati dell’esercito, a prendere con essi collegamenti, inserendo nelle prime formazioni, elementi politici, poi veri e propri commissari, in grado di dare direzione e consapevolezza ai primi elementi di resistenza.
Attraverso il reclutamento degli elementi più attivi, dei giovani, attorno a militari tornati dalle disfatte fasciste, garibaldini di Spagna, compagni che conoscevano l’uso delle armi, si formarono ad opera del PCI le prime formazioni partigiane.
Da subito il Partito comprese che sarebbe stato necessario del tempo, che non tutto si sarebbe potuto organizzare da subito nei dettagli. Come scrisse Luigi Longo, che fu a capo delle formazioni Garibaldi: «Partimmo dal principio che il moto si impara camminando, che la lotta si elabora combattendo.» Il partito si oppose alle idea di costituire un esercito da tirare fuori solo all’ora X, al contrario sostenne con rigore la necessità di condurre una lotta immediata fin da subito, con tutti i mezzi (pochi) che allora erano a disposizione. Fu l’audacia e la spregiudicatezza nell’azione, la capacità di cogliere di sorpresa fascisti e tedeschi, spesso anch’essi provati dalla guerra e fiaccati dalle prospettive di una sconfitta sempre più chiara.
Le formazioni partigiane dovettero trovare le loro armi strappandole dalle mani del nemico, mano a mano che si lottava l’organizzazione si fortificava, nuovi giovani affluivano alla lotta armata, ad essa si accompagnava un sostegno nella popolazione. Ma all’inizio fu la consapevolezza e la forza di pochi a determinare la via e a segnare il passo; la convinzione profonda che animò i comunisti e i più sinceri antifascisti. Quell’idea che Giovanni Pesce in Senza Tregua ricorda con una frase che nei momenti difficili, anche oggi, ogni nostro militante deve tenere a mente. «Il partito sei tu». E’ a ogni comunista che spetta contribuire con le sue possibilità, capacità, con le sue forze al raggiungimento degli obiettivi dell’organizzazione, senza aspettare che il lavoro arrivi bello e pronto da chissà chi.
Non fu opera facile, anche perché fin da subito i settori legati alla borghesia, al Vaticano, alla monarchia, temevano il coinvolgimento delle masse popolari nella lotta di liberazione. L’idea del popolo in armi, della coscienza e del ruolo della classe operaia e delle masse popolari nella liberazione, l’associazione immediata con la perdita della posizione di direzione e di rendita sotto il profilo politico economico, lasciavano la borghesia attonita, spiazzata e pronta a contrastare con tutte le sue forze quella prospettiva. Dentro lo stesso CLN sono note le divergenze tra le forze popolari, comunisti, socialisti e azionisti e la democrazia cristiana e i partiti liberali, monarchici dall’altra. I comunisti non accettarono mai l’idea di attendere la liberazione da parte degli angloamericani, di consentire che tutto si risolvesse in un ritorno a prima del fascismo, senza dare battaglia. La strategia del Partito fu dunque unica sotto il profilo militare e politico: solo la partecipazione attiva delle masse avrebbe potuto portare alla capitolazione del fascismo; solo il protagonismo della classe operaia, dei contadini, degli studenti avrebbe creato le premesse per costruire una società nuova.
La storia del movimento operaio ricordava questo. Marx ed Engels, proprio commentando le guerre d’indipendenza italiane avevano scritto: «Un popolo che vuole conquistarsi l’indipendenza non deve limitarsi a mezzi di guerra ordinari. L’insurrezione in massa, la guerra rivoluzionaria, la guerriglia dappertutto, sono gli unici mezzi con i quali un piccolo popolo può vincerne uno più grande, con i quali un esercito più debole può far fronte ad un esercito più forte e meglio organizzato. »
Solo la guerriglia partigiana, solo un’azione di resistenza radicata nelle masse avrebbe potuto fiaccare il nemico fascista. E allo stesso tempo, per citare le parole di Luigi Longo: «Siamo tutti d’accordo che quando parliamo di democrazia non intendiamo il ritorno puro e semplice alla vecchia democrazia che ha aperto la strada alla reazione e al fascismo, ma intendiamo la creazione di qualche cosa di nuovo che possa permettere alle forze popolari di non lasciarsi più sorprendere impreparate e disarmate alla reazione.»
Su queste premesse e con questi obiettivi sorse, grazie all’iniziativa dei comunisti prima di tutto, quello straordinario movimento di liberazione che conosciamo con il nome di Resistenza. Si è detto e scritto molto sull’idea di un secondo Risorgimento nazionale. Ciò che è essenziale è che per la prima volta un movimento di massa in Italia porta con sé la direzione politica delle classi popolari e non di settori della borghesia. Le masse popolari italiane che avevano conosciuto la rivoluzione passiva del fascismo, oggi prendevano le redini della storia del proprio paese. La gioventù che pure era nata e vissuta per vent’anni sotto la propaganda fascista, si ribellava e ingrossava le file del movimento di liberazione nazionale, propugnando un’ideale di libertà e giustizia che chiedeva la fine del fascismo.
Se tutto questo poté avvenire fu grazie alla capacità dei comunisti di collegare la lotta armata delle formazioni partigiane con la lotta politica ed economica che si svolgeva in tutti i settori della società. La lotta di liberazione fu questo straordinario insieme di donne e uomini che ciascuno secondo le sue possibilità, le sue capacità, i suoi compiti diede un contributo alla lotta.
Ogni esercito, specie un esercito di guerriglieri, non può nulla senza uno stretto rapporto con la popolazione locale, senza un’organizzazione alle spalle che è fatta di ruoli non direttamente militari ma logistici e organizzativi. La resistenza è stata un grande esempio di questo. Furono i comunisti a suggerire la differenziazione dei ruoli, le modalità di organizzazione. È così che nacquero i GAP nelle città, è così che in tutti i quartieri e nei posti di lavoro le Squadre di azione patriottica garantivano il sostegno e l’appoggio; era il Partito a garantire i legami con le masse contadine. L’azione nelle fabbriche e nelle montagne nella sua evidente differenze rispondeva ad un unico grande scopo.
Oggi non si ricorda mai il contributo che la classe operaia diede per sabotare la produzione delle industrie militari o di tutte quelle industrie che producevano direttamente per tedeschi e fascisti: si dimentica come i sabotaggi impedirono lo smantellamento delle industrie ed il trasferimento in Germania.
Gli operai, i tranvieri, i tecnici, i contadini, proprietari non delle imprese, ma della tecnica e della capacità di svolgere il proprio lavoro, adopravano questa loro conoscenza materiale come strumento di resistenza, e allo stesso tempo dimostravano in concreto, nelle peggiori condizioni, come la classe lavoratrice sia la vera proprietaria dei mezzi di produzione, sia in grado da sola di portare avanti e dirigere la vita economica e sociale del paese. La resistenza è stata anche questo, una dimostrazione chiara di capacità di autogoverno delle masse popolari, sotto la guida dei comunisti e delle forze progressiste che ad essi si unirono per condivisione di un chiaro programma di rinnovamento sociale.
Le comunicazioni dei tedeschi venivano intercettate e passate ai comandi del CLN dai tecnici che lavoravano nelle comunicazioni; gli operai nascondevano i pezzi essenziali delle macchine rendendo così il loro trasferimento inutile; i treni con materiale bellico venivano deviati e fermati prima delle frontiere; le fabbriche di tessuti fornivano le loro divise al Corpo dei volontari della libertà. Ogni rivendicazione economica era utilizzata come mezzo politico contro il fascismo, scioperi, sabotaggi, propaganda tra i giovani nelle scuole, nelle università, reclutamento dei sappisti, dei gappisti, dei partigiani di montagna, scambi, coperture, collegamenti. Tutto questo fu organizzato, dimostrando che i lavoratori possono essere padroni oltre che della tecnica, del proprio destino.
Tutto questo ovviamente ebbe un caro prezzo di vite. Migliaia – spesso di giovanissimi – caddero sul campo di battaglia, o dopo atroci torture da parte dei fascisti e dei nazisti. Centinaia di stragi furono compiute, migliaia di persone deportate nei campi di concentramento. Nessuna organizzazione avrebbe potuto evitare questo, e i nomi di quei tanti ragazzi, oggi spesso dimenticati, restano nelle nostra memoria ad esempio di cosa significhi professare e credere in un ideale. Noi non dimentichiamo quel sacrificio, ci impegniamo oggi qui solennemente a rinnovare quel giuramento di fedeltà alla nostra storia e a proseguire quella lotta.
L’insurrezione nazionale del 25 aprile fu il momento più alto della storia nazionale del nostro Paese. Eppure nonostante i propositi, il valore e il ruolo nella lotta, alle masse popolari fu strappata questa vittoria, per consegnarla mano a mano nelle mani della stessa borghesia che era stata responsabile dell’ascesa del fascismo, al dominio imperialista, alla presenza di criminali fascisti inseriti negli apparati dello stato con il compito di reprimere le lotte del movimento operaio, ed impedire un avanzamento sulla via di una democrazia dei lavoratori, per costruire un’Italia socialista.
Le nostre organizzazioni, oggi presenti in questa iniziativa hanno insieme e parallelamente svolto importanti attività di analisi per studiare gli errori che si produssero nel dopoguerra, che impedirono una più vasta e radicale azione per fermare le forze della reazione e allo stesso tempo avanzare verso il socialismo. Non è oggi il luogo e il momento di menzionare questa riflessione, perché fortunatamente è ormai parte integrante della nostra analisi politica.
Anche qui possono esserci di aiuto le parole di Longo, di uno scritto del maggio del 1970 pubblicato da l’Unità. «Il problema di oggi – scrisse Longo – non è di ‘celebrare’ la Resistenza, come fatto definitivamente compiuto e da consegnare alla storia. Occorre riprenderne le idee ispiratrici per andare avanti sulla strada aperta dalla Resistenza.»
Ancora oggi la questione della sovranità popolare di fronte al dominio imperialista, la subordinazione economica, politica e sociale della classe operaia e delle masse popolari, i problemi aperti dalla crisi del capitalismo, la disoccupazione, l’aumento dello sfruttamento sul lavoro, la precarietà per le nuove generazioni, l’attacco all’istruzione, alla sanità, l’attacco alle conquiste che con tutte le contraddizioni la stessa Italia repubblicana aveva conosciuto, sono elementi che devono rafforzare la nostra convinzione nella lotta, la nostro nuova forma di protagonismo delle masse nella direzione dell’abbattimento del capitalismo. La Resistenza dunque non va celebrata, ma la sua lezione, deve accompagnarci nell’azione quotidiana, deve insegnarci che anche nei momenti bui i comunisti hanno saputo rialzarsi e prendere in mano la direzione delle lotte. Difendere la memoria della resistenza, il ruolo dei comunisti in essa, vuol dire lavorare oggi con convinzione e forza per costruire in Italia un forte Partito Comunista per radicarlo tra i lavoratori, i disoccupati, i giovani.
Memori di questa grande responsabilità, rinnoviamo oggi, in questa occasione, quel giuramento di non darci tregua, di lottare con tutta la nostra forza, il nostro entusiasmo, la nostra convinzione per costruire un’Italia libera, realmente democratica, socialista. Fedeli alla nostra storia, avanti fino alla vittoria!