Lasciato passare qualche tempo dai fatti che hanno coinvolto il partigiano Enrico Angelini, protagonista di un gesto piccolo ma esemplare, di grande impatto mediatico, abbiamo avuto l’opportunità di parlare con lui.
Che il suo esempio e la sua forza di volontà siano d’esempio alle nuove generazioni, alla gioventù comunista, che combatta ora e sempre l’ingiustizia e lo sfruttamento senza tregua.
* di Giulia Paltrinieri
Nella notte tra il 2 e il 3 febbraio del 1944, alcuni giovani partigiani furono catturati dai nazisti su quelle montagne umbre, tra Foligno e Trevi. Avevano poco più di vent’anni e combattevano con le Brigate Garibaldi: le squadre partigiane del Partito Comunista Italiano, quelle più numerose e quelle che subirono le più grandi perdite durante la guerra di Resistenza. La IV Brigata, messa in piedi subito dopo l’armistizio sugli appennini di Spello e Foligno, contava quasi quattrocento ragazzi. Con loro c’erano anche guerriglieri jugoslavi, evasi dal campo di Colfiorito e dal carcere di Spello e unitisi alla lotta. Quella notte di febbraio alcuni partigiani vennero catturati e spediti a Mauthausen e Flossenbürg, dove morirono.
È una di quelle storie che in pochi ricordano, una di quelle piccole leggende di provincia che rimangono custodite nella memoria dei racconti di paese. Mentre si moltiplicano i tentativi di revisionismo e i testimoni si iniziano a contare sulle dita di una mano. Enrico Angelini invece quella storia se la ricorda bene. Lui c’era: aveva 19 anni, si era messo in spalla le armi ed aveva scelto la montagna. «Io ricordo perfettamente l’alba di quella mattina del tre febbraio – racconta – stavo dormendo steso su dei giacigli fatti di sterpaglie e, mentre riposavo, sentii come in dormiveglia il crepitare delle mitragliatrici. E poi degli spari, il rumore delle esplosioni. Erano arrivati i tedeschi e non so come è successo. Io e la mia pattuglia ci salvammo miracolosamente».
Da quel giorno, Enrico appena può sale su quei monti e cammina verso quella cascina, per portare un saluto o un fiore ai quei compagni che non ce l’hanno fatta. «Tutti gli anni, almeno una volta l’anno, mi recavo sempre in quel posto, a Casale Radicosa. Mi ricordava i miei 19 anni, gli anni in montagna e la guerra. L’ultima volta presi una bella pietra e ci ho inciso una frase, un monito: la memoria è storia, non è oblio».
Per Enrico ricordare quello che è successo in quel luogo è fondamentale e conservare la memoria dei suoi compagni e del loro sacrificio è un atto dovuto. Per questo, quando qualche mese fa il vecchio partigiano, oggi 90enne, ha saputo che qualcuno aveva imbrattato con una svastica Casale Radicosa, portandosi via la targa da lui incisa, non ha saputo resistere. Messo nello zaino sverniciatore, spazzola e una rosa rossa è voluto andare di persona a cancellare l’oltraggio. «Mi sono recato con un amico subito su a Radicosa e piano piano sono riuscito a rendere pulito quel luogo. Mi ero portato anche una rosa rossa, che ho lasciato nel posto esatto dove una volta avevo messo la targa. Non mi vergogno di dirlo: ci è scesa qualche lacrima. È brutto vedere un vecchio piangere, vero? Ma il mio ricordo andava ai miei compagni che non sono più tornati. Poi piano piano, me ne sono tornato a casa».
Quel giorno Enrico, 90 anni alle spalle e una vita da ferroviere, si è sentito «partigiano per la seconda volta, perché ero lì a difendere gli stessi valori per i quali combattevo nel ’43». Per lui, raccontare e conservare la memoria, trasmettere ai giovani quegli ideali per cui era disposto a morire è una forma di nuova resistenza. «I ricordi mi aiutano a vivere. I ricordi sono il sale della vita. L’età anagrafica ti porta via tutto, le forze e le persone, ma mai riuscirà a portarmi via appena avrò un alito di vita i ricordi e le passioni». Una resistenza fatta di parole e soprattutto di azioni. Fatta da chi, nonostante il peso del tempo sulla schiena, si è armato di spazzola e raschietto ed ha deciso di incamminarsi, ancora una volta, su per le montagne.