La maggioranza della popolazione italiana sente di appartenere alla classe operaia. La notizia è data in questi giorni da “La Repubblica” riprendendo uno studio di Ilvo Diamanti e dell’istituto Demos, che mette in evidenza il rovesciamento dei dati rispetto al 2008. In realtà il dato è ancora più interessante se si considerano due elementi. In primo luogo la rilevazione statistica del 2015 mette fine ad una serie ventennale contraria che aveva visto nel proletariato la sistematica riduzione della percezione di appartenenza di classe e il trionfo del mito della “classe media”. In secondo luogo questo capovolgimento avviene in un momento storico di debolezza delle organizzazioni sindacali di classe e di totale mancanza di rappresentanza politica della classe operaia.
Scrive Diamanti, riferendosi proprio all’inversione della tendenza ventennale: «Oggi, invece, la società italiana si è “operaizzata”. Oltre la metà degli italiani, per la precisione: il 52%, si colloca nei “ceti popolari” o nella “classe operaia”. Mentre il 42% si sente “ceto medio”. Nel 2006, dunque: poco meno di dieci anni fa, il rapporto fra queste posizioni — e visioni — risultava rovesciato. Il 53% degli italiani si definiva “ceto medio” e il 40% classe operaia (o “popolare”). Nel 2008, mentre la crisi incombeva, peraltro, le posizioni apparivano più vicine. Ma il ceto medio, in Italia, prevaleva ancora, seppur di poco, sulla classe operaia: 48 a 45%.» Per la prima volta da venti anni, e soprattutto dopo la crisi economica la maggioranza della popolazione italiana ritiene di appartenere alle classi popolari. Il dato sulla percezione, arriva dopo la crisi e dopo che le ultime statistiche hanno ulteriormente dimostrato come la polarizzazione della ricchezza nella società italiana sia fortemente aumentata in questi ultimi anni. Gli ultimi dati OCSE, usciti circa una settimana fa hanno registrato come il 60% della popolazione più povera, abbia solamente il 17,4% della ricchezza, a fronte del 32% detenuto dal 5% più ricco della popolazione. Al netto della parzialità di queste statistiche – le cui fasce tendono sempre a coprire elementi di ancora maggiore polarizzazione della ricchezza – i segnali sono comunque evidenti ed in linea con quanto quotidianamente viviamo sulla nostra pelle.
«Questa tendenza ha investito un po’ tutte le professioni e tutte le categorie. Non solo quelle che erano già, di fatto, “classe operaia”. I lavoratori dipendenti. Ma ha coinvolto anche altre figure, catalogate, tradizionalmente, nella “piccola borghesia”. In particolare, i lavoratori autonomi e i piccoli imprenditori. Ancora nel 2008, il 60% di essi si sentiva “ceto medio”, il 34%, poco più di metà, classe operaia. Oggi, però, questa distanza si è sensibilmente ridotta. Perché il 40% dei lavoratori autonomi e in-dipendenti si sente “classe operaia”. Il 54% ceto medio. Anche il ceto medio impiegatizio si è operaizzato.» Il mito del “ceto medio”, che per anni aveva dominato l’autocoscienza della maggioranza della popolazione lavoratrice, lascia il passo ad una ben più categorica consapevolezza di appartenere alle classi popolari. Crolla così quella visione che ha accompagnato dalla caduta dell’URSS ad oggi, il “sogno” dell’emancipazione all’interno del sistema capitalistico, della ricchezza e del benessere per tutti, che sotto il peso della crisi si traduce nell’amara costatazione della realtà.
Questi dati in realtà segnano una serie differente di fenomeni che dobbiamo provare a leggere, anche e soprattutto alla luce della nostra esperienza di lavoro. In primo questa percezione aumenta nella classe operaia. Le molteplici crisi aziendali, i licenziamenti, la riduzione salariale, l’aumento degli orari di lavoro, la precarizzazione, tutto questo ha lasciato segni nella percezione che i lavoratori salariati hanno di sé stessi, a partire dalle fabbriche, dove più aveva resistito anche in questi anni un certo senso di appartenenza. In secondo luogo aumenta questa percezione in tutti quegli strati di lavoratori salariati che sono sotto il profilo giuridico lavoratori autonomi. Il popolo delle partite Iva, nella maggior parte dei casi monomandatarie, si rende chiaramente conto che la formalità giuridica non cambia la natura reale della propria condizione, e che l’idea di essere “imprenditori di sé stessi” si traduce in una doppia forma di sfruttamento, con diminuzione di salai e diritti. Vi è poi una terza condizione, che è quella della piccola borghesia che vede precipitare la sua condizione. Non si tratta di un fenomeno nuovo, ma di una situazione che con la crisi ha visto rimettere in moto con forza questo processo. Marx ed Engels nel Manifesto del Partito Comunista che «il proletariato si recluta in tutti gli strati della società». La tendenza alla centralizzazione e concentrazione dei mezzi di produzione in poche mani fa sì che i vecchi ordini sociali, i piccoli proprietari e le professioni che storicamente appartengono alla piccola borghesia, vengono ridotti a lavoratori salariati, e dunque proletarizzati. In tutti questi strati inoltre aumenta la percezione di una mancanza sostanziale di rappresentanza politica, spesso accompagnata da un risentimento generalizzato verso il sindacato, che somma molte diverse posizioni al suo interno. Tuttavia, proprio in relazione a questo, alla generale consapevolezza non segue automaticamente un livello di coscienza.
«Così – scrive Diamanti – in Italia avanza una società “operaia”, che vive con una certa preoccupazione e un certo risentimento questa condizione. Perché aveva creduto alla promessa berlusconiana – e non solo aggiungiamo noi (ndr) – di un futuro da “imprenditori” per tutti. Attraverso il passaggio “intermedio” del “ceto-medio”. Ma oggi, che la crisi ha dissolto il sogno- ceto-medio, per molti è faticoso rassegnarsi al risveglio- operaio.» Proprio la natura di questa consapevolezza e del risentimento che ne segue devono essere analizzati con impegno.
Da una parte il dato è certamente positivo, perché dimostra chiaramente che le visioni trionfalistiche del capitalismo di questi venti anni si stanno infrangendo di fronte alla realtà e che la condizione economica materiale determina una consapevolezza negli strati popolari. La condizione materiale modifica le idee ben più di quanto esse modifichino la condizione materiale, e questo né è una riprova. Ma allo stesso tempo non tutto si compie da sé. C’è una profonda differenza tra “consapevolezza” e “coscienza”, che solo l’azione organizzata di un’avanguardia rivoluzionaria può determinare. La consapevolezza è quel primo passo che si determina spontaneamente sulla base della condizione economica, che evolve con il mutare della condizione materiale. La coscienza è un atto politico, che non si produce autonomamente.
Il processo di proletarizzazione degli strati della piccola borghesia, se da un punto di vista materiale allarga la massa dei salariati, introduce all’interno di questa ulteriori elementi di ideologie piccolo borghesi, che contribuiscono a deviarne la direzione e creare nuove illusioni. La radice di quel sentimento di “preoccupazione” e “risentimento” che Diamanti individua e che vediamo bene nella società di oggi, altro non è che il risentimento di una parte di quegli strati oggi proletarizzati, che può trovare espressioni politiche opposte ad una soluzione rivoluzionaria e progressista. Questa spontaneità lasciata a sé stessa sul terreno politico può produrre al massimo la visione limitata della lotta alla casta, ai privilegi immediatamente percepibili, ma non alla divisione del lavoro, allo strapotere dei grandi monopoli. O peggio può perdersi nei risentimenti di stampo nazionalistico, in nuove e perdenti avventure, che dietro slogan roboanti e illusioni, finiscono per fare il gioco dell’imperialismo e schiacciare doppiamente i lavoratori. C’è dunque da evitare di pensare che tutto lavori per noi e tutto si produca spontaneamente, concetto che va rifiutato senza appello.
Quella che oggi deve essere costruita è una forza organizzata che sappia lavorare come avanguardia per dare forza e direzione alla lotta di classe, per trasformare questo sentimento di appartenenza in coscienza di classe.