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Le false idee sul neoliberismo

di Prabhat Patnaik*

Il neoliberismo è spesso visto solamente come una politica economica. Questa visione, di per sé, potrebbe anche non crear problemi, dal momento che una specifica serie di misure economiche ricadono senza dubbio sotto l’etichetta di neoliberismo. Ma riducendo il neoliberismo solo ad una serie di misure economiche si veicola spesso una falsa rappresentazione per cui questa serie di misure sia l’oggetto di una scelta da parte della forza politica borghese dominante e che dall’altro lato vi sia una serie di misure economiche non neoliberiste che potrebbe essere adottato, anche nelle condizioni del capitalismo contemporaneo, se solo la forza politica borghese insediata al potere lo volesse.

Ridurre il neoliberismo alla sola veste di politica economica crea la possibilità di questo equivoco. Infatti, il neoliberismo, comunque, è una mera descrizione (e nemmeno buona) dell’intero insieme di misure economiche che sono necessariamente associate all’egemonia della finanza globalizzata. Queste misure non sono frutto di una scelta da parte di una qualsiasi forza politica borghese: sarebbero adottate, nell’epoca contemporanea, da qualsiasi forza politica borghese, fintantoché il paese da loro governato rimane nell’orbita del capitalismo, dal che discende che qualsiasi forza politica che spera seriamente di rovesciare tali misure, deve essere preparata a trascendere e rovesciare il capitalismo. Dovrà farlo, senza dubbio, attraverso tutti i tipi di passi tattici complessi, ma non può crogiolarsi nell’indagare sulla necessità di farlo, un punto che acquista particolare significato nel contesto della Grecia di oggi e degli altri paesi Europei che possono nei giorni a venire promuovere al potere governi di sinistra contro l’austerità.

Il punto qui affrontato è analogo a quello che affrontò Lenin contro Karl Kautsky sulla questione dell’imperialismo. Lenin aveva accusato Kautsky di pensare che l’imperialismo fosse un tipo di politica, così suggerendo che fosse possibile a quel tempo anche una politica “non imperialista”, anche sulle basi dello stesso capitalismo monopolistico, o attraverso l’abbandono dei monopoli per tornare alla “libera concorrenza”, dalla quale gli stessi monopoli si erano creati. Entrambe queste possibilità, sostenne Lenin, erano del tutto irreali e rappresentavano il sogno speranzoso per le chimere, tipico del “piccolo borghese”.

Per sottolineare il punto per cui non è possibile separare l’imperialismo dal capitalismo monopolistico in questo modo e che l’imperialismo non fosse una “politica” che potesse o non potesse essere adottata sulla base del volere dei governi nel capitalismo monopolistico, Lenin definì l’imperialismo come fase monopolistica del capitalismo.

La controreplica di Kaustky: se uno definisce l’imperialismo come capitalismo monopolistico, non avendo provato la “necessità” dell’imperialismo per il capitalismo, ma ritenendolo per definizione, per forza diviene uno sviluppo naturale in questa posizione. Ciò solamente significa che la questione della “necessità” dell’imperialismo da parte del capitalismo deve essere separatamente indagata e stabilita. Di qui segue la possibilità che si possa conservare il capitalismo monopolistico ma facendola finita con questa “necessità”, vale a dire che una politica “non imperialista” fosse possibile in quel momento, anche senza trascendere il capitalismo.

Analogamente, il neoliberismo non è un’entità separata staccabile dal capitalismo contemporaneo. E’ il capitalismo contemporaneo, nient’altro che la manifestazione del capitalismo contemporaneo, caratterizzato, com’è, dall’egemonia della finanza internazionale e/o globalizzata.

Ci si imbatte spesso nell’immagine speculare di questo argomento di “separabilità” prevalente nei circoli della sinistra, sopratutto in Europa, con riferimento alla globalizzazione. Con ciò si sostiene che la “globalizzazione” di oggi è una cosa “buona”, mentre il capitalismo contemporaneo è “cattivo”, di modo che dovremmo mantenere questa globalizzazione anche qualora si voglia trascendere e rovesciare il capitalismo. Questa posizione sostiene che dovremmo distaccare la globalizzazione contemporanea dal capitalismo contemporaneo, suggerendo che bisognerebbe tenerci la prima e rifiutare il secondo. Tuttavia, la “globalizzazione” contemporanea non è nient’altro che la manifestazione fenomenica del capitalismo contemporaneo, così come lo sono in egual modo le misure economiche che vanno sotto il nome di “neoliberismo”. Come non ci si può sbarazzare del neoliberismo conservando il capitalismo contemporaneo, così non ci si può liberare del capitalismo contemporaneo mantenendo la globalizzazione. Questi costituiscono insieme un’unità integrale che va sostituita. Sebbene i passi tattici attraverso cui farlo costituiscano altra e diversa questione, immaginare di conservare uno dei componenti scartando quello che non ci va è ignorare questa unità. E ciò costituisce un pio desiderio.

Un capitalismo senza lacci e senza freni

La domanda che emerge è: quali sono le caratteristiche di questa unità che costituisce il capitalismo contemporaneo? Si può ovviamente qui parlare solo di alcune di queste, ma tutte derivano dal fatto che il capitalismo di oggi è “senza lacci”. Quei lacci che il capitalismo ha combattuto quando fu coinvolto nella lotta di classe con l’aristocrazia (che aveva, tra l’altro, costretto all’emanazione di normative sull’industria in Inghilterra); quei lacci che il capitalismo ha combattuto quando è stato coinvolto nella lotta di classe contro il crescente proletariato, quando sembrava che il socialismo potesse conquistare il mondo; quei lacci che si trovò di fronte il capitalismo quando era organizzato su base nazionale e con una finanza nazionale, cercando di imporre i suoi voleri sullo “Stato-nazione”, contro la resistenza delle classi lavoratrici, specialmente nel periodo del secondo dopoguerra, quando questa resistenza ha costretto all’istituzione di democrazie elettorali negli stati capitalisti avanzati: questo insieme di lacci sembra che per il momento siano stati slegati. La sfida socialista è per il momento indebolita e la “globalizzazione” del capitale ha costretto gli Stati-nazione, anche quelli i cui governi sono supportati dalla classe lavoratrice, a soddisfare le volontà di questo capitale. Le caratteristiche del capitalismo di oggi seguono in un certo senso da questa congiuntura che vede il capitale privo di freni o di lacci. Quali sono queste caratteristiche che sono immanenti al capitalismo ma che oggi vengono realizzate con inedita libertà?

Una di queste è la mercificazione su di una scala sinora mai vista. Di particolare rilevanza è la mercificazione di settori come l’istruzione o la sanità. Nel più vecchio paese capitalista del mondo, l’Inghilterra, più di due secoli hanno dovuto passare dalla rivoluzione industriale prima che la sfera dell’istruzione superiore fosse aperta alla speculazione privata. La mercificazione dell’istruzione superiore ha due implicazioni. Una è che i suoi “prodotti” sono anche mere merci con poca importanza sociale: e se ciò è vero nei paesi capitalisti avanzati, è maggiormente vero per i paesi capitalisti “emergenti”; la distruzione dell’importanza sociale nei confronti dei prodotti dell’educazione superiore è in questi di gran lunga maggiore. L’altra è che si tenta di mercificare ciò che rimane della resistenza intellettuale al capitalismo, di qui indebolendola.

La seconda caratteristica è la distruzione spietata della piccola produzione. Il capitalismo storicamente ha sottomesso la piccola produzione (o più generalmente il modo pre-capitalistico di produzione) ai propri fini attraverso il colonialismo, senza necessariamente soppiantarla (tranne che nelle regioni temperate di insediamento dei bianchi, dove le terre dei nativi sono state sottratte ed incamerate dagli immigrati dello stato metropolitano); tuttavia, contro questa sottomissione vi è anche stata grande resistenza da parte dei piccoli produttori. Nella stessa storia degli Usa, il susseguirsi di rivolte, dalla rivolta Indigo del 1857 in avanti, concludendo con il massivo supporto dei contadini alla lotta anticoloniale, sono esempi di tale resistenza. La decolonizzazione aveva portato una certa attenuazione di tale sottomissione, ma il capitalismo contemporaneo, ricusando le politiche economiche dirigiste post-coloniali ed integrando le oligarchie imprenditoriali e finanziarie delle nazioni ex coloniali nel corpus della capitale finanziario internazionale, non solo ha ripreso questo spietato processo di sottomissione dei piccoli produttori, ma ha varato un massiccio processo di espropriazione di questi produttori di genuina primitiva accumulazione di capitale, processo del quale il “Land Grab Bill” oggi all’esame del parlamento indiano ne è un fulgido esempio. Il fenomeno del suicidio di 200.000 contadini sulla scia dell’incorporazione dell’India nel mondo dominato dalla finanza internazionale sottolinea la gravità e la crudeltà di questo processo.

La terza caratteristica è un enorme aumento della diseguaglianza economica, non solo con riferimento alla ricchezza, ma anche dei redditi e non solo a livello mondiale, tra la classe operaia mondiale e le oligarchie imprenditoriali e finanziarie mondiali, ma anche all’interno di ogni paese, tra questi due poli all’interno del singolo paese. Significativo di questa criticità è il fatto che il libro di Thomas Piketty sia divenuto istantaneamente un best-seller. Ed anche il summit economico di Davos tra i leader mondiali del capitale lo ha descritto come come uno dei tre maggiori problemi con cui si deve confrontare l'”umanità”. La ragione dell’aumento di questa diseguaglianza sta nel fatto che mentre l’esercito industriale di riserva rimane numericamente vasto e non accenna a diminuire, dall’altro le sue conseguenze perniciose, il non permettere l’aumento dei salari reali, non sono ora più solo confinate ai paesi del terzo mondo, dove sussiste un così vasto esercito lavorativo di riserva. Esse si estendono altresì ai paesi capitalisti avanzati, i cui lavoratori troppo spesso devono astenersi da richieste di aumento salariale per il timore che il capitale ora “globalizzato” si sposti verso i paesi del terzo mondo per ottenere l’abbassamento del costo del lavoro.

In questo modo, con i salari reali che non aumentano in nessun luogo, ogni aumento della produttività del lavoro genera un aumento del plusvalore della produzione e, quindi, della diseguaglianza di reddito. Ciò si verifica tanto a livello globale che all’interno di ciascun paese.

Aumento della fame nel mondo

Un aspetto di questi fenomeni è l’aumento della fame nel mondo. Abbiamo sopra notato come i salari reali rimangano vicini al livello minimo di sussistenza nei paesi del terzo mondo. Ma questo può anche non accadere. La privatizzazione dell’istruzione, della sanità e di altri servizi essenziali aumenta enormemente i loro costi, il che erode il potere d’acquisto nelle mani della classe lavoratrice ed erode altresì la loro spesa reale pro-capite per la nutrizione. Quando aggiungiamo a questo fenomeno, che riguarda sostanzialmente i lavoratori occupati oppure l’esercito di lavoratori attivi, il fatto che l’espropriazione dei piccoli produttori gonfia la dimensione dell’esercito industriale di riserva, il tasso elevato di aumento della fame nel mondo diventa comprensibile.

La quarta caratteristica è legata a questo aumento della disuguaglianza. Tale aumento produce a livello mondiale una tendenza alla sovrapproduzione (poiché uno spostamento della distribuzione del reddito dalla classe lavoratrice ai grandi capitalisti ha un effetto deprimente sulla domanda di beni). In una situazione in cui gli Stati nazionali nel confronto col capitale internazionale hanno poca scelta se non obbedire ai suoi diktat, il capitale usa questo fatto per strappare ulteriori concessioni da parte dello Stato, giustificandole col fatto che tali concessioni, migliorando la fiducia degli “investitori” nello stato medesimo, consentirebbero di superare la crisi di sovrapproduzione. In breve, viene costruita nella congiuntura contemporanea una dialettica di diseguale accrescimento della ricchezza che provoca il persistere o addirittura l’accentuarsi della crisi economica insieme con il crescente potere di classe del capitale il quale ultimo aggrava in realtà sia la disuguaglianza che la crisi, ma viene difeso paradossalmente come una via d’uscita dalla crisi.

La quinta caratteristica consegue alle altre. Le istituzioni democratiche esistenti nei paesi capitalisti avevano ottenuto un’accumulazione di ricchezza collettiva a seguito delle lotte operaie. Una volta che il freno costituito dalle lotte operaie è stato ridotto a zero, la naturale tendenza del capitalismo sarebbe quella di affossare tali istituzioni (anche “mercatizzandole” al loro interno). In aggiunta, però la dialettica di cui sopra, di crescente disuguaglianza, di crisi permanente e di crescente potere di classe del capitale, peraltro giustificato in nome del superamento di una crisi che comunque persiste, aumenta la paura del capitalismo e la sua ostilità verso le istituzioni democratiche. Dal finanziare gruppi fascisti, a stimolare la divisione tra persone lungo linee etniche e religiose, dal ricorso palese alla menzogna (come nel caso della guerra in Iraq), fino alla soppressione definitiva delle istituzioni democratiche, tutta una serie di metodi sono impiegati per garantire che tali istituzioni siano opportunamente indebolite. Allo stesso tempo, il tentativo di mantenere le persone divise tra loro crea una situazione di disgregazione sociale. Il ricorso all’autoritarismo politico e alla disgregazione sociale diventano così il contrassegno del capitalismo contemporaneo.

* economista marxista indiano, traduzione a cura di www.resistenze.org

 

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