Il concetto di imperialismo è tanto centrale quanto ancora oggi deformato nella lettura e nella visione della maggioranza dei gruppi di sinistra, spesso anche comunisti. Ed è un problema che va avanti da tempo, almeno dai tempi della polemica di Lenin con Kautsky, che con la fine dell’URSS ha avuto nuova linfa. In tutta una parte della sinistra il concetto di imperialismo non viene neanche nominato in quanto obsoleto. La parte migliore, che ne parla, lo riduce ad una “politica” sinonimo sostanzialmente di aggressione militare. Questa lettura, simile a quella che ne dava per l’appunto Kautsky, tende continuamente a riproporsi. Il punto è che l’imperialismo è un’altra cosa e se solo ci soffermassimo un attimo a capirne la natura, si comprenderebbe immediatamente anche l’ottica di analisi da cui i comunisti devono partire per indagare gli accadimenti di oggi. Intanto l’imperialismo non è riducibila ad una “politica”, ma è una determinata fase, quella attuale per l’appunto, del capitalismo. Questa fase è contraddistinta dalla fusione del capitale finanziario con quello industriale, processo trova la sua spiegazione nei processi economici di sviluppo capitalistico, che spinge alla costituzione di grandi monopoli che soppiantano la struttura economica tipica della fase del libero commercio. L’impatto di questi monopoli sulla vita degli stati diviene tale da condizionarne e orientarne la politica tanto a livello interno, quanto esterno. Con il sorgere di trust internazionali, sorgono anche le grandi alleanze tra stati, legate ad accordi di natura economica, finanziaria e militare. Non ha quindi molto senso discutere semplicemente in termini di “politica” imperialista, finendo inevitabilmente per ridurre il termine imperialista a un sinonimo di “politica aggressiva sul piano militare”. Tutti i paesi nei quali la struttura economica è dominata da grandi monopoli e dalle oligarchie finanziarie che ne detengono la proprietà, svolgono una politica imperialista, sia essa più o meno caratterizzata per la sua azione militare. E non potrebbero fare altrimenti. Non ha alcun significato un cambio di governo, di coalizione, di schieramento internamente ad un paese imperialista: potranno tutt’al più cambiare alcuni dei metodi di portare avanti le “politiche imperialiste”, ma non la natura imperialista e il fine di quelle politiche. Se il colonialismo era stato caratterizzato dall’espansione territoriale sul piano prettamente agricolo/estrattivo, tipico di una fase iniziale del capitalismo, la fase imperialista si caratterizza per la conquista di mercati e per il massiccio ricorso all’esportazione di capitali. La politica degli stati, orientata dalle esigenze dei grandi monopoli, assume una complessità di gran lunga maggiore rispetto a quella del colonialismo.
La situazione che troviamo oggi di fronte a noi è divisa tra centri imperialisti consolidati (USA, UE, Giappone) e nuovi centri emergenti BRICS. Questi ultimi paesi sono dal punto di vista militare ancora largamente inferiori agli USA, che possono vantare – come Putin ha affermato ieri sul Corriere della Sera – una percentuale di spesa sul PIL per le spese militari superiore alla somma dei successivi dieci paesi. Già sotto il profilo economico la situazione è differente. Se nel 2000 il PIL dei BRICS era pari al 17% dei Paesi del G7, si stima che entro due anni la quota G7 sarà raggiunta e superata. La Cina è dal 2014 la prima economia mondiale e nello stesso anno l’India ha superato Giappone e Germania piazzandosi al terzo posto. La contrapposizione tra i due blocchi è emersa con assoluta chiarezza con la creazione della banca di sviluppo promossa dai BRICS, banca che si muove sulle stesse premesse economiche del FMI e della Banca Mondiale, ma che propone una differente linea politica in quanto funzionale strutturalmente oggi ai BRICS. Tutto questo va messo in luce anche con l’alleanza politico-militare, che prende il nome di Accordo di Shangai e che vede Russia, Cina alleate con altri paesi asiatici e europei, e con la presenza di India e Pakistan come osservatori. I BRICS, non senza contraddizioni interne, sono oggi il polo alternativo ai centri imperialistici consolidati. Ma questo polo alternativo si muove nella stessa direzione economica di quelli tradizionali; le sue regole economiche sono le stesse dei paesi occidentali, le economie (fatta momentaneamente eccezione per la Cina) sono economie capitalistiche conclamate, caratterizzate da un forte peso dei principali monopoli nazionali, e internazionali, nell’economia nazionale. Tempo fa un articolo di Senza Tregua aveva messo in luce proprio le caratteristiche della struttura economica monopolistica in Russia. Si scriveva allora: «L’economia russa è altamente concentrata, in molti settori il livello è più elevato che negli USA e nella Germania. Ad esempio, la proporzione dei 10 più grandi monopoli sul PIL della Russia nel 2006 era del 28.9%, negli USA del 14.1%. La maggior parte dei settori dell’economia, l’energia, ingegneria meccanica, trasporti, produzione alimentare è altamente monopolizzata.» (vedi https://www.senzatregua.it/?p=1355) L’idea di assegnare alla Russia un ruolo intermedio sul piano imperialista, confonde il merito con il suo valore effettivo in termini di potenza. Non tutti gli stati imperialisti sono uguali e certamente la Russia non è neanche lontanamente al livello degli USA, sia per quanto riguarda l’economia, sia il lato militare. Ma questo non muta il carattere imperialista della Russia, e non sarà il rifugio in espressioni come “stato capitalista reazionario” a salvarci. Simili espressioni possono andare bene per stati la cui struttura economica non è ancorata ad un carattere monopolistico, ma non certo per la Russia e per i BRICS.
La stessa Cina che mantiene un carattere socialista a livello formale, ha da tempo un processo di revisione economica in corso. Questo processo se a livello interno potrebbe essere in parte giustificato, anche se nelle dimensioni attuali difficilmente, trova un insormontabile ostacolo nell’esportazione di capitali cinesi. A livello interno l’idea della grande NEP non convince, i rapporti capitalistici acquistano sempre maggiore spazio, si crea nella società cinese una stratificazione sociale evidente, ma qualcuno potrebbe anche continuare a sostenere che sia una tappa del socialismo in Cina. Ciò che risulta davvero difficile giustificare è l’azione economica internazionale della Cina e dei suoi monopoli (in gran parte misti stato/privati) con l’acquisto di aziende sparse per il mondo, e il livello di prestiti concessi dalle banche cinesi (anche questa è esportazione di capitali). Senza entrare in questa sede nel merito dell’economia cinese a livello interno, su cui si esprimono comunque fortissime perplessità, è evidente che esternamente la Cina agisce come un qualsiasi paese capitalista, nulla a che vedere con quello che l’URSS faceva, e nessuno provi a sostenere questa tesi. “L’alternativa” che i BRICS presentano allora non è neanche lontanamente concepibile come alternativa di sistema, ma come lotta tutta interna alle logiche capitalistiche, che si muove sullo stesso identico terreno di USA, UE e Giappone. Poiché la base economica di questi paesi, tanto quanto quelli occidentali è dominata dalla struttura di grandi monopoli, poiché l’esportazione di capitali è prevalente, piaccia o no, a meno che non ci si limiti alla definizione data da kautsky, la definizione di imperialismo calza a pennello. Affermare dunque che la “rottura del mondo unipolare a egemonia occidentale” è il presupposto per la “fine delle politiche imperialiste in giro per il mondo” e per contrastare “l’espansione del neoliberismo quale unica forma di sviluppo possibile”, come anche tra alcuni comunisti si finisce per fare, è semplicemente un non senso. Oggi abbiamo il mondo multipolare, ma le regole dei vari poli sono le stesse, quindi l’egemonia capitalistica non è lontanamente messa in discussione e con essa l’imperialismo. Dall’India al Brasile, alla Russia fioriscono politiche di stampo neoliberista sul cui senso vale la pena leggere questo articolo https://www.senzatregua.it/?p=1999 La posta in palio, il terreno della contesa, sono mercati, il mezzo attraverso cui ottenere il controllo varia sulla base delle caratteristiche attuali dei paesi e dei blocchi. Su questo è bene ragionare.
Appurato che non è in discussione la natura imperialistica degli interessi in gioco. La questione della maggiore o minore aggressività sul piano militare ha un senso a partire proprio dalla condizione diversa di questi blocchi. Da una parte vi sono economie emergenti che conquistano rapidamente posizioni di mercato, dall’altra i centri imperialistici tradizionali oggi in crisi. La politica militare aggressiva degli USA e della UE, il riarmo del Giappone, sono segnali di questa necessità di compensare con il lato militare ciò che dal punto di vista economico, risulta in parte compromesso. Su questo ragionamento è chiaro che va distinta con nettezza la posizione dell’aggressore e dell’aggredito, ma questo non trasforma automaticamente l’aggredito in quello che non è. Tutto qui e non è certo poco. In Ucraina l’aggressione proviene da USA e UE, che si macchiano di crimini di ogni tipo pur di sottrarre l’Ucraina dall’influenza russa. Lo fanno con la complicità di parte della sinistra europea che nella migliore tradizione socialdemocratica si schiera apertamente a difesa delle proprie borghesie nazionali, e questo va rimarcato con forza. Ma sostenere come fanno altri “la legittimità degli interessi russi a difesa delle sue zone di libero scambio” è possibile in un’ottica squisitamente capitalistica, di specularità intrinseca alle logiche capitalistiche. Nel senso insomma di dire: “per quale motivo le regole che valgono per voi non dovrebbero valere anche per loro?” “perché volete farci passare la logica dei due pesi e delle due misure, che copre i vostri interessi, come regola di giustizia universale?” E questo vale per tutte quelle affermazioni su Putin dittatore, sui diritti civili, e così via che si può e si deve smascherare, ma non per esaltazione di Putin, quanto per lotta contro l’ideologia occidentale che è la migliore maschera degli interessi imperialistici di USA e UE e dunque delle nostre borghesie nazionali. Tutto qui. Perché se si va oltre, ossia se si comincia ad assumere come regola generale e universale la “legittimità degli interessi della Russia a difesa delle sue zone di libero scambio” per la stessa ragione si dovrà sostenere analoga legittimità degli interessi degli USA o della UE nelle rispettive zone di libero scambio in termini universali, e dunque si finisce per giustificare gli interessi che sono alla base dell’oppressione, e la teoria del Sud America come cortile di casa degli USA. Oppure si scade in un cieco antiamericanismo derivato da più o meno valide ragioni culturali e politiche più che economiche. Basterebbe ricordare infatti che gli USA erano una colonia sottoposta al dominio inglese (lo scrive anche Marx nel Capitale). Da simbolo della lotta contro l’oppressione coloniale si sono convertiti nella più grande economica capitalistica e nella maggiore potenza imperialista del pianeta riducendo ad un peso di certo inferiore la loro madrepatria originaria, che è stato il più vasto impero della storia. Questo processo che ha riguardato la crisi della più grande potenza capitalistica e colonialista del momento ha forse significato la fine del capitale e dell’imperialismo? La storia ha evidenziato l’esatto contrario. E perché dovrebbe accadere l’opposto oggi?
La prima guerra mondiale fu accompagnata dal cedimento del movimento operaio, che finì per essere posto alla coda degli interessi delle borghesie in guerra. Questo cedimento avvenne nel momento in cui nel reparto d’avanguardia della classe operaia europea, la socialdemocrazia, e sentitamente quella tedesca, prevalse una politica opportunista e sciovinista. Si perse l’ottica fondamentale di classe nel valutare il corso degli eventi, e nel mantenere prima di tutto la visione autonoma del proletariato di fronte allo scontro in atto. L’idea della nazionalità, della risposta all’aggressione e varie motivazioni furono gli argomenti più forti. Questa visione opportunista e sciovinista è presente oggi largamente nella sinistra europea e in alcuni partiti comunisti. C’è poi un’altra visione di minoranza, che però si diffonde nelle linee comuniste, quelle finire a identificarsi nel blocco imperialista avversario. È un problema meno preoccupante in termini immediati, anche perché il primo nemico è sempre e comunque il proprio oppressore. Tuttavia quando la questione da un lato meramente tattico si converte in una prospettiva strategica, si finisce per superare quel limite stretto e difficile, che solo con i fatti si può dimostrare fino in fondo di saper mantenere, che va dall’utilizzare a proprio vantaggio le contraddizioni interimperialistiche, a mettersi al servizio di uno dei blocchi in lotta. Questa nuova visione confonde lo smascherare le falsità della propaganda di un blocco, con l’aderire incondizionatamente alla versione dell’altro, finendo per giustificarlo non solo su un piano meramente esterno, da osservatori di una dinamica altra, ma come giustificazione in senso assoluto. Il discorso non viene quindi limitato ad una linearità di ragionamento date le regole capitalistiche nel quale si muove una determinato processo, processo che ci consente di smascherare quelle falsità che sono funzionali proprio al conflitto ma lo si presume corretto in senso assoluto. Nascono così una serie di fraintendimenti sul presunto ruolo antimperialista di stati imperialisti, solo in quanto in lotta con altrettanti stati imperialisti, che chiaramente possono essere più o meno economicamente, militarmente e politicamente forti, ma che basano questa loro lotta sugli stessi principi, sulle stesse ragioni, sugli stessi, opposti, interessi di fondo. Si finisce così per “auspicare la reazione” di uno dei poli per mettere freno all’altro, e quello che viene a mancare è il punto di vista autonomo del proletariato anche nei suoi reparti d’avanguardia.
La questione però non si pone molto diversamente dal tempo in cui scriveva Lenin: «Per l’operaio salariato è indifferente che il suo principale sfruttatore sia la borghesia russa invece di quella allogena, o la borghesia polacca invece di quella ebraica ecc. l’operaio salariato, cosciente degli interessi della propria classe è indifferente sia ai privilegi statali dei capitalisti russi sia alle promesse dei capitalisti polacchi o ucraini di istaurare il paradiso in terra, quando avranno conquistato i privilegi statali…l’operaio salariato rimarrà in tutti i casi un oggetto di sfruttamento e per lottare con successo contro questo sfruttamento, il proletariato deve essere esente dal nazionalismo, deve essere per così dire assolutamente neutrale nella lotta della borghesia delle diverse nazioni per la supremazia.»
In molte delle analisi si finisce per confondere momenti e situazioni differenti. Il passaggio di uno dei paesi europei al campo dei BRICS, cosa che potrebbe accadere nel caso della Grecia, avrà un contraccolpo sulla stabilità dell’asse imperialistico USA-UE in questo generando un fenomeno positivo, ma sostituirà per i Greci un campo con un altro di un’eguale natura, e quindi non comporterà alcun cambiamento reale per loro. A guadagnare dai prestiti saranno sempre i capitalisti greci, vecchi e nuovi, le regole economiche resteranno le stesse, come dimostrano chiaramente le varie società russe, cinesi che acquistano società europee, licenziano parte dei lavoratori, aumentano i ritmi produttivi nelle aziende, in misura non minore di quello che fanno compagnie tedesche, italiane, statunitensi o greche. Non c’è nessun vantaggio nello schierarsi con un campo quando il sistema economico permane lo stesso.
Il Donbass è un esempio chiaro. L’attacco USA-UE produce una reazione nella popolazione e il sostegno della Russia che protegge i suoi interessi. Ma le aspirazioni delle popolazioni del Donbass e i piani russi non sono del tutto coincidenti. Specialmente tra i combattenti avanza l’idea di una lotta che spazzi via tutte le oligarchie, mettendo in discussione anche gli oligarchi russi. Si firma una tregua quando la sorte del conflitto volgeva a favore dei ribelli. Si istaura un dualismo tra istituzioni del Donbass e militari e popolazione in lotta, in cui i primi diventano sempre più espressione delle oligarchie russe, i secondi cercano di opporre una doppia resistenza. Quando alcune personalità emergono in questo senso, accade quello che è successo a Mozgovoj. I settori più avanzaii politicamente dei ribelli svolgono un ruolo antimperialista, la Russia imperialista svolge il suo ruolo di potenza nell’area, cercando di contrastare gli USA e la UE, ma avendo come obiettivo quello di proteggere quei settori oligarchici ai quali interessi è legata.
La questione non può essere quindi meccanicamente intesa nel senso che l’indebolimento dell’imperialismo è il risultato dello scontro in sé e dalla vittoria dell’uno o dell’altro. Appurato che non c’è un campo imperialista ed uno antimperialista, dallo scontro che deriva dai due campi si crea una condizione, nella quale solo attraverso una propria visione autonoma, ed una propria azione politica che abbia portata strategica autonoma, il proletariato potrà sconfiggere l’imperialismo. La presenza di diversi poli apre contraddizioni nel campo imperialista, queste contraddizioni possono e devono essere sfruttate. Ma per vincere c’è bisogno di costituire quel campo autonomo, senza il quale a vincere sarà solo uno dei blocchi in campo e il proletariato finirà per portare ad esso il suo contributo di sangue e sudore, come già avvenuto troppe volte nel passato.