*di Barbara Ambrogio
Un recente articolo del giornale spagnolo “Tinta Roja”, da noi tradotto e pubblicato [https://www.senzatregua.it/?p=1832], poneva l’accento su quanto la discriminazione della donna sia evidente soprattutto nella “scelta” del proprio mestiere, nell’inclinazione verso quei “lavori tipicamente femminili” di cura, educazione, assistenza. Lo sport ne dà una incontestabile conferma: danza, pallavolo, ginnastica, pattinaggio, da brave bambine, il calcio no! Non fa per noi. E a dirlo è proprio il presidente della Lega nazionale dilettanti, Felice Belloli, durante il consiglio del dipartimento calcio femminile del 5 Marzo: i finanziamenti non bastano per tutti e dunque “basta dare soldi a queste quattro lesbiche!”.
Una affermazione gravissima, sebbene negata, nonostante il verbale e cinque testimoni, che è costata a Belloli la sollevazione dall’incarico di presidente e ha fatto schiarire la voce alle calciatrici e a sportive italiane. Citando il comunicato stampa della squadra femminile del Palermo, “si è messa in moto una macchina immensa per cui non ci resta che ringraziarlo, al nostro caro (SPERIAMO EX) Presidente Belloli, nessuno era mai riuscito a farci scendere in piazza ed ad unirci così tanto per cui grazie di cuore”. E infatti il 30 Maggio in tutta Italia le calciatrici sono scese in piazza, con le proprie società, obbiettando non solo le indecenti affermazioni dell’ex presidente, ma anche la presenza del calcio femminile nella sola lega dilettanti, non in quella professionistica, al pari di quella maschile.
Richiesta eccessiva questa. Il calcio femminile fa meno audience di quello maschile, perché investirci? Sono alte le pretese della calciatrici, là dove il calcio è diventato da sport popolare, portatore di una etica sportiva oltre che di forti contenuti politici, grazie alle tifoserie, a uno dei preferiti strumenti di guadagno e di speculazione, schiavo del capitale, oltre che strumento, tramite il DASPO, di repressione e controllo. Il calcio ad oggi segue le regole dettate dai padroni, delle società e delle federazioni e di queste ne porta i valori.
Ciò nonostante, il calcio femminile, come il maschile, deve la sua nascita alla classe operaia, in particolare la prima squadra di calcio femminile risale a poco prima della grande guerra, per vedere, dopo lo scoppio di questa, un decisivo sviluppo: le operaie inglesi della Dick, Kerr & Co., si allenavano nel cortile durante le pause pranzo e, negli anni di assenza degli uomini dalle fabbriche, hanno bene intrattenuto il pubblico calcistico. Tornati in patria i mariti, tutte a casa! E il calcio femminile ha ricevuto una forte battuta d’arresto. La ripresa -se di ripresa si può parlare- e maggiore diffusione si ha nel secondo dopoguerra, anche in Italia, a Trieste nasce nel ’47 la prima squadra di calciatrici (è da precisare la difficoltà nel trovare chiare e abbondanti notizie storiche). Da allora, le squadre di calcio femminili sono comunque rimaste una minoranza, le calciatrici sono considerate mascoline (secondo quale canone poi?!), e perfino tra le palestre popolari si tratta di casi realmente singolari, laddove invece quelle maschili sono numerose e funzionano bene. A testimonianza, questo, di quanto sia radicato – purtroppo anche tra gli ambienti dello sport popolare- il pensiero che vi siano sport dedicati all’uno o all’altro sesso, che la passione verso il calcio (come anche ad esempio verso il rugby, il pugilato, il basket) è più naturale da un uomo che da una donna.
Il calcio è oggi uno degli sport più seguiti e praticati, uno sport popolare che nulla ha di marcio e disdicevole se non chi lo comanda e gestisce, se non i miliardi di calcio-scommesse, di profitti fatti sulla sua strumentalizzazione, aggiogandolo a un sistema malato e corrotto per sua natura. Le calciatrici si augurano di rispondere direttamente alla FIGC, ma sarebbe risolutivo? Porterebbe realmente il calcio femminile ad avere maggiore rispetto, ancora prima che un pubblico più numeroso? Finché non tornerà a essere uno sport popolare, fuori dalle logiche del capitale, finché le società saranno gestite dagli impresari di turno cui non bastano i propri milioni, non solo il calcio femminile non avrà credito, perché non sufficientemente fruttuoso, ma il calcio in toto non sarà mai portatore di quello spirito sportivo da cui è nato, gioco di squadra e condivisione. Riappropriarsi dello sport e farne il proprio baluardo nella educazione dei più giovani alla politica è un compito che spetta a noi comunisti e alle classi popolari. Finché rimarrà un business il calcio non sarà altro che una piazza affari, e le calciatrici, sono quelle che più ne risentono e che per prime dovrebbero lanciare un appello per la realizzazione di alternative alle attuali società calcistiche, e riempire nuovamente gli stadi di contenuti, quali giustizia e lotta di classe!