di Alessio Angelucci e Enrico Bilardo
Arrestati, indagati, inquisiti, corrotti, collusi. Sembra si stia parlando di un clan mafioso, in realtà si parla del PD Romano, che ieri ha messo in scena l’ennesima pagliacciata inneggiante alla legalità e all’antimafia sotto la chiesa di Don Bosco a Roma. Sembra improbabile che il partito delle intercettazioni di Buzzi, del municipio di Ostia sciolto per mafia e di una giunta comunale ormai sostanzialmente commissariata dall’avvento del prefetto Gabrielli, abbia il coraggio di richiamare alla legalità la città. Eppure nel teatrino borghese della lotta alla mafia e alla corruzione trovano spazio proprio tutti, anche quelli che fino a prova contraria contano tra le proprie fila la metà degli indagati per mafia capitale.
Ed ecco che in un attimo la macchina mediatica costruita attorno al principale partito degli interessi della borghesia cerca di far dimenticare persino le immagini delle cene tra Alemanno, Poletti (Ministro del Lavoro) ed un esponente della famiglia Casamonica, oppure i “favori” di Pedetti (anche lui manco a dirlo PD) a Buzzi per fargli fare qualche soldo sul business dell’emergenza abitativa, garantendogli la bellezza di 14 appartamenti a poco più di un milione e mezzo. Come se non bastasse l’apparato mediatico costruito ad hoc per riabilitare l’inqualificabile PD Romano, si aggiungono poi, alla schiera di chi tesse le lodi della “legalità e dell’antimafiacapitale” targata PD, le forze della “sinistra” studentesca (UDS e Rete degli studenti), che, sfruttando opportunisticamente la figura del militante comunista Peppino Impastato, aderiscono alla farsa di piazza Don Bosco e dimostrano per l’ennesima volta la loro subalternità al partito di governo, lo stesso partito che danneggia le classi popolari colpendo i lavoratori e gli studenti.
Ma noi comunisti non dimentichiamo tanto in fretta gli scempi commessi dal Partito Democratico e la sua collusione con gli interessi mafiosi, che, se non fosse stato per l’intervento della magistratura, i dirigenti avrebbero lasciato ben nascosta. Sappiamo benissimo che il richiamo alla legalità da parte del PD e di tutte le forze di matrice borghese si traduce in una dichiarazione di facciata. L’appello dei partiti borghesi contro la mafia è un appello interclassista per il legalitarismo, e quindi per l’eliminazione del fenomeno mafioso in quanto illegale e dannoso per lo Stato. Stride però questa ricerca esasperata della legalità, soprattutto se vista in relazione al rapporto simbiotico tra l’ordinamento statale borghese e le più disparate organizzazioni criminali nel corso degli anni.
A partire dai soldati di Crispi, che al fianco dei mafiosi, sparavano, in difesa dei latifondi e contro i contadini che nel 1893 chiedevano la riforma agraria, fino ad arrivare a questioni più recenti come le tangenti di gruppi criminali a funzionari del comune di Roma, il legame tra stato e criminalità organizzata sembra indissolubile. Tutto questo in nome di cosa? In nome del profitto. E’ proprio la logica del profitto che porta lo stato borghese a fondersi con organizzazioni di stampo criminale, perchè, come giustamente intuì Marx nel Capitale: “Il capitale aborre la mancanza di profitto o il profitto molto esiguo, come la natura aborre il vuoto. Quando c’è un profitto proporzionato, il capitale diventa audace. Garantitegli il dieci per cento, e lo si può impiegare dappertutto; il venti per cento, e diventa vivace; il cinquanta per cento e diventa veramente temerario; per il cento per cento si mette sotto i piedi tutte le leggi umane; dategli il trecento per cento, e non ci sarà nessun crimine che esso non arrischi, anche pena la forca. Se il tumulto e le liti portano profitto, esso incoraggerà l’uno e le altre. Prova: contrabbando e tratta degli schiavi”
Come si può chiedere ad uno Stato che esiste per tutelare gli interessi della borghesia e del capitale, e ai suoi difensori quali sono i partiti borghesi, di compiere una reale lotta alla mafia se poi proprio la mafia si propone come una possibilità di business dai fatturati che si contano in decine di miliardi? I latini dicevano “Pecunia non olet” e il grande capitale di cui lo stato borghese è espressione, non disdegna assolutamente il denaro delle associazioni di stampo mafioso.
La storia ci insegna come la criminalità organizzata, con le sue varie sfaccettature, si sia resa più volte funzionale all’ordinamento capitalistico che, a sua volta, ha sempre perseguito un’opposizione di facciata, senza mai voler davvero eliminare in maniera permanente il problema. Andando oltre i sopracitati funerali, cuore del tumulto mediatico degli ultimi giorni, si possono notare moltissimi altri esempi che palesano il rapporto strettissimo e costante tra istituzioni borghesi e associazioni criminali: partendo dalla trattativa stato-mafia, passando per il fragoroso silenzio in seguito al l’assassinio di Peppino impastato, alla sepoltura di De Pedis nella basilica di santa Apollinare. Molteplici sono e sono stati i momenti di coesistenza indisturbata tra istituzioni e criminalità. A tal proposito non va sottovalutato il ruolo sociale ricoperto dalla mafia all’interno di una società basata sul profitto. L’organizzazione criminale si configura, similmente allo stato borghese, come una struttura che opprime chi si trova in una posizione di inferiorità rispetto a essa. Lo sviluppo delle associazioni mafiose è maggiormente diffuso nelle zone in cui l’ordinamento borghese è più debole, andando a svolgere il ruolo di controllo proprio delle istituzioni. Nelle periferie delle metropoli, così come in parecchi paesi del meridione e non solo , la mafia svolge un ruolo di vera e propria stampella di un sistema che affonda le proprie fondamenta nello stesso principio che le da senso e linfa vitale: la ricerca smodata del profitto. Tutto ciò avviene continuamente, nella quotidianità, sotto i nostri occhi, nel lassismo e nel giustificazionismo più totale. L’opposizione a un certo complesso valoriale viene portata avanti solo attraverso la diffusione di velleità di legalitarismo incondizionato, mirato alla mistificazione di un ordinamento che strutturalmente non può non essere alieno da infiltrazioni e influenze criminali. Il dovere di chi riconosce nel fenomeno mafioso una conseguenza naturale di un sistema, come quello capitalistico, basato sullo sfruttamento, economico e non solo, è evidenziare come contrastare tali dinamiche attraverso delle battaglie puramente legalitarie sia sterile. Non è possibile distruggere l’effetto mantenendo in vita la causa generante. La battaglia alla mafia non può essere scissa da una lotta al complesso sociale e economico che racchiude nella sua essenza il germe che provoca la diffusione di una certa criminalità, totalmente radicata nel tessuto sociale. Per questo i teatrini del PD e degli altri partiti, che conseguono il mantenimento e lo sviluppo di certe logiche sociali e economiche, si riducono a sterile e ipocrita retorica, che va combattuta evidenziando il saldissimo legame esistente tra certe organizzazioni e la stessa struttura su cui si diffondono.
Nessuna cultura legalitaria potrà quindi porre fine agli interessi mafiosi, perchè lo stesso stato borghese, e quindi la sua legge, il suo diritto e la sua morale, funzionali al raggiungimento del profitto con ogni mezzo, configurano la criminalità organizzata come un prodotto perfettamente coerente a quel sistema valoriale votato esclusivamente al profitto. La mafia è solo un’espressione piu “estrema” dell’oppressione di classe che avviene in nome del profitto in maniera del tutto legale nel nostro paese.
Solo la lotta di classe potrà eliminare le mafie, in quanto fenomeno di oppressione di una classe sull’altra. Solo il rifiuto della logica del profitto, e del sistema da essa generata è la strada per la lotta alla criminalità organizzata. Così come Peppino Impastato, non riponiamo alcuna fiducia nelle risposte legalitarie alla mafia, e riteniamo la via rivoluzionaria l’unica percorribile per distruggere questo male che attanaglia la nostra città e il nostro paese.