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L’alternanza scuola-lavoro combatte davvero la disoccupazione giovanile?

di Alessandro Fiorucci*

L’alternanza scuola-lavoro ha assunto negli anni una importanza sempre maggiore all’interno del sistema di istruzione, ma è con l’approvazione della legge 107 (la cosiddetta “Buona Scuola”) che assistiamo ad un sostanziale potenziamento di tali progetti: il programma nel suo complesso si articola in 400 ore per gli istituti tecnici e professionali e 200 per i licei. Per quale motivo il Governo ha spinto così tanto in questa direzione? Lo stesso Presidente del Consiglio definì l’alternanza scuola-lavoro come una “grande occasione” che consentirebbe di frenare e ridurre la disoccupazione giovanile, che attualmente supera quota 44% . Questa considerazione deriva dal presupposto che la disoccupazione sia dovuta ad un gap tra la “domanda” (in termini di capacità richieste) e l’”offerta” del lavoratore, al quale non sarebbero state fornite le competenze adeguate. La responsabilità viene dunque attribuita in primis alla scuola. Tale assunto elude efficacemente quelle che sono le reali cause della disoccupazione, ovvero una generale contrazione del numero di lavoratori nel settore industriale (la quale crea un livello di disoccupazione non assorbibile negli altri settori) le numerose delocalizzazioni , lo sviluppo tecnologico dei macchinari, oltre all’innalzamento dell’età pensionabile (che logicamente frena le assunzioni dei giovani).

Ma tornando all’alternanza, le imprese private potranno “investire” nell’istruzione, fornendo finanziamenti e sviluppando programmi di alternanza ed apprendistato, di fatto otterranno un guadagno non indifferente, risparmiando sulla formazione professionale normalmente svolta internamente all’azienda, e modellando la didattica e la programmazione sulla base delle proprie esigenze. In aggiunta, se la scuola deve creare i futuri operai, tecnici e quadri, tanto vale mettere da parte tutto ciò che non è direttamente funzionale al conseguimento di tale fine. Sostituendo l’istruzione tecnica con la formazione professionale si riduce il livello qualitativo di preparazione fornita al singolo studente. Fa da apripista il caso dell’ENEL: la più grande impresa di energia elettrica italiana ha selezionato alcuni istituti tecnici per progetti pilota di apprendistato, secondo i quali gli studenti verranno assunti con contratti di apprendistato fin dal 4° anno, con successivo impegno dell’ENEL ad assumerli. Siamo proprio sicuri che l’alternanza scuola-lavoro possa in qualche modo incidere riducendo la disoccupazione? Fornendo ai giovani futuri lavoratori competenze estremamente settorializzate, nei fatti li si vincola ad una singola azienda, la quale grazie alle norme introdotte recentemente dal Jobs Act (che rende precari in realtà anche i contratti a tempo indeterminato) con meno difficoltà potrà sbarazzarsi dei dipendenti qualora non fossero più necessari. In un mercato del lavoro estremamente mobile (parola d’ordine: flessibilità!) come quello attuale ciò condiziona decisamente il futuro del lavoratore.

E’ dunque evidente la contraddizione interna allo stesso sistema capitalistico, che non è in grado di fornire un futuro stabile alla gioventù ma che anzi la condanna ad uno sfruttamento sempre maggiore. Un inganno per i futuri lavoratori ed un enorme vantaggio per le imprese, che delegano gran parte della formazione professionale all’istruzione, entrando dirompenti nel mondo della scuola. Non stupisce il fatto che la Confindustria promuova con entusiasmo questi progetti, che ne plauda la rapida realizzazione da parte del Governo Renzi, che ancora una volta si dimostra come perfetta espressione degli interessi padronali. Dietro gli idilliaci quadretti descritti da Renzi ed i suoi ministri, dunque, si cela la realtà, dai tratti ben più drammatici. Per questo possiamo gridare con forza che la “Buona Scuola” è la scuola dei padroni e che i giovani lavoratori non devono aspettarsi nulla di positivo dalle mani di chi li affama.

* Comitato Centrale FGC

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