di Lorenzo Scala*
Il 17 settembre scorso le Nazioni Unite hanno ufficializzato la nomina dell’ambasciatore saudita all’Onu, Faisal bin Hassan Trad, come presidente del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite. Il Consiglio in questione, come suggerisce il suo stesso nome, dovrebbe occuparsi di rilevare casi internazionali di gravi violazioni dei diritti umani per poi sottoporli all’Assemblea Generale dell’Onu. Il fatto che a capo di questo organismo sia stato eletto il rappresentante diplomatico di una monarchia assoluta, teocratica e oscurantista quale l’Arabia Saudita non sembra aver causato particolare sdegno fra le fila dei cosiddetti stati democratici (da identificarsi ovviamente con gli Stati Uniti e l’Unione Europea) , nonostante l’opinione pubblica sia stata abituata, negli ultimi venticinque anni, a vedere in questa “comunità internazionale” il più grande baluardo dei diritti umani e della democrazia in tutto il mondo. Non è comunque difficile capire il perché del silenzio da parte del mondo “libero” capitalistico: l’Arabia Saudita, gioiello delle petro-monarchie del Golfo, da decenni dipende dalla rendita esterna per l’esportazione di petrolio in Occidente e da altrettanto tempo è, assieme a Israele, uno degli avamposti più importanti dell’imperialismo statunitense in Medio Oriente. Le relazioni fra Washington e Riyad si sono intensificate negli anni ’70, in particolar modo dopo la crisi petrolifera del 1973, e già l’amministrazione Nixon iniziò a aumentare le forniture di armi e consiglieri militari statunitensi all’Arabia Saudita, la quale si impegnò a sua volta a mantenere il prezzo del greggio favorevole agli interessi della Casa Bianca e ad influenzare in tal senso anche gli altri membri dell’Opec. I reali sauditi accettarono di buon grado l’alleanza con gli “infedeli” occidentali in quanto essa avrebbe permesso loro di ottenere, in qualsiasi situazione, protezione e predominanza militare nei confronti dei propri vicini nella regione. Non a caso fu proprio l’Arabia Saudita la prima ad invocare l’aiuto militare nordamericano nel 1991, in occasione dell’attacco iracheno al Kuwait, un’altra monarchia repressiva e filoccidentale della penisola arabica. Da parte loro, gli Stati Uniti hanno sempre sopportato molto volentieri le sparute critiche interne e comunque non governative a questa loro amicizia con la dinastia Saud e non si sono mai fatti troppi scrupoli nel supportare economicamente, politicamente e militarmente un paese per molti aspetti retrogrado e invivibile, nel quale partiti e sindacati sono strettamente proibiti e manca una vera e propria costituzione, con una legge fondamentalista e misogina basata sull’interpretazione salafita dell’Islam.
Sono recentissime le notizie riguardanti Ali an-Nimr, giovane saudita condannato alla decapitazione e crocifissione per aver mostrato supporto politico ad un imam sciita reo di aver criticato il credo wahhabita della dinastia reale, al quale la società saudita intera deve necessariamente aderire per poter vivere senza il rischio di arresto o pena capitale. Abbiamo sentito anche di Raif Badawi, un blogger saudita che dovrà scontare dieci anni di galera subendo regolarmente torture e umiliazioni: già qualche mese fa è stato pubblicamente frustato dalle autorità di polizia. Proprio questa settimana il mondo ha invece assistito alla morte di diverse centinaia di fedeli musulmani, recatisi in pellegrinaggio alla Mecca e rimasti uccisi nella calca. Peccato che i quotidiani occidentali non abbiano riportato, almeno per dovere di cronaca, delle indiscrezioni non confermate e trapelate sulla stampa libanese e iraniana: il principe ereditario saudita, Mohammad bin Salman, avrebbe bloccato per sé e la sua scorta due delle tre corsie disponibili al transito, volendosi godere un pellegrinaggio privato e causando così la tragedia. Al Congresso di Washington non importa minimamente di queste assurde violazioni della dignità di umana, né ha mai contestato il fatto che l’Arabia Saudita sia ancora oggi uno degli stati che maggiormente finanziano il fondamentalismo e il terrorismo di matrice islamica. Dal 2011 Obama ha anzi particolarmente apprezzato l’abilità saudita di destabilizzare, attraverso movimenti estremisti ben addestrati e armati, i governi arabi laici e non allineati alle politiche statunitensi e israeliane. I miliziani che con l’appoggio aereo della Nato hanno devastato la Libia provenivano in larga parte dall’Arabia Saudita.
Anche il caso della Siria, paese che negli ultimi quattro anni ha conosciuto sofferenze inenarrabili e si è visto devastare da una guerra civile, è emblematico: oramai è quasi impossibile negare il ruolo che hanno avuto paesi quali Arabia Saudita, Qatar e Turchia nella preparazione di un simile bagno di sangue. Non paga di essere una delle principali cause della nascita e dell’espansione dell’Isis, al principio di quest’anno Riyad ha formato una “coalizione internazionale” incaricata di bombardare lo Yemen, nel quale ha preso il potere un esercito ribelle sciita e quindi potenziale alleato dell’Iran. Le vittime di quest’aggressione arbitraria, messa in atto con lo scontato beneplacito statunitense, sono già state centinaia su centinaia, e le maggiori agenzie di stampa occidentali coprono gli spregiudicati crimini di guerra della coalizione (si parla di bombe a grappolo e armi al fosforo) arrivando quasi a negare che nello Yemen si stia effettivamente combattendo una guerra. Il “nostro alleato” saudita non fa notizia nemmeno quando tratta i diversi milioni di immigrati (molti dei quali palestinesi) che lavorano a Riyad in condizioni disumane, approfittando del fatto che essi non godano della cittadinanza per assicurarsi una manodopera a basso costo e in uno stato di semi-schiavitù. Sembra quasi scontato dire come la stessa cittadinanza saudita non abbia mai potuto effettivamente beneficiare della ricchezza della propria terra e della strabiliante modernizzazione voluta dei propri regnanti: i guadagni per il commercio del petrolio vengono anche oggi distribuiti quasi esclusivamente alla famiglia reale e alla burocrazia statale facente capo proprio ai Saud. Ai cittadini sauditi vengono fatte concessioni materiali irrisorie atte compensare la loro mancanza di diritti politici e di associazione.
La doppiezza morale dell’Occidente nel tollerare tali nefandezze messe in pratica dai propri alleati si mostra per quel che è anche nelle critiche parziali, pretestuose e ipocrite che vengono mosse ogni giorno contro i paesi socialisti tuttora esistenti quali Cuba o la Corea Popolare. Quando il succitato Consiglio per i diritti umani della Nazioni Unite è stato fondato nel 2006, i paesi dell’America Latina hanno eletto come proprio rappresentante nell’organismo proprio Cuba, a dimostrazione del rispetto politico che la rivoluzione castrista gode da parte dei propri vicini. Da parte degli Stati Uniti vi furono proteste ufficiali su questa decisione e si mise addirittura in dubbio la credibilità della struttura per via dell’adesione cubana. Anche in occasione della recente riapertura diplomatica fra Cuba e Stati Uniti, Obama ha affermato che: “la strada di Cuba verso i diritti umani e la democrazia è ancora lunga”. Le stesse Nazioni Unite, che spesso hanno o appoggiato le violazioni imperialiste del diritto internazionale o chiuso gli occhi davanti a esse, hanno istituito l’anno scorso una commissione di inchiesta per i diritti umani nella Corea Popolare, fabbricando un fascicolo di quattrocento pagine nelle quali, basandosi su testimonianze di “anonimi”, si accusava il Partito del Lavoro di Corea di gestire un vero e proprio stato di polizia, uno dei più brutali della storia. Si è anche registrata l’assurda proposta di deferire al Tribunale Penale Internazionale i dirigenti coreani. Questa mancanza di morale può certamente rendere perplessi e indignati, ma a mente lucida bisogna ricordarsi che essa è paradigmatica del capitalismo ed è insita in esso: la dittatura del capitale non si schiererà mai con chi intende abolire lo stato di cose presenti, come Cuba, la Corea Popolare o il Venezuela. Per i propri interessi, essa difenderà sempre e comunque ogni tipo di oppressore, sia esso un wahhbita, un colono israeliano o un nazista ucraino.
*commissione internazionale FGC