C’è forse un elemento chiave della storia del PCI in cui Ingrao è protagonista, insieme ad un parte rilevante della generazione dei dirigenti comunisti dell’epoca. E’ la sostanziale incapacità dialettica di ricondurre ad una coerente e moderna teoria marxista-leninista – che cioè analizzasse sotto questa lente le novità storiche intercorse – il dibattito e la critica che si sviluppa nel PCI, e in generale in una parte rilevante del movimento comunista internazionale, specialmente europeo in quegli anni. La critica allo scivolamento del PCI su posizioni socialdemocratiche e riformiste non viene compiuta in questo senso, ma nell’opposta critica al centralismo democratico, al ruolo e alla funzione del partito. A una socialdemocrazia della “destra”, concreta e pragmatica, tipicamente riformista, e in ottica storica vincente, finisce per opporsi una socialdemocrazia della “sinistra”, più movimentista, eclettica e idealista, inconcludente e perdente, ma fondamentale per far detonare ogni possibile alternativa in chiave comunista. Quello che mancò, o meglio risultò estremamente minoritario, fu proprio il punto di vista comunista in questo scontro. Per i marxisti non è paradossale che negli opposti possa esistere una sostanziale unità: è quello che avviene tra le visioni della destra e della sinistra del partito, che partendo da posizioni opposte finiscono per diventare complementari nel processo di distruzione del PCI. E una prova può essere forse l’idea che a chiudere la storia del PCI sia stato proprio l’idealista Occhetto che in gioventù era annoverato nelle file degli ingraiani, salvo poi essere spazzato via dalla concretezza dalemiana, a sua volta falcidiato da quella democristiana.
In tutti i paesi dove sono accaduti fenomeni simili oggi i partiti comunisti sono stati distrutti o costretti di fatto ad esercitare una funzione residuale, o sciogliersi in più vaste organizzazioni di sinistra. Quei partiti che al contrario sono riusciti in questa impresa, come i comunisti portoghesi sotto la direzione di Cunhal e i compagni greci, oggi seppure nelle difficoltà generali che attraverso il movimento comunista internazionale, sono forze stabili e radicate nella classe operaia dei rispettivi paesi. Questo non è accaduto nel PCI, comportando tra l’altro la frattura che non è solo generazionale, ma politica, degli anni ‘70. Allora la gran parte della gioventù proletaria si ritrovò priva di adeguata direzione politica e di prospettive nei movimenti dell’estrema sinistra, mentre il PCI scelse un’altra strada, altri riferimenti giovanili e di classe. E questo è accaduto successivamente anche nel progetto della rifondazione comunista nel 1991, che mancò il suo appuntamento con la storia.
Nel dibattito interno al PCI, alla estrema concretezza delle posizioni socialdemocratiche interne, gli ingraiani oppongono una sorta di rifugio ideale, ma privo di qualsiasi prospettiva pratica in termini politici e organizzativi. Alla lotta per trasformare il PCI in un partito socialdemocratico oppongono un mare di parole e il sostanziale disarmo della base del partito. In questo senso penso sia giusta l’analisi che a caldo ha fatto Fabrizio Rondolino sull’Unità, ovviamente dalle posizioni di chi la svolta l’ha compiuta con coscienza e oggi ne rivendica la vittoria. L’ingraismo come “forma più raffinata di rinuncia alla politica” come “fuga in avanti intellettuale e sentimentale…un’appartenenza misurata ogni volta non su ciò che si deve fare, ma sul dissenso da ciò che non s’è fatto. Il successo e il fallimento dell’ingraismo sono, quasi misticamente, un’unica e medesima cosa…” Ancora una volta la concretezza dell’errore strategico, contro la vaghezza ideale, inconcludente e speculare dell’opposizione.
D’altronde quel dubbio tanto lodato oggi, che diventa protagonista in Ingrao non è il dubbio critico, pratico e costruttore, ma il dubbio rifugio ideale e in sostanza inconcludente. Ingrao fa parte della seconda categoria a cui si rivolge Brecht nella sua “Lode del dubbio”. Ricordate? “Con coloro che non riflettono e mai dubitano si incontrano coloro che riflettono e mai agiscono. Non dubitano per giungere alla decisione, bensì per schivare la decisione…. La loro attività preferita consiste nell’oscillare. Il loro motto preferito l’istruttoria continua.”
Ingrao fa questo rispetto ai due appuntamenti fondamentali della storia comunista: il XX congresso del PCUS e i fatti successivi, e il 1989 e la caduta del muro di Berlino e del socialismo in URSS. In entrambi questi passaggi storici il dubbio si converte- come nella visione di Brecht – in “disperazione” e diventa materia essenziale nella distruzione del fine e dell’organizzazione comunista. La critica allo “stalinismo”, del ruolo dell’URSS in cui la sinistra ingraiana supera di gran lunga anche la destra del partito per veemenza e profondità dell’attacco, e poi lo smarrimento enorme di fronte al 1989, e la crisi totale di prospettiva in cui si finisce a “sognare la Luna” e non più il socialismo. Il comunismo diventa orizzonte lontano, quasi irraggiungibile, mitizzato e ridotto ad un’utopia, per questo in ultima istanza non realizzabile, ma bella da sognare. I conti con la storia del socialismo reale non si fanno nei giusti termini di una lettura storica, nelle sue vittorie e certamente anche nei suoi errori, ma come rifiuto del concreto, inevitabilmente compromesso da una realtà che macchia gli ideali puri, degli uomini puri. Quando la natura del comunismo professato si riduce nell’orizzonte dell’idealismo diventa, per la sua inconcludenza, un potente alleato del potere costituito; non solo non abolisce lo stato di cose presente, ma lo protegge, perché diviene inoffensivo. E così accade nella scelta di campo che viene condotta nel 1991.
Sergio Ricaldone, per anni dirigente del PCI e poi nell’allora corrente dell’Ernesto del PRC scrisse: «Pur non avendo mai smesso di parlarci di masse, di operai… preferì, ancora una volta, recitare la parte del libero pensatore offrendosi unicamente – come fanno i grandi predicatori domenicali – alle riflessioni collettive di quanti (dubbiosi e non) hanno continuato ad interrogarsi sul significato da attribuire alla parola “comunismo”. Salvo poi lasciare ad altri il compito di costruire il soggetto politico in grado di organizzare nei faticosi giorni feriali la grande massa dei salariati, dei precari, dei cassaintegrati, dei licenziati, dei pensionati al minimo.»
Per quanti non lo sanno nell’ultimo congresso del PCI Ingrao propose una mozione contro lo scioglimento del partito, ma poi aderì al Pds con una delle sue più celebri espressioni, decidendo di “rimanere nel gorgo” e lasciando in sostanza soli i cossuttiani. Quanto pesò la scelta di Ingrao? Quanta parte della base del PCI lo seguì in questa scelta? Quali sarebbero state le conseguenze pratiche di una scelta differente? Difficile dirlo, ma una cosa è certa: anche in questo caso il dubbio fece mancare il momento storico della scelta. Salvo ovviamente poi pentirsene e ritornare a dubitare. Ingrao a quel punto diviene riferimento di una vasta schiera di pensatori di sinistra e soggetti politici in cerca di approdi diversi da quelli del marxismo-leninismo, di strane coniugazioni politiche. Oggi trova gli applausi di chi lo ha combattuto che lo ringrazia della generale inconcludenza e la eleva a merito storico, e di chi sinceramente ha condiviso la sua prospettiva, come accade in quella sinistra in cera di autore e di speranza che oggi si ritrova sulle posizioni della Sinsitra Europea e di Tsipras. Non dimentichiamoci che i figli di Ingrao sono oggi i Vendola, i Ferrero e i dirigenti della sinistra italiana. I giovani comunisti – organizzazione giovanile di Rifondazione – intitolano la loro conferenza nazionale “vogliamo la luna” a riprova di un orizzonte politico oggi assolutamente nullo e inconcludente di questa sinistra.
Cosa fare di Ingrao? Dargli il rispetto che merita una figura politica che non è certo un Napolitano o uno dei tanti ex PCI che porta sulle spalle il peso del servizio reso in questi anni dalla borghesia. Ma fare dell’ingraismo un elemento di riflessione storica, al pari delle molte esperienze di sconfitta e teorie perdenti del movimento operaio, buone cioè non a dare esempi, ma a evitare che gli errori della storia si ripetano. Per costruire in Italia un partito comunista è necessario compiere quell’operazione di recupero e adeguamento alla realtà corrente del marxismo-leninismo, che significa non applicazione di un dogma, ma di una realtà vitale che oggi dimostra tutta la sua attualità e necessità. Riconoscere al socialismo reale la sua funzione storica, fare i conti con la storia del PCI, ossia del grande partito che ha dato alle masse popolari italiane un ruolo di protagoniste nella storia del ‘900, ma che nello stesso momento non ha saputo dare ad esse la loro emancipazione. Si tratta insomma di costruire il socialismo e non di volere la luna.