* di Emiliano Cervi
Il nostro paese, dal XV secolo ad oggi non è cambiato poi molto, se le parole di Dante ancora tratteggiano con rassegnata precisione qual è il nostro posto nel complesso sistema imperialistico ( lo stadio finale cioè del sistema capitalistico, la sua ultima evoluzione, in cui il grande capitale bancario e quello industriale si uniscono formando il dominio dei grandi trust).
Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave sanza nocchiere in gran tempesta, non donna di province, ma bordello!
Ed è pur vero che le grandi industrie italiane, gioielli statali dalla fama e appeal internazionale, sono state lentamente, scientificamente smantellate e svendute ai capitali esteri ma qualcosa resiste ancora. No, non parliamo dell’ENI (di cui avevamo già trattato in parte https://www.senzatregua.it/?p=1249 ) ma di uno dei pilastri del “made in Italy”: la nostra produzione di vino, rinomata e globalmente apprezzata. Il vino è uno dei maggiori segni di civiltà nel mondo, diceva Ernest Hemingway. Difficile non concordare con lui , e prevenendo il commento del lettore astemio, nemmeno con Charles Baudelaire: chi non beve vino ha qualcosa da nascondere!
Ma non volendo annoiare chi legge con queste citazioni, giunge il momento di affrontare la questione di petto: cosa si nasconde dietro la produzione del vino italiano? L’idea di approfondire questo settore nasce dopo gli ultimi fatti di cronaca che hanno visto protagonista un pensionato cuneese a cui è stata inflitta una multa di migliaia di euro per sfruttamento di lavoro nero.1 Infatti nel campo, un ettaro di vigna, erano presenti 4 amici che aiutavano nella raccolta dell’uva lo sfortunato contadino a cui gli inflessibili controllori hanno comunque deciso di affibirare la multa. Immediate e sdegnate le reazioni delle autorità locali e non, che arrivano persino a scomodare il presidente della Regione Piemonte, l’intramontabile piddino Sergio Chiamparino, che dichiara poetico come “la raccolta delle uve ha il sapore antico della terra, ma soprattutto quello di una giornata con gli amici” esperienza della quale, dice “non vorrei dovermi privare”. 2
Ora, sembra davvero un caso di eccesso di zelo da parte dei controllori, sia per la grandezza della vigna che per il numero esiguo di “amici” impiegati: ma quello che risulta più evidente è la portata che ha assunto questa notizia al confronto di altre, che giungevano sostanzialmente dagli stessi luoghi.
“I migranti della vendemmia tra speranze, coop e caporali”, oppure “Cooperative fuorilegge pagano 3 euro l’ora” ma anche “furgoni carichi di migranti partono all’alba verso i vigneti: i contratti firmati sui cofani delle auto e i ruderi abbandonati usati come dormitori”. 3
Sopite da mesi sono le inchieste portate avanti da giornalisti di quotidiani locali e nazionali, di riviste specializzate, sulle condizioni della manodopera in modo particolare in Piemonte. I risultati di queste inchieste non sono così diverse da quelle condotte sugli immigrati impiegati e sfruttati come animali per la raccolta di verdure nei campi del Sud Italia: Bulgari, Macedoni, Rumeni e in generali immigrati dall’est Europa arrivano per il periodo della vendemmia pronti ad essere sfruttati per un salario bassassimo, ma che in patria può servire a sostenere la propria famiglia.
Il meccanismo è però più raffinato del caporalato vero e proprio, anche grazie all’intermediazione di cooperative molto spesso create da stranieri: ma se pochissime sono stabili “altre, più dubbie, aprono e chiudono d’un anno all’altro. Nessuno è capace di ricordare il loro nome. Alcune sono gusci vuoti creati per fatturare al più basso il prezzo del lavoro. Non risultano quasi mai d’iniziativa collettiva, ma solo della volontà di un imprenditore”4
La sostanza in ogni caso rimane la stessa: sfruttamento e utlizzo massiccio di quell’esercito industriale di riserva, per utilizzare un termine proprio dell’analisi marxista, che serve appunto a livellare i salari verso il basso e creare, tra l’altro, un solco sempre più profondo tra i lavoratori autoctoni e quelli stranieri.
L’attacco ai lavoratori è frontale: non solo da un lato abbiamo questo tipo di corsa al ribasso, dall’altro lato si trova l’utlizzo sempre più massiccio di strumenti in grado di vendemmiare in modo meccanico le vigne. Questo tipo di vendemmia, il più delle volte svolto per conto terzi, viene sfruttato soprattutto in quei territori pianeggianti dove i filari possono raggiungere centinaia di ettari: il numero di lavoratori viene letteralmente abbattuto dall’uso delle macchine, i costi diventano ancora più bassi, la burocrazia scompare insieme ai lavoratori stessi e l’imprenditore riducendo il costo del lavoro può aumantare i suoi profitti. Naturalmente la vendemmia meccanica non ha la stessa qualità di quella manuale, presenta più impurità (mediamente, molto dipende anche dall’abilità dei terzisti) e maltratta la pianta che soffre di questo tipo di operazione: ma gli affari sono affari.
Ecco perchè la situazione così critica non verrà sanata dai “controlli” delle autorità e perchè allo sfruttamento e alla fatica del lavoro, che chiunque abbia svolto davvero può confermare, viene contrapposta la “poesia” della vendemmia e del “rituale antico”. Nella seconda parte dell’articolo si andrà più nel dettaglio di questo business, che solo in Italia muove nove miliardi e mezzo di euro all’anno, ma già ora possiamo fare, a ragion veduta, un appunto ad Hwmingway: il vino può essere civilità, ma non lo è nel sistema capitalista, che all’altare del profitto porge le catene dello sfruttamento e della povertà della classe lavoratrice.
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1http://www.lastampa.it/2015/09/28/italia/cronache/invita-gli-amici-alla-vendemmia-prende-una-multa-da-euro-per-lavoro-nero-O0D2qMEBsFnCbLg0KYOIVL/pagina.html
2http://www.lastampa.it/2015/09/30/italia/cronache/chiamparino-attacca-vendemmio-anchio-ma-non-lavoro-nero-TgiZlyRGXZBMKI2E2JFD2I/pagina.html
3http://www.lastampa.it/2015/08/25/italia/cronache/i-migranti-della-vendemmia-tra-speranze-coop-e-caporali-OG1EgWf9ZUUpOjBp3JcSGI/pagina.html
4http://espresso.repubblica.it/inchieste/2013/12/03/news/il-prestigioso-vino-piemontese-e-prodotto-come-a-rosarno-1.144081