*di Emanuale Panella
Da un po’ di tempo a questa parte nel dibattito politico in Italia ha preso largo la proposta del così detto “baratto amministrativo”, proposta avanzata inizialmente dal Movimento 5 Stelle ed accolta e riformulata dal PD, inserendola all’interno del decreto Sblocca Italia, il decreto emanato dal governo riguardo la condizione di strutture, infrastrutture, tecnologie e impianti industriali nell’intero Paese. La proposta, che dovrebbe teoricamente entrare in vigore dal 1 gennaio 2016, è stata accompagnata da dichiarazioni di ogni tipo riguardo la sua importanza per “venire incontro in modo equo ai cittadini che non riescono a pagare le tasse senza scadere nell’assistenzialismo” o “promuovere la cooperazione dei cittadini con la pubblica amministrazione nella gestione dei beni comuni”. Ma quali saranno in realtà le conseguenze per la classe lavoratrice di fronte a questo provvedimento?
Iniziamo spiegando in cosa consiste. Il provvedimento sul “baratto amministrativo” è esposto nell’articolo 24 del decreto Sblocca Italia, ed è stato discusso insieme all’Anci (Associazione Nazionale dei Comuni Italiani): la proposta è quella di permettere ai Comuni di far svolgere lavori non retribuiti per la riqualificazione del territorio, la cura delle aree verdi, la pulizia e il decoro urbano, il recupero di strutture abbandonate ecc., in cambio di agevolazioni sulle tasse o, addirittura, esenzioni. Il decreto specifica che non ci sono direttive specifiche su quali tasse possono essere oggetto di agevolazioni; specifica anche (e soprattutto) che i soggetti idonei a ricevere le agevolazioni devono essere inseriti in associazioni riconosciute che hanno il compito di avanzare progetti e programmi per i lavori da eseguire. Non sarà quindi il Comune a decidere da solo quali mansioni far svolgere, ma dovranno essere gli stessi lavoratori in difficoltà ad elaborare un programma. Le agevolazioni sulle imposte possono essere garantite alle associazioni riconosciute, mentre i lavoratori che ne fanno parte possono accedere singolarmente a tali agevolazioni solo in caso di un avanzo dei crediti concessi all’associazione in cui sono inseriti. Altro elemento importante da evidenziare è il fatto che l’Ifel (Istituto per la finanza locale, legato all’Anci) ha sottolineato come il provvedimento debba garantire agevolazioni sulle tasse future e non permettere l’esenzione da tasse già arretrate e non pagate, poiché quest’ultima pratica potrebbe “scadere nell’illegittimità”. Come scritto precedentemente, il governo giustifica questo provvedimento col fatto di aiutare le fasce economicamente deboli della popolazione, impossibilitate a pagare le tasse, ricompensando il mancato pagamento con lavoro gratuito per la collettività. Chi però appartiene davvero alla classe sociale più debole, ovvero la classe dei lavoratori e dei disoccupati, conosce abbastanza a fondo determinate condizioni di vita da non farsi ingannare da un ragionamento che, solo in apparenza, sembra non fare una piega. Infatti, la retorica astratta con cui viene spiegato il provvedimento ignora totalmente le condizioni materiali reali in cui vivono lavoratori e disoccupati, celando i veri obiettivi del governo in questa fase politico-economica. Dunque proseguiamo spiegando perché il “baratto amministrativo” finisce per essere altro sfruttamento senza retribuzione che si aggiunge a quello che i lavoratori devono già sopportare ogni giorno nei loro luoghi di lavoro.
In Italia sono più o meno un centinaio in tutto le tasse imposte dallo Stato. Tasse che, sullo sfondo dell’attuale crisi del capitalismo, si stanno dimostrando totalmente insufficienti per mantenere i servizi ai quali dovrebbero essere destinate. Infatti, uno dei principali compiti imposti dall’Unione Europea ai governi degli Stati membri è quello del risanamento del debito pubblico, dunque il pagamento degli interessi alle banche e alle multinazionali che speculano sullo Stato italiano. Ai soldi pubblici spesi per il risanamento del debito e sottratti ai diritti sociali, si aggiungono le privatizzazioni che hanno caratterizzato l’operato dei governi di centrodestra e centrosinistra negli ultimi vent’anni. Si tratta di due processi che vanno di pari passo: i tagli ai servizi pubblici non sono solo il frutto delle politiche di austerità imposte dall’UE per ripagare il debito, ma sono anche uno strumento dello Stato borghese per disfarsi sempre di più delle sue responsabilità rispetto all’intervento per la tutela di certi diritti delle classi popolari, come l’istruzione, la sanità, il trasporto, il decoro urbano ecc.; questa deresponsabilizzazione lascia libero ingresso ai capitali privati nella gestione dei servizi, permettendo dunque alle grandi imprese di usare i diritti sociali come nuovi campi in cui investire per fare profitto, per affrontare una crisi che altrimenti impedirebbe loro di realizzare profitti reali. Il risultato di questo processo in atto da anni è che i lavoratori, i figli dei lavoratori e le classi popolari in genere, finiscono per pagare due volte i servizi che spetterebbero loro di diritto: la prima volta questi vengono pagati con la fiscalità generale, dunque con le tasse, che teoricamente dovrebbero servire proprio a garantire servizi pubblici fondamentali; la seconda volta vengono pagati direttamente tramite rette o ticket imposti proprio a causa dei tagli e delle privatizzazioni. Esempio: l’istruzione e la sanità dovrebbero essere diritti sociali garantiti dallo Stato tramite il denaro ottenuto dalla tassazione, ma il loro abbandono e la mancanza di finanziamenti statali impone che questi siano pagati di nuovo dalle famiglie tramite altri tipi di imposte; così per frequentare le scuole superiori va pagato il così detto “contributo volontario” (che nei fatti è una tassa obbligatoria), per frequentare l’università occorre il pagamento delle tasse universitarie e per accedere alla sanità occorre pagare un ticket, o direttamente una clinica privata, visto il tremendo disfacimento della sanità pubblica e il suo avanzato stato di privatizzazione. Questo raddoppiamento indiretto della tassazione determina l’esclusione del proletariato dai servizi più basilari e la negazione di qualunque forma di diritto sociale: si pensi alla percentuale altissima di abbandono degli studi o alla tremenda difficoltà di ricevere cure adeguate non avendo i soldi per pagare strutture sanitarie private. Ed è proprio a questo punto che sveliamo una prima grande ipocrisia del “baratto amministrativo”: il governo dei padroni afferma che tale pratica agevolerebbe le fasce povere della popolazione incapaci di adempiere al pagamento delle tasse; la verità è che se un lavoratore non può permettersi di fornire allo Stato il denaro per pagare gli interessi delle banche, questo in cambio dovrà lavorare gratuitamente e forzatamente per lo Stato stesso, senza ugualmente vedersi garantiti servizi e diritti fondamentali poiché questi, a prescindere dalle tasse, vanno pagati comunque una seconda volta, con costi esorbitanti non all’altezza dei salari.
Partendo da questa analisi fondamentale, arriviamo a capire come il baratto amministrativo sia addirittura uno strumento che semplifica l’abbandono dello Stato dei servizi pubblici e dei diritti sociali. Infatti, il decoro urbano, la pulizia degli spazi pubblici, la cura delle aree verdi, sono servizi già da tempo trascurati da parte della pubblica amministrazione nella maggior parte dei Comuni italiani; con il baratto amministrativo le istituzioni non solo possono continuare a ignorare spudoratamente questa necessità sociale di primo piano, ma possono anche legittimarsi nel farlo, non considerandola più come una loro responsabilità. Questa è la conclusione a cui arriva il governo dei padroni targato PD: se i soldi delle tasse servono solo per tutelare i profitti delle imprese tralasciando servizi come il decoro pubblico, e se in Italia i lavoratori queste tasse non riescono a pagarle comunque, bene, siano loro stessi a lavorare per il mantenimento dei posti in cui vivono. Dunque il ricatto delle agevolazioni sulle tasse permette allo Stato di sfruttare il lavoro gratuito di lavoratori e disoccupati per mantenere servizi di cui non può e non vuole farsi più carico, scaricando sulle spalle delle classi popolari questa responsabilità anche nei minimi aspetti pratici: i lavori devono essere proposti e programmati da associazioni riconosciute dal Comune, il quale si limita a dare il via libera e a decidere l’entità delle agevolazioni sulla base del lavoro svolto.
In sostanza, questo provvedimento rappresenta la condanna allo sfruttamento perenne per la classe lavoratrice, non solo sotto un padrone in cambio di un salario che non ripaga il tempo di lavoro svolto, ma anche sotto lo Stato senza nessuna retribuzione, col ricatto di agevolazioni su tasse che non servirebbero in nessun caso a garantire un tenore di vita dignitoso a chi parte da condizioni economiche disastrate. Un operaio che lavora 8 o 10 ore al giorno, con la sola domenica come giorno di riposo, senza nessuna tutela nel contratto contro infortuni, licenziamenti, cassa integrazione o riduzione della paga, con un salario misero che non gli permette di arrivare a fine mese tra bollette, affitto e spese per il sostentamento di una famiglia, come può considerare “un’agevolazione” il fatto di lavorare gratuitamente altre ore in cambio di qualche riduzione su tasse che non sarebbe comunque riuscito a pagare? La situazione è ancora più sconcertante se pensiamo a quanto impegno ci metta lo Stato nel combattere la morosità degli strati più poveri della popolazione, aizzando l’ira di Equitalia alla prima imposta non pagata: si ricordino in proposito le dichiarazioni dell’Ifel sul fatto di non riconoscere come legittima l’esenzione da tasse già arretrate. Un impegno che evidentemente non viene applicato allo stesso modo nei confronti della classe imprenditoriale, che ogni anno evade miliardi sfuggendo ai controlli, evitandoli tramite la corruzione delle stesse forze dell’ordine o semplicemente trasferendo i loro patrimoni all’estero in paradisi fiscali: si tenga a mente in proposito che, nella percentuale di entrate delle casse dello Stato frutto della tassazione, solo il 3% dei contributi derivano dal mondo imprenditoriale. I lavoratori pagano, e per i padroni esistono sono solo i profitti, mentre sempre più scuole cadono a pezzi, le università sono sempre più costose e inaccessibili, sempre più ospedali chiudono, e banche e multinazionali, tutelati dall’Unione Europea, continuano a fare sciacallaggio del denaro che doveva essere destinato ai diritti delle masse popolari.
Come gioventù comunista continuiamo il nostro lavoro nelle scuole, nelle università, nei luoghi di lavoro, nei quartieri popolari, poiché consideriamo la lotta e la prassi della militanza quotidiana strumenti fondamentali per ricostruire, direttamente tra le masse, la coscienza di essere classe oppressa in questo sistema. Proprio questo lavoro e questa coscienza ci permettono di avere gli strumenti corretti e necessari per analizzare la realtà in cui viviamo, non cedendo agli inganni di chi ci presenta come “agevolazioni” o necessità sociali ciò che serve solo alle banche e alle grandi aziende per continuare a fare profitti su profitti alle nostre spalle. È così che ad esempio, lavorando nelle scuole, in anni di mobilitazioni abbiamo potuto svelare l’inganno del contributo “volontario” (nei fatti obbligatorio in tutte le scuole), vera e propria tassa necessaria allo Stato per liberarsi del peso del mantenimento delle scuole per rigettarlo sulle famiglie, tassa spacciata come necessità sociale con la scusa della partecipazione delle famiglie al mantenimento degli istituti per affrontare il periodo di crisi. Solo tenendo come unico riferimento i nostri più immediati interessi di classe (una retribuzione dignitosa del lavoro, istruzione, sanità, trasporti gratuiti ecc.) possiamo renderci conto di quali siano i sotterfugi oggi usati dal padronato (perpetrati tramite lo Stato, che da essi è controllato) per negarceli, rendendoci anche conto della necessità del superamento di questo sistema per poterli ottenere; un sistema fondato sul profitto che ormai non ha vergogna di colpire i lavoratori con le manovre più aberranti, anche trasformandoli in schiavi dello Stato senza retribuzione per perpetramento dello stato di cose presenti. Che noi vogliamo abolire.