Alessandro Mustillo*
Chi oggi espone la bandiera francese (ma varrebbe lo stesso se fosse statunitense, italiana, tedesca…) nell’intento un po’ ingenuo e semplicistico di voler dare la propria solidarietà alle persone uccise e ferite negli attentati si presta in realtà ad un’operazione molto più complessa. Non c’è nessuna dietrologia, né l’idea che esista una «Spectre» a controllare e determinare tutto ciò. Semplicemente la consapevolezza che alcuni fenomeni che oggi nell’era digitale si affermano a livello di massa sfuggono al controllo individuale, si impongono come forza che va al di sopra di quelle stesse persone che al contrario pensano di compiere una scelta libera e autonoma con il loro gesto. Il risultato è che a giovarsene sono sempre i settori dominanti dell’economia, della politica, della società, che determinano questo nuovo modo di esprimere l’ideologia dominante, attraverso forme indirizzate, depotenziate e virtuali di partecipazione, a cui fa da contraltare nella vita reale una tendenza all’individualismo, al disinteresse e al rifiuto di ogni dinamica organizzativa e politica.
Chi oggi usa la bandiera francese come foto di profilo non sa probabilmente che in questo modo sta legittimando la politica di uno stato imperialista che è responsabile di decine di migliaia di morti solo negli ultimi anni. Non serve risalire a Sankara, o alle lotte contro la liberazione dal colonialismo dal nord africa al Vietnam. Basta ricordare che negli ultimi anni la Francia è stata uno dei paesi più attivi – forse il più attivo in assoluto tra quelli europei – in decine di interventi militari dalla partecipazione in Afghanistan, Iraq, Yemen, al ruolo di primo piano nella guerra in Libia e in Siria, ad una serie di interessi tutti francesi nelle repubbliche africane, dal Mali, alla Costa d’Avorio, alla Rep. Centroafricana. La bandiera francese oggi significa anche questo e chi la usa sta implicitamente – probabilmente inconsapevolmente – legittimando questa politica e le sue future evoluzioni.
Le retoriche comunitarie dell’unità nazionale, a cui fa da estensione quella del comune sentire europeo, razziale, culturale, storico, sono una trappola enorme. Come in ogni momento l’attacco esterno è il più potente fattore per far coagulare tutto il popolo attorno ad un comune denominatore da difendere e proteggere. È da sempre la strategia con cui le classi dominanti risultano più vincenti. È una strategia che permette di nascondere le responsabilità, che sono alla base delle scelte di indirizzi politici ed economici, e che determinano anche le conseguenze di queste scelte, facendole rifluire in un collettore comune, in cui sfruttatori e sfruttati, responsabili di queste politiche e coloro che ne hanno subito e continueranno a subirne gli effetti, possano sentirsi parte di un tutto, di un insieme comune, che come tale li unisce e non li divide. In nome della protezione interna si giustifica l’incremento dell’azione militare esterna, dando giustificazione e consenso di massa agli interventi imperialisti, e quella interna, contro chi incrina l’unità nazionale, chi in un “momento tanto delicato” fa valere le proprie pretese in termini di rivendicazioni economiche e politiche, tutti fatti che devono passare in secondo piano se non essere direttamente repressi in nome del nemico esterno che minaccia la comunità. Ma tutto questo chi espone una bandiera francese come sua foto di profilo, ovviamente non lo sa. I condannati si scavano la fossa.
In questo processo il capitale conta oggi su uno strumento formidabile nel formare la coscienza comune, e nel creare processi di massa che non ne intacchino la posizione dominante, ma ne amplifichino la voce, e dunque aumentino il dominio. I social network hanno prodotto l’illusione di milioni di persone che ritengono di agire in modo libero e autonomo, non accorgendosi che i margini di questa libertà e autonomia sono costruiti come argini invalicabili. La formazione dell’ideologia dominante in occasione di eventi di grande impatto mediatico arriva a pretendere dal singolo una posizione sull’accaduto. Quasi un’esigenza personale di conformarsi alla collettività, di non rimanere esclusi da un momento comune e unificante della comunità stessa. A farlo sono eserciti di persone che al contrario, nella vita reale, sistematicamente rifiutano di prendere posizione, di schierarsi e che quindi, nella ricerca del loro punto di vista, nella loro attività virtuale, non possono far altro che conformarsi alla visione dominante e partecipare come ingranaggi alla grande macchina della costruzione del consenso. L’esigenza di prendere posizione, accanto al fatto di non aver una posizione, porta ad attingere dal bacino comune delle idee dominanti. Il loro unico atto personale si riduce nelle variabili del conformismo, e quindi pur essendo formalmente un atto personale, proprio, individuale produce un risultato indotto, in cui la massa è spersonalizzata, unificata non come corpo autonomo, ma come cassa di risonanza dell’apparato ideologicamente dominante.
I social network rappresentano un’ulteriore evoluzione, anche rispetto alla società massificata dei media tradizionali. La televisione, i giornali che pure hanno inciso nella formazione del consenso operavano a partire da una divisione che palesava la differenza tra la condizione di informatore, di protagonista e quello di spettatore ricevitore, producendo un’inevitabile frattura che – pur avendo i media tradizionali inciso moltissimo nella formazione del consenso di massa – in ultima istanza finiva per ricalcare il contrasto di posizioni che assomigliava troppo alla differenza tra dominati e dominanti. La fase odierna, del capitalismo “maturo” – inteso come sistema di rapporti di produzione che ha dimostrato di saper resistere all’attacco delle masse organizzate, ma consapevole che solo l’organizzazione delle masse è elemento soggettivo in grado di portare al suo superamento – cerca di nascondere in ogni modo questa divisione, che nel frattempo si acuisce e si polarizza. Così tutti gli elementi tipici della frattura tra dominati e dominanti devono tendere ad essere riassorbiti nella loro rappresentazione ideologica, affinché possano permanere nella realtà vera dei rapporti di produzione, nella sfera economica in cui agisce la reale divisione in classi. Se questo processo accade in tutti i settori della società, anche il tempo libero, l’informazione e i canali di costruzione del consenso devono adeguarsi per essere funzionali a questa esigenza, di nascondere con tecniche più nuove e affinate la realtà della società capitalistica.
Rendere tutti protagonisti è il miglior modo per non rendere protagonista nessuno, e per lasciare che i veri protagonisti agiscano lì dove è necessario, e spezzare ogni pretesa di organizzazione che punti al contrario a emancipare le classi subalterne e a renderle effettivamente protagoniste. Ad essere protagonista in definitiva è la passività delle masse, e quindi un non protagonista, da sempre alleato delle classi dominanti, che accettano di buon grado ogni formula di rivoluzione passiva, che per antonomasia non solo non scalfisce il loro potere, ma lo fortifica rendendolo più impenetrabile. Questo vale per l’informazione, per la politica (il grillismo è questo e null’altro), per tutti quegli strumenti sovrastrutturali in cui si forma la coscienza di massa e dunque la posizione di accettazione passiva o di critica attiva al sistema che scaturisce dai rapporti sociali di produzione.
L’organizzazione nella società reale, e prima di tutto nei luoghi dove il conflitto capitale-lavoro si palesa in modo più immediato – ossia i luoghi di lavoro – resta centrale per chi vuole rovesciare questo modello di società. Significa contrapporre ad una massa indefinita di twittatori, la prospettiva di costruzione di un’esercito organizzato di proletari. Muoversi su un altro piano, perché accettare il piano imposto dalle classi dominanti vuol dire accettare il proprio ruolo di dominati e contribuire passivamente a fortificare questa divisione.
*segretario nazionale FGC