*di Lorenzo Scala
Dalle borgate di Pasolini alla periferia di Caligari. Il mutamento antropologico raccontato dal regista “underground” che sta dalla parte del popolo
Dal novembre del 1975 in poi la sinistra italiana ha creduto per decenni di aver perduto, nella persona di Pier Paolo Pasolini, l’ultimo intellettuale italiano. La stessa sinistra italiana ha da allora provato quell’amore acritico verso lo scrittore e regista friulano che mai gli aveva dimostrato in vita. Un processo di santificazione che spesso ha impedito una comprensione corretta, nelle sue contraddizioni, del pensiero di un grande uomo. E’ purtroppo venuta a mancare anche la capacità di accorgersi, di scoprire, nell’emisfero della cultura italiana, altre personalità altrettanto valide. Una di queste era il regista cinematografico Claudio Caligari, scomparso a Roma lo scorso 26 maggio, poco dopo aver finito di montare il suo terzo e purtroppo ultimo film. A settembre Non essere cattivo è stato presentato a Venezia, fra gli applausi e l’amarezza per la prematura scomparsa del suo autore.
L’importanza dell’ opera di Caligari risiede nella sua inossidabile fedeltà al cinema inteso come arte costruttiva e ricreativa rivolta quasi esclusivamente al popolo, e nel rifiuto di omologarsi ai dettami commerciali, deideologizzati e senza contenuti di classe della nuova industria cinematografica occidentale. Anche a costo di “girare cose veramente underground”. In effetti, ripercorrendo la filmografia di Caligari, sembra quasi che quest’ultimo abbia deciso di raccontare le storie che lo stesso Pasolini, se non avesse incontrato quella tragica fine, avrebbe portato sul grande schermo con la passione e la partecipazione umana che lo contraddistinguevano. Caligari aveva iniziato la propria carriera negli anni ’70 come regista di documentari sul fenomeno della droga, in particolar modo dell’eroina, che da poco aveva iniziato a logorare la gioventù italiana di periferia e di borgata. Quel che più infastidiva Caligari era però, per sua stessa ammissione, la mancata fenomenologia della tossicodipendenza fra gli strati più poveri della popolazione, l’incapacità della stampa italiana di scavare a fondo nel problema per coglierne i veri moventi socio-economici. Per Caligari l’eroina non era altro che un mezzo di estraniazione dalla miseria del mondo reale, di superamento artificiale dei limiti materiali imposti da una certa condizione economica, dall’appartenenza a un ceto sociale sfortunato. Queste furono nel 1983 le premesse per la realizzazione del suo primo lungometraggio, Amore tossico: un film duro quasi quanto un pugno nello stomaco, a tratti comico per la natura grottesca (e purtroppo, realistica) delle abitudini dei protagonisti, interpretati da un gruppo di giovani di Ostia che nella vita privata erano effettivamente dipendenti dall’eroina. Nel 1998 arriva poi L’odore della notte, interpretato magistralmente dagli allora poco conosciuti Valerio Mastandrea e Marco Giallini: la storia di un gruppo di giovani dediti alle rapine da strada e al saccheggio di appartamenti di lusso, la cui agiatezza irreale può essere ammirata dai protagonisti solo durante le loro sanguinose e ciniche scorribande notturne.
Le vicende dolorose, la ambientazioni in scenari di povertà e miseria, la sensazione che il domani non possa assicurare nulla di migliore, formano un forte legame fra gli emarginati di Caligari e i “ladri per fame” di Accattone e Mamma Roma. La differenza sostanziale sta nel fatto che in Caligari manca l’idealizzazione della povertà come deterrente alla corruzione dei costumi e delle idee proprie del capitalismo. Probabilmente perché si è trovato ad operare in un periodo storico molto diverso e distante da quello delle borgate polverose di Pasolini. Proprio Pasolini si era accorto con grande inquietudine del mutamento antropologico del sottoproletariato, e aveva capito in che modo e quanto in profondità il consumismo stesse trasformando, soprattutto attraverso la televisione, i giovani poveri di cui aveva scritto. La paura pasoliniana di una gioventù proletaria tratta in inganno dall’imitazione del modello di vita piccolo-borghese è espresso benissimo ne Il pianto della scavatrice, poesia contenuta nella raccolta di poesie Le ceneri di Gramsci: “ […] disamore, mistero, e miseria dei sensi, mi rendono nemiche le forme del mondo, che fino a ieri erano la mia ragione di esistere”.
Questo disarmante cambiamento è rappresentato appieno nel canto del cigno di Caligari, Non essere cattivo. Il film, ambientato nel 1995, segue le vicende dei giovani di Ostia Cesare e Vittorio, legati fra loro da un’amicizia fraterna e a tratti commovente. La lotta contro la durezza della vita dei due protagonisti è sempre la stessa ma si avverte, durante il corso del film, non un progressivo cambiamento, ma un cambiamento effettivo e cristallizzato, già avvenuto. Cesare e Vittorio sperimentano nuove droghe sintetiche, si tirano a lucido per una serata da passare in discoteca, truffano la gente promettendo televisori al plasma. Cesare e Vittorio, in uno scenario dove sono predominanti modelli di vita sbagliati e comunque inaccessibili, non possono non essere “cattivi” e quindi rischiare di perdere la vita in situazioni al limite della legalità. L’imitazione di questi modelli e la frustrazione per non potersi appropriare del riconoscimento sociale ad essi dovuto non bastano ovviamente per mutare la realtà economica dei protagonisti. Solo Vittorio si salverà dalla perdizione della droga e della delinquenza, trovandosi però costretto a vendere il proprio corpo e la propria forza lavoro per lavorare come manovale o muratore in cambio di pochi spiccioli al mese.
Si tratta del resto del ricatto al quale vengono sottoposti ancora oggi dal sistema capitalistico molti giovani italiani che non riescono a finire gli studi: dal 1995 la situazione non è cambiata e, forse, è addirittura peggiorata. Lo stesso Caligari aveva scritto, rispetto al suo ultimo film, che: “Oggi Accattone va in discoteca, consuma e spaccia cocaina e pastiglie e se poi le cose volgono fortunosamente in positivo al massimo può venirne fuori un finale simile a quello che in Rocco e i suoi fratelli suggellava il destino operaio di Ciro, anche se non più nella declinazione viscontiana anni Sessanta, ottimistica e positiva, della grande industria”. Di fronte a tanta consapevolezza della realtà giovanile italiana ci si può almeno rallegrare davanti alla dimostrazione che una minima parte dell’Italia non ha perso del tutto la capacità culturale di analizzare se stessa, o di rammaricarsi poiché un grande intellettuale come Caligari, il quale avrebbe potuto ancora dare tanto alla settima arte, è scomparso così presto, all’età di sessantasette anni. Di certo però è possibile, e doveroso, indignarsi del fatto che Caligari sia riuscito a trovare i soldi necessari per girare il film solo grazie all’amico e collega Valerio Mastandrea, il quale per l’occasione ha assunto il ruolo di produttore; che Non essere cattivo sia stato presentato a Venezia solamente fuori concorso; che il nome stesso di Caligari sia sempre stato, fino a quest’anno, poco conosciuto e quasi ignorato in Italia.
La recente e postuma notorietà che ha investito la memoria di questo grande artista conferma purtroppo una tendenza molto radicata nel popolo italiano: quella di accorgersi troppo tardi della genialità che, senza mezzi ma piena di entusiasmo, ancora si nasconde negli angoli della nostra Penisola. Adesso si spera invece in un riconoscimento internazionale di Non essere cattivo, dato che la pellicola è stata selezionata per rappresentare l’Italia agli Oscar per il miglior film straniero. Prima di ogni altra cosa però, è bene sottolineare quanto sarebbero positiva e illuminante la visione del cinema di Caligari proprio da parte dei giovani italiani: accade sempre più raramente che a questi ultimi vengano raccontate storie da narratori che siano davvero dalla loro parte, che si preoccupino davvero per il loro futuro e, soprattutto, per il loro presente.