Il 1 dicembre di ogni anno si celebra la giornata mondiale per la lotta contro l’Aids e l’Hiv. Quante siano le persone oggi contagiate dal virus dell’Hiv è impossibile dirlo con certezza, data la lunga assenza di sintomi apprezzabili, che caratterizza questa malattia. Le stime più recenti parlano di circa 35 milioni di persone, di cui 25 milioni nella sola Africa, circa 2 milioni di nuove infezioni all’anno e 1,2 milioni i decessi per Aids. A differenza degli anni ’80 quando l’epidemia di Aids scoppiò negli Stati Uniti, conosciamo le cause della malattia, e i farmaci sviluppati contro l’Hiv consentono in media una aspettativa di vita molto più elevata, per quanti hanno la possibilità di utilizzarli, e un sostanziale controllo dello sviluppo della malattia, impedendone la degenerazione. Eppure nonostante tutto questo aumentano i casi di Hiv in tutto il mondo, compresa l’Italia e l’Europa, in Africa non si riesce seriamente a circoscrivere la diffusione. Oggi non esistono forme di vaccino efficaci contro l’Hiv. Una sperimentazione italiana è stata avviata in questa direzione, anche se al momento i risultati sulla sperimentazione animale hanno parlato di un potenziamento degli effetti dei farmaci antivirali e non di un vero e proprio impedimento del contagio. Il virus dell’Hiv deve molta della sua fortuna alle caratteristiche di latenza che per lungo periodo si presentano nel soggetto contagiato, il quale, in mancanza della scoperta, può a sua insaputa infettare a sua volta altre persone, attraverso rapporti sessuali, scambi di sangue – anche se oggi i test sui donatori rendono questa condizione, almeno nei paesi occidentali, meno frequente, per quanto riguarda le donazioni, e arginata nei consumatori di droghe attraverso una più accurata politica sanitaria e di informazione – trasmissione madre-figlio, che specie nei paesi africani rappresenta una causa fondamentale di contagio. Alla luce di tutto questo siamo sicuri che nel Mondo si faccia tutto il possibile per limitare la diffusione dell’Hiv? Probabilmente ci sono alcune responsabilità che – al netto dei problemi scientifici che impediscono al momento cure più efficaci – potrebbero almeno consentire allo stato attuale della scienza, una più efficace politica di contrasto all’Hiv.
Una grande responsabilità è senza dubbio quella della Chiesa Cattolica, che ancora oggi con il pretestuoso rifiuto dell’utilizzo del preservativo contribuisce ad impedire che lo strumento più efficace nella lotta alla trasmissione dell’Hiv sia accettato universalmente. L’impatto dell’attività della Chiesa si registra tanto nei paesi in via di sviluppo che in paesi come l’Italia a forte tradizione cattolica. Nel primo caso, la stretta correlazione tra strutture sanitarie e enti religiosi missionari fa sì che nei paesi dell’Africa sub sahariana – dove si registrano oltre il 60% dei casi al mondo – paesi a rapido sviluppo demografico e con tassi di natalità altissima, l’utilizzo del preservativo sia ridotto e non pubblicizzato con adeguate campagne di prevenzione. In paesi come l’Italia – anche se il controllo sociale della Chiesa diminuisce tra le nuove generazioni – la massiccia presenza di centri di interesse legati al Vaticano, che premono su una politica dipendente anche dal sostegno delle gerarchie ecclesiastiche, un controllo pervasivo posto all’interno degli istituti di educazione, in comunità territoriali, fa sì che ancora oggi le campagne di prevenzione contro l’Hiv siano assolutamente insufficienti e che le campagne pubbliche sull’utilizzo del preservativo siano ridotte all’osso. Stessa situazione si verifica anche in Africa, perché anche in questo caso l’impatto degli enti religiosi nelle politiche educative dei paesi, attraverso missioni che spesso rappresentano le uniche fonti di educazione per milioni di giovani africani, impedisce campagne sull’uso del profilattico. Il che per giunta sta creando anche nella Chiesa qualche malumore: non sono poche le voci che lontani dalle stanze romane, attente alla dottrina e all’interpretazione della Bibbia, hanno chiesto di rivedere la posizione del Vaticano sul preservativo. Ma non è solo la Chiesa ad avere responsabilità.
Oggi in Italia i nuovi contagi riguardano soprattutto persone sotto i quarant’anni, per l’84% dei casi sono dovuti a trasmissione sessuale. L’aumento dei casi in Europa dimostra come la mancanza di informazione e prevenzione stia abbassando la guardia sul caso. Anche l’impatto di nuove cure che migliorano la qualità di vita dei pazienti, ottiene paradossalmente l’effetto contrario di non rendere più l’Hiv una questione sentita e indebolendo il livello di guardia. Se fortunatamente queste cure rendono oggi la vita dei malati migliore, possono evitare quelle forme di ghettizzazione precedenti, al contempo nei giovani il risultato è un atteggiamento meno attento. Secondo un rapporto Oms-Ecdc, le nuove infezioni dovute a rapporti omosessuali, che erano il 30% nel 2005 sono aumentate al 42%, mentre quelle dovute a rapporti eterosessuali sono il 32%, mentre diminuiscono quelle legate ai tossicodipendenti che usano droghe iniettabili, appena il 4,1%. Un ragionamento culturale serio non può esimersi dal valutare come la condizione di difficoltà di vivere apertamente le proprie scelte sentimentali sia un fattore di diffusione dell’Hiv. Non è un caso che il contagio tra omosessuali aumenti nei paesi che hanno una visione più negativa dell’omosessualità, costringendo alla formazione di comunità “semi-chiuse” che sono veicolo di maggiore diffusione del contagio. Stesso discorso vale anche per i rischi connessi con condizione semi-clandestina della prostituzione, la mancanza di controlli sanitari che sarebbero possibili in una condizione legislativa differente. Senza entrare nel merito di discorsi lunghi e complessi, è però evidente che queste situazioni, derivate da visioni culturali della società, finiscono per essere nei fatti canali di diffusione privilegiata del virus, e che in questo senso anche una risposta culturale sarebbe strumento utile per combattere l’Hiv.
C’è poi un terzo e forse più importante responsabile della situazione: il profitto economico. I farmaci contro l’Hiv hanno un costo, che in larga parte deriva dal profitto che le multinazionali che detengono la proprietà dei farmaci impongono. Non è un caso che le regioni più povere del mondo siano quelle in cui esiste un maggiore contagio ed una minore capacità di arginare l’epidemia, e che anche nei paesi a capitalismo avanzato, siano proprio le fasce sociali più deboli le più esposte ai rischi connessi con l’Hiv. Se il virus non guarda le differenze di classe quando contagia, è altrettanto vero che l’accesso alle cure è condizionato pesantemente dalla condizione economica, e l’ambiente sociale nel suo complesso rende più facile contrarre la malattia lì dove questa ha più possibilità di proliferare. Ha fatto scalpore recentemente la notizia dell’acquisto da parte della società farmaceutica americana Turing Pharmaceuticals del brevetto del Daraprim, il farmaco più usato negli USA contro l’Hiv. Il risultato è stato che da un giorno all’altro il costo sul mercato del farmaco è aumentato da 13,50 dollari a 750 dollari. La società ha poi fatto parziale marcia indietro dichiarando che «abbasserà il prezzo del Daraprim ad un livello che sia più abbordabile e che consentirà alla società di fare profitti.» Proprio l’ossessiva ricerca del profitto che oggi domina il mercato farmaceutico mondiale, dominato da grandi monopoli multinazionali, è un potente alleato dal virus dell’Hiv. L’alto costo delle ricerche ed un mercato largamente dominato da “poveri” fa risultare nel complesso l’investimento per i paesi in via di sviluppo poco profittevole e riduce le stesse potenzialità della ricerca.
Ma anche nei paesi a capitalismo avanzato non siamo esenti da rischi. La sistematica riduzione delle risorse ai servizi sanitari nazionali e l’aumento del ruolo delle assicurazioni private sono un potenziale ostacolo alla lotta dell’Hiv e al contenimento del contagio. Tra le condizioni richieste dalle assicurazioni per stipulare una polizza c’è anche quella di non essere sieropositivo. La pressione di farmaci costosi sui servizi sanitari nazionali, unito alle politiche di tagli e l’aumento del settore privato sono un elemento assai rischioso. Bisogna comprendere che il valore delle cure non ha solo un impatto individuale per il soggetto malato, ma sociale per la collettività, perché abbattendo la carica virale, blocca il contagio ad altre persone impedendo la diffusione del virus. Ogni politica che esplicitamente o implicitamente finisca per tagliare sul sostegno ai malati di Hiv diventa un alleato della diffusione dell’Hiv.
Di contro ci sono le straordinarie notizie che vengono da Cuba e che dimostrano come la ricerca e il sistema sanitario liberato dalle logiche del profitto sia in grado di arginare questa epidemia. Da qualche mese Cuba ha annunciato al mondo di aver bloccato la trasmissione madre-figlio del virus dell’Hiv, tra tutte forse la più atroce, e con impatto potenzialmente enorme sulla diffusione del virus. Cuba, un paese sotto criminale blocco economico da parte degli USA, che non ha mai rinunciato alla sanità pubblica, e che investe una quota considerevole del proprio prodotto interno lordo in ricerca, istruzione e sanità è stata in grado di fare questo passo importante. Come dimostrato con l’ebola poi, i cubani non si limitano a combattere in patria, ma stanno portando la loro competenza in ogni parte del mondo. Proprio ieri è stato annunciato che grazie alle missioni cubane in Sudamerica sono ben diciassette i paesi latinoamericani sul punto di eliminare la trasmissione dell’hiv da madre a figlio.
Tanti anni sono passati dai primi casi di Hiv. La ricerca ha fatto progressi enormi, ma non altrettanto è stato fatto dalla società. I principali ostacoli a debellare l’Hiv non sono solo di natura scientifica ma anche culturale ed economica, e contro questi prima di tutto è doveroso combattere. L’Hiv è un tema che riguarda il futuro delle nuove generazioni, milioni di giovani in tutto il mondo e non può vederci indifferenti. Una grande battaglia culturale contro concezioni e visioni arretrate. Una grande battaglia politica contro il sistema di dominio dei grandi monopoli, che piega la ricerca non ai bisogni reali dell’umanità, ma alle logiche dle profitto.