*di Mattia Greco
I grandi “romantici”, gli appassionati del calcio lo sanno bene: la Premier League è il campionato più bello del mondo. Non può che essere cosi. L’Inghilterra è la patria del football. È in questo paese che nasce e si sviluppa sul finire dell’800 questo nostro amato sport. Il contesto storico naturalmente, è chiaro a tutti. Appassiona da subito le masse popolari, di calcio iniziano a vivere milioni di persone. Si annida nel DNA dei lavoratori, del proletariato, degli “uomini di fatica”. Insomma tra tutta quella massa avulsa dalla società che si andava ad affermare in quegli anni. La vita passata a sguazzare nella miseria dei quartieri operai, a lavorare ore e ore per un salario da fame. Ma finalmente la settimana era conclusa. Era domenica, si staccava dalla fabbrica. Si staccava dalla fatica e dal lavoro. Si diceva basta al padrone che lo sfruttava ogni giorno. Si diceva basta per qualche ora, alla vita di tutti i giorni. E allora si riempivano le gradinate dello stadio. Si urlava a squarciagola per la squadra della propria città ovunque essa giocava. 90 minuti. Una partita per alleviare tutte le fatiche. Una squadra e una maglia come senso di appartenenza ad una realtà continuamente oppressa e martoriata.
Il mondo è cambiato, la Borghesia è riuscita ad accaparrarsi tutto, o quasi tutto, quello che rimaneva alle masse popolari. È chiaro come l’acqua che ora il grande Capitale detiene e usa come strumento di controllo delle masse anche quelle che sono da sempre le passioni del proletariato. Nuovi stadi, caro dei biglietti, business sfrenato, leggi repressive. Queste misure hanno cambiato il volto del calcio, ormai non più “figlio del popolo” ma succube delle leggi del mercato e del profitto. Le contraddizioni di questo sistema sono palesi, e hanno progressivamente svilito l’anima di questo sport.
Questa storia infatti parte da Sheffield, la città delle grandi industrie dell’acciaio. Possiamo utilizzare i canoni descrittivi di Charles Dickens e delle cosiddette Coketown per capire un po’ che aria si respirava nella cittadina sorta in seno alla seconda rivoluzione industriale: “una città di macchine e di alte ciminiere dalle quali uscivano senza tregua interminabili serpenti di fumo, che si strascicavano nell’aria senza mai riuscire a svolgersi. Aveva un canale nerissimo e un fiume che portava delle acque di un color torbo, d’una tinta nauseante, e vaste masse di fabbricati forati da un’infinità di finestre di dove proveniva un rumore e un battito che durava tutto il giorno, e dove gli stantuffi delle macchine a vapore s’alzavano e si abbassavano con monotonia come teste di malinconici elefanti“. Sono trascorsi ben due secoli ma la storia non è cambiata poi cosi tanto. Il nostro protagonista, un tale Jamie Vardy, proviene proprio da lì.
Una vita spesa ad inseguire un pallone, a fare a botte con i difensori più grossi e robusti e a buttare la palla alle spalle del portiere avversario. Nel suo modo di giocare c’è la grinta di chi proviene da quei quartieri malfamati, c’è la rabbia di chi ogni mattina si alza per andare a guadagnarsi un salario. Di chi sa che in questo mondo non siamo tutti uguali perché la vita, quella di tanti ragazzi figli della classe lavoratrice, è tutta in salita. Per affrontarla, questa vita, bisogna iniziare a correre. Jamie corre e non smette un secondo di farlo. Nemmeno quando da giovanissimo la sua squadra gli sbatte la porta in faccia. Lui non si arrende e riparte dall’ottava serie (paragonabile alla nostra Seconda Categoria). In Inghilterra le chiamano “non-league” infatti il pallone è come se non contasse, un orpello quasi intuile. Si gioca per passare del tempo con gli amici o per fare a botte con gli avversari. Ma Jamie non si arrende e segna tantissimi gol. Intanto arriva anche il suo primo stipendio da calciatore. Un rimborso spese di 30 sterline a settimana (quasi 40 euro). Ma non può andare avanti solo con questi pochi spicci e quindi inizia a lavorare. Del suo passato da operaio ne va fiero anche ora e non scorda quei momenti: “Sollevavo centinaia di pesi e il calore mi bruciava la pelle”. Jamie morde le caviglie degli avversari, con violenza mette dentro ogni pallone che passa nell’area di rigore. Non si fa nemmeno mancare la rissa nel pub in puro stile hooligans (a suo dire per difendere un amico non udente). Il nostro protagonista è cosi, scende in campo e ci mette tutta la rabbia di chi vuole vendicarsi per tutte le sofferenze subite. Scende in campo per sfidare chi gli ha messo di fronte, da sempre, un lungo tragitto tutto in salita. Ma adesso se diamo un occhiata alla classifica del campionato più antico e stimato del mondo in cime c’è proprio la sua squadra, il Leicester (perché Jamie ne ha fatta di strada, salendo di categoria di anno in anno. Dallo Stocksbridge fino ad arrivare ai “The foxes”). Ma quello che non poteva mancare era il suo primato nella classifica dei marcatori. Alle sue spalle ci sono giocatori con contratti milionari. Ma lui è un operaio e il paradiso può attendere, intanto continua a fare goal per alimentare le speranze dei tifosi. Jamie Vardy è uno dei pochi rappresentati della classe operaia nel mondo del calcio miliardario, per questo è amato da tutti. Perché nonostante sia diventato inaccessibile frequentare assiduamente i gradoni dello stadio a causa dei costi elevati dei biglietti, c’è ancora qualcuno che porta dentro il campo la rabbia di una classe oppressa.
Il campionato è ancora lungo e forse alla fine sarà un’altra squadra che vincerà il titolo, perché il Leicester non è ancora ai livelli delle altre contendenti. Ma questo non significa che si debba abbandonare ogni barlume di speranza o smettere di sognare. Adesso però tocca a noi riprenderci il nostro calcio. Perché siamo noi i veri protagonisti di questo sport, noi lo animiamo e lo manteniamo in vita. Avanti quindi con lo sport popolare, quello che unisce e appassiona anche chi è stato “espulso” dalla società capitalista.