Come spesso avviene in questi casi, il mancato raggiungimento del quorum al referendum sulle trivelle ha innescato nel popolo “di sinistra”, e più in generale nelle fila dei sostenitori del “SI”, un sentimento di delusione mista a rabbia nei confronti di chi non ha votato. Uno ad uno, magari citando il Gramsci di “odio gli indifferenti”, vengono riproposti tutti i luoghi comuni sul “popolino”, sugli italiani che se ne fregano e poi si lamentano, cioè i tipici discorsi che tutti abbiamo sentito al bar o al mercato e che tuttavia dovrebbero spingerci a riflettere sull’origine di questa percezione diffusa, che porta alla stagnazione e alla passività di intere fasce di popolazione. Quello che nessuno ha mai il coraggio o l’onestà di riconoscere è che proprio la scelta di puntare sul referendum come strumento politico nelle condizioni attuali, costruendo attorno ad esso l’illusione di poter produrre un cambiamento, non fa altro che alimentare la percezione della sconfitta come una costante, della lotta politica come una lotta titanica e impari contro i mulini a vento, in ogni caso destinata a non cambiare nulla. La rassegnazione dinanzi all’esistente è da sempre la più potente arma nelle mani delle classi dominanti; proprio per questo non si può tracciare un’analisi lucida senza una riflessione franca sull’idea delle “primavere referendarie”, come le chiamano alcuni, che contribuisce a riprodurre questa percezione fatalistica.
Sin dall’inizio, pur battendoci per il sì, non abbiamo taciuto le nostre perplessità sia sul merito che sul metodo di utilizzo del referendum. È in particolare sulla seconda questione che è necessario riflettere oggi. Il referendum è di per sé un grande strumento di democrazia, e nella storia del nostro paese è stato più volte una leva per spostare i rapporti di forza nella società a favore delle classi popolari, sull’onda di grandi campagne referendarie che avevano alle spalle il sostegno dei partiti di massa come il PCI. Oggi, al contrario, avviene troppo spesso che settori della sinistra, dai transfughi della sinistra PD ai rimasugli dei partiti opportunisti della sinistra radicale, finiscano per individuare nel referendum una “scorciatoia” per la realizzazione del proprio progetto politico. Nell’assenza di un partito radicato e capace di essere realmente l’avanguardia delle lotte più avanzate delle classi popolari nel nostro paese (cosa che, per essere chiari, il M5S non è per tante ragioni), ecco che il referendum diventa uno strumento di pressione per una battaglia interna al PD, portata avanti da una minoranza che in realtà vorrebbe semplicemente essere al posto di Renzi per fare più o meno le stesse cose. Per le tante strutture del variegato mondo della sinistra radicale, invece, diventa invece un elemento di aggregazione nel percorso che porta alla costruzione della fantomatica “Syriza italiana” di cui molti attendono la venuta provvidenziale. Ecco allora che attorno al referendum si costruiscono grandi aspettative, che fanno breccia prima di tutto nelle menti dei “militanti” di sinistra, che finiscono ogni volta per convincersi di essere ad un passo dal cambiamento, impegnando le loro migliori energie nella campagna referendaria. Il paradosso è che si concepisce il referendum come un espediente per bypassare con uno schiocco di dita il problema dei rapporti di forza e dell’organizzazione, senza rendersi conto che anche in caso di vittoria del “SI” sono proprio questi rapporti di forza che costituirebbero l’unica reale garanzia che la volontà popolare sia rispettata (si pensi al referendum sull’acqua pubblica del 2011, vergognosamente ignorato). Guardando, d’altra parte, alle reazioni che la sconfitta già produce, è chiaro che in nessun caso questo problema può essere scavalcato, ma al contrario va affrontato di petto.
Il punto più basso viene toccato proprio dai “militanti” (o comunque da coloro che si possono ritenere più o meno impegnati e/o più interessati rispetto alla media) nei momenti che seguono la sconfitta, in cui ci si lascia andare ai penosi sproloqui contro gli italiani che “si meritano quello che hanno”. Costoro non vengono minimamente sfiorati dall’idea che se un capitano non riesce a farsi seguire dal suo esercito, la soluzione non sta nell’inveire contro di esso, ma nel guardarsi allo specchio chiedendosi in cosa si è sbagliato. Non c’è nulla di più odioso, in politica, di chi è incapace di fare i conti con le proprie insufficienze e sfoga la propria frustrazione contro chi non lo segue, producendo come risultato soltanto ulteriore rassegnazione, disaffezione e passività.
Questa riflessione è tanto più importante se si pensa che negli ultimi mesi intere strutture si sono mobilitate per organizzare nuovi referendum, in parte anche condivisibili, ma accomunati dall’assenza di una reale progettualità di fondo che vada oltre la mera rincorsa dell’ennesimo miraggio nella speranza che tutto si risolva e che nasca il grande partito della sinistra, che come Syriza diventerà il nuovo centro-sinistra, scalzando un vecchio centro-sinistra che oggi sembra più un centro-destra. In questo contesto, i comunisti devono avere la forza di andare per la propria strada, valutando lucidamente i referendum e sostenendoli quando opportuno, superando però una certa tendenza all’accodarsi che ha giocato un ruolo non secondario nel disastro di questi anni. E soprattutto, riportando un passaggio del comunicato con cui il FGC si espresse in favore del SI al referendum, è essenziale tenere a mente che «solo la costruzione del Partito Comunista potrà assicurare continuità nelle lotte, impulso affinché esse siano indirizzate nella rottura degli interessi monopolistici, legando le aspirazioni migliori dei lavoratori e dei giovani ad un progetto di cambiamento rivoluzionario della società. Solo lavorando per cambiare gli attuali rapporti di forza sarà possibile ottenere posizioni più avanzate, solo spezzando il sistema di dominio del capitale sarà possibile ottenere vittorie definitive per il popolo italiano». Ed è proprio questo lavoro che si rivelerà l’unico capace di fare la differenza.