Prima ancora che tutte le città d’Italia fossero ancora liberate, viene proiettato nei cinema una delle opere più note e rappresentative del neorealismo italiano: “Roma città aperta” nel 1945, del regista romano Roberto Rossellini. Un film d’avanguardia nel raccontare il periodo della seconda guerra mondiale e la resistenza, le atrocità del fascismo per la prima volta sullo schermo in tutta la loro violenza. Con il film della celeberrima scena della morte di Teresa Gullace, interpretata dalla mitica Anna Magnani, si apre ad un cinema che vuole parlare della storia recente dell’Italia, che tiene viva la memoria; fino agli anni sessanta molte sono state le opere cinematografiche che hanno reso protagonista l’Italia che ha resistito alle brutture e alle violenze del fascismo. Nel ’46 esce “Paisà”, del 1959 è “Il generale della Rovere”, entrambe sempre di Rossellini, “Achtung!Banditi!” di Lizzari C. è del 1951 , “Le Quattro Giornate” di Napoli di Nanni Loy è del 1962: questi sono solo alcuni dei titoli che hanno dato lustro al cinema italiano in quegli anni.
Da non dimenticare nemmeno “I sette fratelli Cervi” di Puccini, con la memorabile interpretazione di Gianmaria Volontè nelle vesti di Aldo, del 1968. Seppur leggermente distante a livello temporale, non si può non ricordare C’eravamo tanto amati ( 1974 ), del recentemente scomparso Ettore Scola, in cui il regista delinea l’Italia del dopo secondo dopo guerra attraverso le storie di tre amici partigiani e di come qualcuno di loro si sia riadattato alla “nuova” Italia e di chi invece rimane legato agli ideali della Resistenza. “Il partigiano Jhonny” di Guido Chiesa e tratto dall’omonimo romanzo di Beppe Fenoglio, è uno dei pochi film recenti che possiamo ricordare, esce infatti nel 2000. Altro film, meno noto dell’ultimo, è “L’uomo che verrà” di Giorgio Diritti del 2009, che ricostruisce il feroce rastrellamento ricordato come la Strage di Marzabotto.
Uno scarso interesse per questo importante periodo storico, almeno degli ultimi quarant’anni, è sospetto di una memoria storica che sta andando via via scemando, interesse che viene sempre di più lasciato nelle mani dei documentaristi, che pur nella loro importante opera di far riemergere e di custodire la memoria, rimane purtroppo per un pubblico di nicchia che non riesce ad assumere un carattere veramente di massa.
I Piccoli Maestri
Uno dei film più recenti che ha raccontato le gesta di quei giovanissimi che scelsero di abbandonare la propria famiglia, il lavoro e lo studio per intraprendere la via della montagna è “I Piccoli Maestri“: tratto dall’omonimo romanzo di Luigi Meneghello, partigiano del Partito d’azione, nominato nel ’44 dal CLN della Regione Veneto comandante del «reparto universitari», per la regia di Daniele Lucchetti.
Tra le montagne dell’altopiano di Asiago, tra il vicentino e la provincia di Padova, questo gruppo di giovani ribelli diede il proprio contributo alla lotta di Liberazione, tra l’entusiasmo dei ragazzi di partecipare al cambiamento e la naturale paura dovuta anche all’inseperienza. Un film che inquadra molto bene una generazione di ventenni che decisero di scrivere la storia partendo alla volta dei monti solo con un grande sogno: spazzare via il fascismo. Con la consapevolezza che non ci sarebbe stato un futuro e una società degna in cui poter vivere, senza sacrificare parte della propria gioventù combattendo con le armi il nemico. Mossi da un forte senso di responsabilità nei confronti del proprio Paese e del proprio futuro, spinti forse anche dall’incoscienza e dall’intraprendenza che caratterizza la gioventù. Una dura lotta fatta di rivoluzione, gloria e solidarietà ma anche di sbagli, sofferenze e di morte.
Un film che nella sua semplicità riesce ad inquadrare quella che era la vita dei partigiani sulle montagne, una lotta fatta di battaglie, rastrellamenti, errori, sabotaggi e di conquiste. La «banda dei giovani educati» che ha dovuto imparare a comprendere la grandezza, l’importanza e la necessità di regole e di una attenta organizzazione: a tal proposito, grande è l’esempio dei comunisti delle Brigate Garibaldi che anche nel film, appaiono maggiormente organizzate e combattive. Sono loro infatti quelle che non abbandonano i monti all’appello degli inglesi di deporre le armi durante l’inverno, ma continuano senza tregua la lotta armata di liberazione. I giovani universitari, abituati a fare delle parole la propria bandiera, si trovano a dover ammettere che con il solo studio non si combina nulla, che la pratica può vincere sui libri, che il buonsenso il pragmatismo possono vincere sulle nozioni teoriche.
Desiderare, pensare di partecipare alla Resistenza e poi farla davvero non possono essere equivalenti: questa “maturazione” personale è evidente in ogni scena del film, in un crescendo sempre maggiore fino al “giorno X”. Un’organizzazione di fitte reti, di clandestinità, di azioni di Brigata ma anche di SAP e GAP, in cui il lavoro dei Comitati femminili e delle staffette diventa imprescindibile. La Resistenza nelle montagne e quella in città, la liberazione della città di Padova per mano dei partigiani, la sofferenza del post Liberazione, la conta dei morti, la vigliaccheria di chi durante il fascismo era connivente e poi si riscopre antifascista.
Un film che rifugge il liriismo e che, fedele allo stile di Meneghello, tratteggia senza troppa retorica parte dello spaccato umano che ha caratterizzato il movimento resistente in cui alla rabbia e alla delusione per una “mezza liberazione” di un’Italia distrutta si unisce la gioia di aver portato a termine, in ogni caso, una grande vittoria.