di Alessandro Mustillo*
La parabola dell’Unione Europea ha imboccato la curva discendente. Quello che fino a pochi anni sembrava come un progetto stabile, indiscutibile, vedeva a sostegno un blocco dirigente compatto, oggi subisce i primi colpi della disgregazione. La storia dimostra ancora una volta che l’apparente staticità – quella che ci raccontano gli apparati ideologici delle classi dominanti – può essere rovesciata, travolta dai fenomeni che accadono al di sotto della superficie che agli occhi distratti appare immutabile, che modificano i rapporti di forza, rovesciando la direzione degli eventi. Negli ultimi dieci anni, dall’inizio della crisi ad oggi, il consenso alle politiche europee e all’idea stessa di Europa unita è andato progressivamente perdendosi, specialmente nelle classi popolari ed oggi il risultato del referendum britannico rende chiarissima questa tendenza, oltre le già notevoli avvisaglie elettorali avute in questi ultimi anni.
Insieme all’Europa si registra il fallimento della sinistra europeista, quella vasta (ultramaggioritaria) corrente di pensiero che in ottica di compromesso ha provato a dare all’Unione imperialista, tecnocratica, ultracapitalista della realtà, la visione di progressista di un sogno. Solo i comunisti negli anni ’50 ebbero la lucidità di opporsi in modo compatto al nascente mercato unico europeo, che vedeva il favore della socialdemocrazia. L’allentamento in molti partiti di una visione marxista ha compromesso questa compattezza. Dall’eurocomunismo in poi l’accettazione dell’orizzonte comune europeo ha modificato una visione internazionalista nell’accettazione dell’Europa unita e delle sue istituzioni, dei suoi meccanismi, come terreno di azione nella ricerca della modifica riformista della politica europea. Un errore storico enorme, che ha condannato la sinistra post-comunista e quanti oggi siedono nel Partito della Sinistra Europea ad abdicare completamente al proprio ruolo storico, a divenire in molti casi (leggasi Grecia) il più potente difensore della UE. Ma i sogni sono una cosa, la realtà concreta un’altra ed è quella che in ultima istanza pesa nel giudizio della storia, che modifica le idee, ben più di quanto ogni forma ideologica sia in grado di fare il contrario.
L’Europa che la sinistra ha difeso aveva da tempo perso anche quei minimi margini di compromesso, che potremmo definire sinceramente socialdemocratico, che derivavano dal contesto storico della contrapposizione di sistema tra URSS e paesi capitalistici. In un processo speculare e intimamente connesso con quanto accaduto nei singoli paesi, determinato dalle medesime necessità economiche, il compromesso socialdemocratico, keynesiano, riformista, ha lasciato il posto al pieno e completo sviluppo delle politiche più favorevoli al capitale, in un’ottica di rapporti di forza mutati completamente a favore delle forze capitalistiche. Ogni freno alle politiche di attacco alle classi popolari si è perso, e la sinistra europea è restata a difendere un modello ideale – quello dell’Europa del Manifesto di Ventotene – che mai ha avuto neanche parziale attuazione, che era storicamente insufficiente per la fase in cui fu concepito, che si basava su un’errata valutazione delle reali possibilità di un processo di tale genere, e che soprattutto collideva sempre di più con il reale volto dell’Unione Europea, percepito ogni giorno di più dalle classi popolari sulla propria pelle. La sinistra ha perso il suo terreno di lotta, la sua funzione storica di guidare le masse popolari nel percorso della loro emancipazione, ha perso ogni capacità di porsi alla testa di questo fenomeno storico, lasciando colpevolmente spazio a movimenti di altra estrazione politica.
La questione da tempo non è più se e come il progetto europeo si romperà, e il voto britannico ne è una conferma. Il punto è quale sarà la direzione del movimento popolare che porterà alla rottura del quadro europeo, se essa avrà una connotazione progressista, socialista, o se sarà capeggiata da forze di carattere nazionalista, facendo in sostanza passare i popoli europei, per usare un’espressione chiara, dalla padella alla brace. Qui sta oggi il terreno d’azione dei comunisti: qui si crea uno spartiacque storico tra le forze che stanno da una parte e quelle che stanno dall’altra. È rispetto alla storia che si comprende per quale motivo è oggi impossibile una politica unitaria, o un’ottica frontista con le forze politiche della sinistra europea che stanno oggettivamente dall’altra parte della barricata, e che con la loro linea stanno lasciando all’estrema destra la guida del movimento popolare di attacco alla UE. Né c’è da sperare che le forze reazionarie “facciano il lavoro per noi”. Né da riporre fiducia in quei progetti privi di guida politica come il Movimento 5 stelle, che si stanno accreditando agli occhi delle classi dirigenti europee come fattore di stabilizzazione dell’instabilità, il cui unico ruolo storico può essere rimandare (forse e non è chiaro di quanto) l’appuntamento e i problemi di direzione politica connessi, catalizzando la protesta in un voto senza sbocco, ma non cancellarlo.
Il punto vero – piaccia o no – è che oggi le classi popolari non sono e, in mancanza di guida, non potrebbero essere, l’attore principale dei processi che si stanno innescando. Sono il convitato necessario, il voto che pesa, ma non la direzione politica. L’Unione Europea, e ancora di più la prospettiva di allargamento del mercato unico con il TTIP e i trattati connessi, insieme con la crisi e la congiuntura internazionale di sistema, con l’emergere di nuove potenze capitalistiche, ha creato fratture trasversali ai singoli paesi nelle classi dominanti europee, che oggi non parlano più la stessa lingua. La piccola e media borghesia sono schiacciate dal mercato unico. Sono questi gli strati sociali che oggi determinano la linea del processo storico. Le classi popolari in mancanza di interlocutori nel campo progressista, si pongono alla coda di queste rivendicazioni, salvo rarissimi casi, a dire il vero, estremamente isolati nel continente. Nel proletariato pesa di più la guerra e la competizione al ribasso sul lavoro, la questione dell’immigrazione trasversale interna alla UE e verso i suoi paesi, che non un’ottica di lotta di classe, verticale, che metta in discussione il modello di sistema. E’ una lotta estrema di difesa, non di attacco. Inutile farsi illusioni facili. Nell’attuale condizione, la mancanza di anni di lavoro coerente, hanno reso il terreno fertile per ritorni di fiamma di nazionalismi e fenomeni connessi, piuttosto che per uno sbocco progressista di questa fase.
Quei movimenti alla guida del processo di rottura della UE saranno altre catene, nuove forme di governi, ma stesso sfruttamento. A settori delle classi dominanti, si sostituiranno altri settori, ma sempre su stesse regole, quelle capitalistiche. Non c’è lotta di sistema ma una contesa di posizioni, in cui, di per sé, le classi popolari non hanno nulla da guadagnare. Se queste contraddizioni potranno essere sfruttate in ottica differente sarà solo con un’organizzazione che ribalti gli interessi in gioco, eviti la saldatura dei settori della piccola borghesia al disegno reazionario di una parte delle classi dominanti, e al contrario ponga al centro il protagonismo e gli interessi delle classi popolari. È su questo terreno che i comunisti sono oggi chiamati a operare. Evitando tentennamenti, frammentazioni tra le forze che condividono con coerenza una linea di rottura della UE, con le forze politiche che sono ad essa collegate (quindi anche socialdemocratici e Sinistra Europea), con le forze sindacali di classe, che hanno posto la questione della UE nella loro lotta. Ogni lotta è utile, anche la prossima campagna referendaria. La posta in gioco è ribaltare rapporti sfavorevoli. Sarà possibile? E’ l’unica strada.