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Centri estivi, sfruttamento giovanile e mancanze dello Stato

Carlo è un ragazzo appena maggiorenne e la sua giornata ha inizio alle 6.30 del mattino. Nulla di strano se si alzasse dal letto d’inverno per andare a scuola e non per cominciare il turno di lavoro alle 7.30 in piena estate. Eppure la realtà è questa: arrivato sul posto di lavoro, si rimbocca le maniche e per dieci ore circa compie il suo dovere per guadagnare la misera paga che gli spetta, meno di due euro e cinquanta all’ora, ovviamente in nero. Una tragicommedia sembrerebbe, una presa in giro o, al massimo, il solito resoconto della giornata lavorativa di un giovane immigrato che raccoglie pomodori in qualche lontano appezzamento di terreno gestito dalla criminalità organizzata.

Invece no. Tutto ciò accade nella nostra civilissima Roma, capitale d’Italia, in cui esistono strutture che rendono possibile a giovani al di sotto dei venti anni (talvolta anche minorenni) di lavorare per così tante ore, gravandoli di responsabilità – prima fra tutte, quella di garantire la sicurezza di bambini di età compresa fra i tre e i quindici anni – senza diritti di alcun tipo. Come forse avrete intuito, stiamo parlando del business dei centri estivi, che garantisce grandissimi profitti a padroni e gestori dei circoli nei quali si svolgono tali attività, i quali speculano spesso e volentieri sul disagio di molti genitori che, dovendo lavorare anche nei mesi estivi e non avendo la possibilità di affidare a qualcun altro i propri figli per non lasciarli soli, si vedono costretti a rivolgersi a tali strutture.

Carlo, come altri ragazzi, ci racconta che svolge questo lavoro al fine di fare esperienza e di racimolare qualche soldo da spendere per l’estate e per delle ripetizioni di matematica, in modo tale da non gravare molto sul bilancio familiare. Se avesse trovato lavoro altrove (dove però è richiesta già una certa esperienza- “ma come fare esperienza se non si viene assunti?” sorge spontanea come domanda), probabilmente non si sarebbe prestato ad un impiego simile, vendendo la propria forza-lavoro a uomini senza troppi scrupoli, pronti a lucrare sul bisogno creato anche da alcune “mancanze” da parte dello Stato.

Nei centri estivi romani i genitori pagano mediamente, escludendo casi di lusso estremo, tra i novanta e i duecento euro per bambino, variazione che dipende sia dal circolo preso in considerazione sia dai pacchetti offerti alle famiglie (prezzi ridotti se vengono portati più figli, se vengono lasciati per più settimane, e così via…).

Nel caso del nostro amico Carlo, il numero di bambini ospitati ammonta a circa ottanta, di cui si occupa uno staff di otto ragazzi ad organico completo (non tenendo dunque conto del fatto che in alcuni giorni ci sono anche meno animatori a disposizione).

Questi ragazzi vengono retribuiti con circa centoventi euro settimanali per cinque giorni di lavoro, per un totale di cinquanta ore; dunque il “padrone” riesce a levarsi l’impaccio di pagare i propri lavoratori con il guadagno che ricava da otto/nove famiglie su ottanta e ad intascarsi, se non tutto il resto a causa delle varie spese a cui va incontro, comunque una bella somma di danaro.

Ma questa realtà non deve assolutamente meravigliarci: tutto ciò accade con il benestare del Comune e dello Stato che, continuando a tagliare sulle spese sociali e non offrendo servizi popolari in aiuto alle famiglie, di fatto le gettano, anche se indirettamente, nelle mani dei padroni dei centri estivi, quasi sempre facoltosi proprietari di circoli sportivi o gestori di cooperative che non si fanno scrupoli a speculare in maniera esagerata sulle necessità di genitori senza alternative e di giovani che, in condizioni di bisogno economico, si prestano a tale sfruttamento poiché non vedono altre prospettive.

A volte poi può capitare di imbattersi persino in situazioni al limite del paradosso. Accade ad esempio nel quartiere Tuscolano, dove uno dei tanti centri estivi è gestito da una cooperativa privata ma eroga il suo servizio all’interno di una scuola pubblica.

Ecco quindi che lo Stato mostra la sua vera natura all’interno del sistema capitalistico, ovvero quella di contribuire al profitto privato a spese della Cosa Pubblica e della collettività. La scuola di cui stiamo parlando, se ricevesse fondi adeguati, avrebbe tutte le possibilità per offrire un simile servizio, indubbiamente a costi popolari ed offrendo occupazione in condizioni dignitose.

Invece si trova nella situazione di dover appaltare ad un privato, e la ragione la si comprende alla luce delle riforme scolastiche degli ultimi 25 anni, in particolar modo quella della Buona Scuola, le quali mettono gli istituti, vittime continui tagli di fondi pubblici, nella condizione di dover cercare partnership economiche di vario tipo per sopravvivere. In questo caso ci troviamo dinanzi ad un istituto che ha dovuto cedere i propri spazi a dei privati, pronti ad accoglierli per fare profitto.

Le domande di fronte a queste situazioni sono molte. Perché lo Stato lascia le famiglie in balia dei padroni dei centri estivi, che in molti casi beneficiano della loro disperazione? Perché dei giovani per pagarsi delle ripetizioni, che la loro scuola non gli offre, devono svendere la loro manodopera?

Perché degli istituti scolastici pubblici, che si sobbarcano tutti i costi di gestione degli edifici, li danno poi in gestione a dei privati pronti a trarne profitto?

A tutte queste domande rispondono le lotte del Partito e della Gioventù Comunista.

Per conquistare un modello d’istruzione gratuita, di massa e di qualità in cui un giovane non debba mai più farsi sfruttare per ricevere un aiuto nel suo percorso formativo.

Per una nuova società, libera dallo sfruttamento padronale, in cui ci sia una reale attenzione ai temi sociali e sia lo stato ad assumersi la responsabilità di gestire i bisogni delle famiglie, aiutandole e non dandole in pasto a chi con loro vuole semplicemente guadagnare.

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