Sta suscitando molto scalpore in questi giorni l’affermazione del deputato di Sinistra Italiana, Arcangelo Sannicandro, che opponendosi alla riduzione dell’indennità dei parlamentari ha ritenuto opportuno sottolineare di non appartenere certo «all’ultima categoria dei metalmeccanici o dei lavoratori subordinati». Una affermazione strana, sottolineano tutti i giornali, quando proviene da una sinistra che dovrebbe difendere il lavoro e da un deputato addirittura definito “ex comunista”.
In realtà chiunque segua le vicende che riguardano questo gruppo parlamentare e i recenti tentativi di costruire a partire da SI-SEL una nuova “cosa” di sinistra, sa benissimo che c’è ben poco di strano. Il fatto è proprio che questa sinistra non ha nulla a che vedere con il lavoro, sa poco o nulla del movimento operaio con cui da tempo non condivide esperienze di lotta (fosse anche di sconfitta).
A poco servono le scuse, le smentite, le spiegazioni, perché le parole hanno un significato e in casi come questo pesano come macigni sul consenso dei lavoratori nelle forze che vengono percepite di “sinistra” (fra le quali, al netto di ogni considerazione, rientrano anche i comunisti nella percezione comune). Sannicandro non è un caso isolato o una “mela marcia” della sinistra. È al contrario il prodotto coerente di quel processo che ha trasformato la sinistra, un tempo rappresentata dal PCI, nel principale amministratore degli affari di questo sistema.
La sinistra “radicale”, in Italia identificabile con SI-SEL e in generale con i partiti che fanno riferimento alla Sinistra Europea, non è esclusa da questo processo, ma al contrario oggi cerca di affermarsi a livello europeo (talvolta con scarsi risultati, come nel caso italiano) come una “nuova” socialdemocrazia, puntando semplicemente a sostituire la socialdemocrazia storica che oggi vive una crisi di consenso essendosi eccessivamente compromessa. La fantomatica “radicalità” di questa sinistra sta solo in una maggiore attenzione ai diritti civili, in una prospettiva riformista che bene è stata sintetizzata da Fassina qualche tempo fa («sinistra come forza di civilizzazione del capitalismo»), in una difesa appassionata dell’Unione Europea (cioè dell’indifendibile) di cui si esaltano le “nobili” origini. Una sinistra da salotto, piena di spocchia intellettuale, che da tempo si tiene a distanza dal mondo del lavoro che è stato ormai sostituito dalla “società civile” come nuovo riferimento sociale.
La questione fondamentale sta proprio nel protagonismo del mondo del lavoro, che in assenza di un Partito che sappia organizzarlo rischia di scomparire (usando un’espressione gramsciana) nel popolo indistinto. Processo che è sicuramente accelerato da affermazioni come quella di Sannicandro, che alimentano la banale polemica contro la “casta” oggi tanto funzionale a questo sistema nella misura in cui occulta la reale contraddizione che è quella fra capitale e lavoro, finendo per assolvere i mandanti mentre si punta il dito contro gli esecutori. È proprio sulla centralità del lavoro che si misura la distanza fra i comunisti e la sinistra, che oggi è infinitamente maggiore della differenza che esiste fra la sinistra e tutte le altre forze politiche. Per questa sinistra i lavoratori sono una classe alla quale è meglio non assomigliare, utile al più per prendere qualche voto. Per i comunisti i lavoratori sono la classe di riferimento, senza la quale non si può pensare ad un reale cambiamento in questo paese e nel mondo.