*di Paolo Spena
Nella polemica sul burkini tutti si sentono in dovere di dire la propria, ma come spesso avviene il dibattito si polarizza su due posizioni tanto errate quanto speculari o comunque complementari l’una rispetto all’altra. Da una parte una destra storicamente conservatrice che nel nome dell’islamofobia e del banale razzismo si riscopre in difesa della donna. Dall’altra, in parte spiazzata dalle dichiarazioni del premier francese Valls, una sinistra che a casa propria vede il sessismo anche dove non c’è, ma difende, non senza ipocrisia, persino gli aspetti oscurantisti e arretrati propri delle culture esotiche nel nome della tolleranza e della non discriminazione. Nessuno però dice la cosa più importante: il reale effetto dei provvedimenti contro il burkini non sarà una maggiore integrazione delle donne islamiche o una loro maggiore emancipazione rispetto all’imposizione religiosa del velo; al contrario l’unica conseguenza possibile è una reazione di chiusura a riccio da parte delle comunità islamiche, un ulteriore arroccamento su posizioni tradizionaliste e autoreferenziali che sono, tra l’altro, il terreno più fertile per l’avanzata dell’estremismo islamico anche nei paesi europei.
La nostra riflessione deve svilupparsi su un terreno diverso. I comunisti sono contrari ogni forma di oppressione religiosa, come sono contrari a ogni forma di oppressione della donna, e in primo luogo delle donne della classe lavoratrice. Il velo islamico (e di conseguenza il burkini) è frutto di un dogma religioso che vuole la donna naturalmente impura e sottomessa come se fosse una proprietà del marito; elemento che, tanto per essere chiari, rende vana ogni discussione sulla “libertà di scelta”. Non c’è nessun cedimento all’islamofobia in questa posizione, perché la religione islamica non occupa certo un posto esclusivo rispetto alle altre. Per secoli le donne europee, cristiane e timorate di Dio, sono state sinceramente convinte della giustezza della loro sottomissione ai propri mariti accettando di subire in silenzio ogni sorta di ingiustizia; ancora oggi nel nome della religione si cerca di vietare alle donne una serie di diritti, ad esempio il diritto all’aborto e, fino a qualche decennio fa, al divorzio. La religione, che specie in periodo di crisi si trasforma in un elemento di “consolazione” dinanzi alla realtà esistente, è da sempre un’arma potente nelle mani delle classi dominanti per la conservazione dello status quo.
In quest’ottica i comunisti sono contrari al velo islamico, ma questa posizione non può tradursi in un divieto imposto dall’alto, quanto piuttosto in una lotta condotta a contatto con la massa, con una attività quasi pedagogica per dirla con Gramsci, nei confronti dei musulmani che oggi fanno parte a tutti gli effetti della classe lavoratrice in Europa. Nei paesi musulmani i partiti progressisti, e in primis i comunisti, hanno sempre combattuto l’imposizione del velo islamico. La costruzione del socialismo in Unione Sovietica fu accompagnata, nelle regioni musulmane dell’URSS (i paesi dell’Asia Centrale), da una lotta per l’emancipazione delle donne dall’oppressione patriarcale. La giornalista americana Anna Strong, in un suo racconto di quegli eventi vissuti in prima persona[1], racconta proprio delle lotte contro l’imposizione del velo, di cortei dell’8 marzo in cui le donne sfilavano assieme dopo aver gettato i veli a terra, delle pressioni del partito comunista sui suoi membri affinché permettessero alle mogli di togliersi il velo. Molto più celebri delle vicende narrate da Anna Strong sono le foto delle donne afghane negli anni ’70-80, durante il governo comunista, a passeggio per strada senza velo, ma si potrebbero citare le esperienze dei paesi arabi che furono influenzati in varia misura dalle idee socialiste, dall’Egitto alla Siria, come ulteriori esempi.
L’immigrazione di massa in Europa ci pone dinanzi a nuove sfide. L’ingresso nella classe lavoratrice di migliaia di lavoratori dalla differente identità culturale e religiosa rende assolutamente centrale la questione dell’unità della classe lavoratrice, che le forze di estrema destra cercano di dividere sulla base di questi elementi. La minaccia, più che di uno “scontro di civiltà”, di una guerra fra poveri innescata dalle contraddizioni economiche, sul cui fuoco soffiano le diversità etniche e religiose, è sempre più incombente. Da una parte il razzismo che avanza fra i lavoratori dei paesi europei, dall’altra l’islamismo radicale che per reazione speculare rischia di trasformarsi in un collante micidiale per i proletari di religione musulmana. Se l’unità della classe lavoratrice resta una posizione dichiarata, ma non praticata nella realtà, il rischio è di uscire perdenti dinanzi all’avanzata dell’estrema destra e dell’islamismo. Per questo non ci sono scorciatoie, e l’unico argine alle crescenti frammentazioni del proletariato è il radicamento dei comunisti, che solo rende possibile la costruzione di una reale unità fra lavoratori italiani e immigrati sui luoghi di lavoro, nelle scuole, nei quartieri popolari. Fondamentale sarà il ruolo della gioventù comunista, perché è proprio nelle scuole, dove c’è una maggiore condivisione di rapporti umani, che è più facile gettare i semi di quella coscienza di classe, intesa come consapevolezza di appartenere tutti a una classe sfruttata, che di per sé spazza via ogni forma di discriminazione.
In conclusione, opporsi al velo islamico è giusto, così come è giusto combattere ogni forma di oppressione religiosa, ma diventa sbagliato e dannoso se avviene con modalità che incoraggiano una maggiore frattura fra i lavoratori, spingendo i musulmani sulla difensiva con l’unico risultato di produrre una maggiore chiusura su posizioni estremiste. La sfida è trasformare la lotta contro l’imposizione del velo e contro gli aspetti più oppressivi della cultura islamica (e di ogni religione più in generale) in un elemento di unità invece che di divisione, nell’ottica più ampia dell’unità della classe operaia indipendentemente dagli aspetti culturali, etnici o religiosi. Far avanzare la coscienza di classe, in fondo, significa anche educare le masse a comprendere il ruolo della religione: è solo su questo terreno, nel quale si parla ai lavoratori musulmani in quanto lavoratori e lavoratrici, e non come musulmani, che si potrà parlare di emancipazione delle donne dall’imposizione del velo.
[1] Anna Louise Strong, L’era di Stalin (La città del sole, 2004), pag 97-100