In questi giorni si tengono in tutta Italia i test di ammissione per le facoltà a numero chiuso. Domani si terrà il fatidico test di medicina, che decine di migliaia di studenti affrontano ogni anno. Senza alcun dubbio il numero chiuso in Italia non ha nulla a che vedere con il merito o con la razionalizzazione delle risorse, né tantomeno col numero di posti di lavoro realmente disponibili. Oggi è evidente come i test siano diventati funzionali alla riduzione della spesa pubblica, da una parte legittimando la riduzione dei finanziamenti all’università, dall’altra preparando il terreno per la dismissione della sanità pubblica come nel caso dei test di medicina (meno medici e infermieri serviranno a chiudere o ridimensionare le strutture sanitarie pubbliche, a vantaggio del privato).
In Italia i test d’ingresso fotografano le differenze fra le condizioni socio-economiche da cui parte ciascuno studente, e contribuiscono ad acuirle. Quella che viene spacciata per una selezione in base al merito in realtà non tiene conto della situazione economica che ha spinto lo studente a scegliere una scuola piuttosto che un’altra, magari un istituto tecnico invece di un liceo, o che gli ha reso possibile o meno la frequentazione di corsi privati per la preparazione al test, che finisce per diventare l’ultima tappa di un processo di selezione di classe che rende sempre più inaccessibili i livelli più alti dell’istruzione. Questo processo è inoltre acuito da una gestione assolutamente irrazionale dei test, pessima persino dal punto di vista puramente amministrativo, che rende tutto molto simile a una vera e propria lotteria.
Chi si oppone al numero chiuso in Italia, però, lo fa partendo da posizioni assolutamente errate. In particolare a sinistra ci si limita a chiedere la sua abolizione e a rivendicare l’accesso libero a ogni facoltà, e questa posizione viene ritenuta coerente con la rivendicazione di un diritto allo studio effettivo e per tutti. In realtà la pianificazione dei numeri di accesso a determinate professioni non è un qualcosa di sbagliato per principio, perché non può esistere una società in cui tutti fanno i medici o gli ingegneri. Chi a sinistra parla di aprire le porte dell’università e di libertà di seguire le proprie inclinazioni non si rende conto di essere, suo malgrado, un grande fautore della legge della concorrenza propria del libero mercato. Senza una correlazione fra il numero di laureati e il numero di posti di lavoro qualificato realmente disponibili, cosa succederebbe? Semplicemente il mercato del lavoro “scarterebbe” un certo surplus di laureati, a cui sarà stata venduta l’illusione della scalata sociale per poi rigettarli inesorabilmente nella realtà dello sfruttamento e della precarietà. In Italia, tra l’altro, le iscrizioni di massa ai test di determinate facoltà (come medicina) sono diventate un fenomeno sociale, indice non tanto di una diffusa ambizione di diventare medici, quanto piuttosto di un diffuso tentativo di scappare con ogni mezzo da un futuro di precarietà.
Il numero programmato nell’accesso a determinate facoltà ha senso se è effettivamente inserito nel contesto di una pianificazione nazionale che consenta ai giovani il diritto ad avere un lavoro stabile e un futuro senza precarietà. Non è difficile comprendere che la soluzione non sta semplicemente nell’apertura delle facoltà a numero chiuso per poi lasciare che sia il mercato del lavoro a decidere chi potrà “farcela” e chi no, come vorrebbe chi tuona contro il numero chiuso per una questione di principio. La lotta deve spostarsi su un terreno più ampio, e la ragione è sotto gli occhi di tutti. Il fatto che migliaia di giovani oggi cercano di sfondare le porte dell’università come se stessero chiedendo asilo, perché al di fuori ci sono solo sfruttamento e precarietà, è esattamente parte del problema; ma aprire quelle porte per lasciare semplicemente entrare tutti, senza curarsi delle conseguenze, non è di per sé la soluzione.