*di Lorenzo Scala
Negli ultimi giorni si è tornato a parlare del Venezuela, paese che dai grandi mezzi di comunicazione ci viene descritto come in uno stato di profonda prostrazione economica, al limite del collasso. Le immagini più ricorrenti ed evocate da quasi tutti i giornali, sia di destra che di “sinistra”, sono quelle di supermercati vuoti, mancanza di medicinali, code interminabili davanti ai pochi e miseri centri di distribuzione popolare. Per completare il quadro, l’opinione pubblica mondiale subisce passiva la rappresentazione di un governo venezuelano inefficiente e irresponsabile, ancorato a un’ideologia socialista che, sottraendosi alle infallibili leggi del mercato capitalistico, sembrerebbe avere come unico risultato quello di creare miseria e malcontento.
Diverse volte si sono usate parole denigratorie che i monopoli mediatici dell’informazione hanno sempre gran piacere di associare ai governi socialisti: regime, dittatura, repressione. Le radici del “male” venezuelano risiederebbero quindi nello stesso orientamento politico del PSUV, il partito dell’attuale Presidente del Venezuela e dirigente della rivoluzione bolivariana Nicolas Maduro, successore di Hugo Chavez. In questo senso, la sconfitta economica del Venezuela dovrebbe essere la dimostrazione di un’ennesima e forse definitiva sconfitta del socialismo. La verità è però che l’innegabile quanto profonda crisi che sta attraversando il paese latinoamericano è la causa diretta di una guerra sotterranea condotta contro il governo di Maduro. Una guerra economica di carattere imperialista e voluta dagli Stati Uniti, dai governi di destra sudamericani e dalla borghesia venezuelana.
In primo luogo va chiarito come l’economia del Venezuela stia venendo fortemente destabilizzata da un mercato petrolifero arbitrario e da speculazioni economiche interne portate avanti dal capitale privato. Il Venezuela, anche a causa della sottovalutazione dell’importanza del controllo statale e operaio sulla produzione, è ancora fortemente dipendente dall’esportazione di petrolio e l’andamento della sua economia dipende quasi esclusivamente da questa. Negli ultimi anni si è registrato un drastico calo dei prezzi del greggio, e da 110 dollari al barile nel 2013 se ne è passati oggi a 50. L’Arabia Saudita, anch’essa grande produttrice di petrolio e alleata degli Stati Uniti, si è recentemente rifiutata di tagliare la produzione di greggio per favorire così la ripresa dei prezzi petroliferi. Si tratta di una manovra funzionale agli interessi statunitensi ed europei che danneggia grandemente il Venezuela, che così vede i guadagni per le sue esportazioni ridotti fino all’osso. Inoltre tutti i beni di prima necessità importati, invece che finire nei supermercati statali, per una corruzione dilagante vengono dirottati verso il mercato nero o venduti da speculatori privati a prezzi gonfiatissimi.
Le classi capitaliste del Venezuela usano questa situazione a loro vantaggio anche a livello politico. Sono solo di qualche giorno fa i reportage sulle centinaia di migliaia di persone che hanno invaso le strade di Caracas perché chiamate a raccolta dall’opposizione unificata venezuelana. Quest’ultima è organizzata nella cosiddetta Tavola dell’Unità Democratica, un agglomerato di tanti partiti diversi ma che alla fine finiscono tutti per essere portavoce della destra più retrograda. L’anno scorso l’opposizione ha ottenuto un’enorme maggioranza alle elezioni legislative, sfruttando la crisi economica e usando come capro espiatorio il governo bolivariano anche davanti ad alcuni strati popolari. Ora l’obiettivo della destra è la cacciata di Maduro, da attuare attraverso un referendum previsto dalla Costituzione e volto alla destituzione del Presidente in carica. Pur appellandosi alle leggi del Venezuela, la destra è riuscita a mettere in moto il progetto del referendum – il secondo passaggio, l’ultimo prima dell’effettiva consultazione, ci sarà dal 24 al 30 ottobre – solo attraverso metodi intimidatori e fascisti che non le sono affatto nuovi: bande paramilitari armate sono state sguinzagliati per tutto il paese con l’incarico di provocare scontri e morti. Come se non bastasse, da mesi si paventano una possibile espulsione di Caracas dall’Organizzazione degli Stati Americani e l’applicazione della Carta democratica interamericana, una misura che potrebbe anche portare a un intervento militare straniero che di certo verrebbe guidato dalla più grande testa di ponte imperialista nell’America Latina, la Colombia.
L’esperienza bolivariana in Venezuela oggi vive momenti difficili dovuti, oltre che alla guerra economica che il capitale conduce contro questo paese, anche alle criticità intrinseche nel modello del “socialismo del XXI secolo”. È indubbio che per la nostra generazione l’esperienza venezuelana ha dimostrato più di ogni altra cosa che il socialismo non era una pagina archiviata dalla storia del ‘900, ma una prospettiva ancora oggi attuale e necessaria. Ma il Venezuela ha al contempo dimostrato che il semplice cambio di secolo non fa venir meno la validità di alcuni elementi strategici fondamentali per la teoria marxista e confermati dall’esperienza storica del movimento operaio. Il governo venezuelano ha continuato per anni a misurarsi con i settori del grande capitale, con la borghesia nazionale e internazionale, sul terreno delle istituzioni democratico-borghesi. La prospettiva in tutti questi anni è sempre stata quella di restare al governo, ma mai è stata affrontata la questione del potere politico e soprattutto economico. Fino a oggi non è ancora stata edificata una vera e propria industria nazionale capace di garantire un’alternativa alle esportazioni di petrolio. Sotto gli occhi di tutti è anche il nefasto potere speculativo delle imprese private e delle multinazionali straniere all’interno del paese le quali, oltre ad avere sotto la propria ala partiti politici, stazioni televisive e giornali di opposizione, hanno il totale controllo della distribuzione dei beni di prima necessità, che sfruttano per destabilizzare il paese grazie ai sabotaggi ormai all’ordine del giorno. È proprio dinanzi a questa realtà che emergono i limiti di una concezione politica che, nel nome di un socialismo “più democratico”, rinuncia a combattere con i mezzi che sarebbero necessari gli esponenti di una classe avversaria che si dimostra disposta a tutto pur di riprendere il pieno controllo del paese e riconquistare i privilegi perduti.
In conclusione, il destino del Venezuela e della rivoluzione bolivariana oggi dipende da una maturazione rivoluzionaria dei suoi dirigenti, che si rende sempre più necessaria dinanzi ai problemi di un processo di trasformazione ancora incerto e fermo alle prime fasi. Un ruolo di primo piano nell’elaborazione di una nuova strategia politico-economica di opposizione ai nemici interni ed esterni dovrà essere inevitabilmente ricoperto dal Partito Comunista del Venezuela, che da sempre lavora per un maggiore sviluppo del processo bolivariano verso una prospettiva realmente socialista. La rivoluzione bolivariana ha portato grandi conquiste per le masse popolari del Venezuela, con milioni di persone tirate fuori da povertà e analfabetismo, da un futuro privo di diritti e dignità. Ma oggi è necessario far avanzare questa rivoluzione e svilupparla fino in fondo, altrimenti il rischio di perdere le conquiste raggiunte fino ad oggi, tornando indietro di decenni ai tempi in cui il paese era dominato dai grandi petrolieri, è assolutamente concreto.